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Autore: Emily_Jhonson    31/10/2016    3 recensioni
Sherlock Holmes stava pensando.
Per quanto un'affermazione del genere potesse essere estremamente probabile senza alcuna prova su cui fare riferimento, le armoniose note che si levavano da dietro la finestra del duecentoventuno di Baker Street appianavano qualsiasi dubbio sorto; e John Watson non avrebbe potuto volere altro, se non essere lì in quel momento.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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"Via di fuga"



L'archetto si muoveva sinuoso avanti e indietro, sfiorando le corde tese e producendo l'armonioso suono di una complessa e artificiosa composizione.
La slanciata figura nera si stagliava di fronte il grande infisso impolverato, mentre le prime luci dell'alba l'avvolgevano con i loro tenui colori, rendendo quell'immagine degno soggetto di un quadro.
Il medico era seduto su una vecchia poltrona rossastra, scolorita e logorata dagli anni, mentre ascoltava con una assuefatta concentrazione le note che si disperdevano per l'ambiente, deciso a godersi quel momento ancora per qualche minuto, continuando ad ignorare i messaggi che per tutta la notte avevano fatto vibrare il suo telefono sul tavolo della cucina.
Sherlock Holmes padroneggiava lo strumento con una classe regale e il Dottor Watson ne era decisamente affascinato. Il braccio - avvolto nella manica arrotolata di una costosa camicia nera- accompagnava la bacchetta di legno sulle corde di nylon in tensione, il volto era accostato alla cassa armonica e il mento poggiato nell'apposito incavo; la fronte era corrugata in una serie e concentrata espressione, mentre gli occhi cristallini scorrevano sulle pagine ingiallite dello spartito che aveva di fronte.
La complessità che si celava dietro quella eufonica armonia era annientata dalla semplicità ed eleganza di quei movimenti determinati e precisi, ma rilegati fra loro da una fluida naturalezza e da una inequivocabile volontà. La dedizione che Sherlock Holmes aveva impiegato nello studio di quel particolare strumento non appariva nemmeno tangibile osservando la facciata cinica e apatica da sociopatico che mostrava quotidianamente, sminuendo e occultando l'umana sensibilità necessaria per tale virtuosismo.
Era passato davvero troppo tempo dall'ultima volta in cui il soldato aveva avuto l'occasione di sentire il suo migliore amico suonare ed era risoluto sul non lasciare distrarsi da qualsiasi altro problema incombesse sulla sua vita sino al momento in cui il suo migliore amico avesse posato lo strumento.
L'angolazione dell'arco cambiò ancora una volta e l'ultima nota risuonò nella stanza, concludendo con un plateale silenzio i lunghi minuti occupati da quell'inedito componimento. I lineamenti del medico si piegarono in un'espressione di disappunto, osservando il detective- ancora di spalle- riporre accuratamente lo strumento di fianco al leggio: per quanto quella melodia fosse stata una delle più durature, per John era sembrata troppo corta.
Ma avrebbe avuto la stessa percezione anche se Sherlock avesse suonato per intere ore, per tutta la giornata, addirittura fino all'alba successiva; sarebbe rimasto su quella poltrona in eterno, se - come il tempo- quella musica fosse stata in grado di congelare anche le responsabilità che gravavano sulla sua schiena. Ma così- purtroppo- non era. Per quanto piacevole, quell'unione di note aveva solamente coperto lo squillo del suo telefono e il tempo che credeva congelato in realtà era trascorso indisturbato, aumentando - in quei secondi divenuti minuti e minuti trasformatesi in ore - il peso delle chiamate ignorate e dei messaggi non letti.
Sherlock Holmes si lasciò cadere sulla poltrona di fronte all'amico, afferrando sul tavolino di fianco un piccolo fazzoletto di stoffa bianco. Le dita affusolate avvolsero il panno attorno alla corda dell'archetto che aveva in mano, cominciando a pulirla con un meticolosa cura. - “Allora?”- Chiese l'investigatore, rivolgendo al soldato un fugace sguardo con la coda dell'occhio. -
Era davvero bella, mi è...”- Tentò di rispondere John, ma Sherlock lo interruppe con un rumoroso sospiro. - “Non mi riferivo al componimento, John”- Precisò. Gli occhi del consulente investigativo si alzarono dalla stecca dopo qualche istante di esitante silenzio, confermando le supposizioni che avevano preso forma nella sua mente diverse ore prima, quando - dopo un'apparente caso di omicidio- John si era offerto di aiutarlo negli esami che erano susseguiti alla perlustrazione della scena del crimine, passando l'intera nottata a Baker Street.
Sherlock non aveva avuto bisogno di alcuna domanda per appurare l'evidente momento difficile che il suo matrimonio - reputatosi essere non poi così felice come il soldato persisteva ostentare- stesse passando e la sua titubanza sull'affrontare le conseguenze alle sue - pessime- scelte.
Ho litigato con Mary”- Affermò abbassando lo sguardo sulle sue scarpe. Sembrava un bambino, pensò Sherlock, non un adulto pronto a divenire presto padre. - “Dimmi qualcosa che già non so”- Ribatté l'investigatore atono, continuando a pulire il suo archetto. John sollevò gli occhi, cercando conforto nello sguardo dell'amico, ma quello era concentrato sulla minuziosa pulizia un uno stupido pezzo di legno. - “Non ho voglia di parlarne, Sherlock”- Confessò quasi infastidito e amareggiato: a breve avrebbe dovuto fare rientro a casa sua, non voleva trascorrere quella mattina a parlare dello sfaldamento del suo matrimonio.
Come non hai voglia di parlare con tua moglie?”- Perseverò l'amico, incurante delle parole dell'altro. John sospirò irritato, fulminandolo con lo sguardo. - “Sherlock!”- lo riprese, abituato alla sua indelicata necessità di sapere.
Okay”- Gli concesse il detective, riponendo l'archetto sul pavimento dietro la poltrona, vicino al violino. - “Di cosa vuoi parlare?”- Aggiunse, incrociando le braccia in grembo e accavallando una gamba. John lo scrutò con lo sguardo per qualche secondo, ricercando fra i suoi pensieri il primo argomento gli venisse in mente per imbastire una conversazione che lo avrebbe allontanato, per un altro breve intervallo di tempo, dai suoi doveri. - “Del caso”- Improvvisò, ricordandosi di come- poche ore prima- aveva inconsciamente ignorato le cavillose descrizioni di Sherlock sul recente omicidio, chiudendo le palpebre stanche ogni volta che l'investigatore inchinasse la testa sul professionale microscopio.
"Intendi il suicidio di Rupert Higgins?"-
John annuì, bloccandosi poco dopo, le sopracciglia aggrottate e la testa piegata di lato in una espressione perplessa. -"Non era un omicidio?"-
Sherlock Holmes piegò le labbra in una espressione stizzita. - "Sono contento tu mi abbia ascoltato!"- Esclamò sarcastico.
"Pensavo stessi parlando con il teschio"- Ribatté ironico il soldato, in un vano tentativo di giustificarsi.
Sherlock Holmes portò una mano sul viso, stringendo con due dita l'attaccatura del naso e sospirando pesantemente, accennando uno spiraglio di stanchezza. Per quanto si rifiutasse di sottostare alle regole a cui la biologia vincolava gli esseri viventi, il suo corpo risultava comunque essere un groviglio di cellule e molecole, un organismo pluricellulare con fondamentali bisogni a cui adempire.
Ma non poteva rinunciare a dimostrare - ancora una volta - la sua superiore intelligenza, esponendo le sue infallibili deduzioni e gli intrigati ragionamenti che vi si nascondevano dietro, sottolineando più e più volte quanto i dettagli presi da lui in considerazione per arrivare a quell'incredibile soluzione fossero evidenti persino ad un bambino, se solo le persone avessero sostituito il loro guardare con una attenta osservazione. Era determinato ad elencare nuovamente i suoi passaggi per stravolgere quel caso di apparente omicidio con la sua solita arroganza e sufficienza, sebbene John Watson conoscesse alla perfezione - probabilmente più di chiunque altro - le sue strabilianti qualità, ma Sherlock preferì attenersi all'ipotesi del suo egocentrismo, pur di ammettere di voler rimanere qualche altra ora in compagnia del suo migliore amico, sempre più lontano da quella casa dal giorno di quel fatidico sbaglio. Il medico lo guardava attento, anche lui vagamente segnato dalle ore di sonno mancate, aspettando pazientemente che Sherlock cominciasse a parlare.
Il detective fece combaciare i polpastrelli delle sue mani sotto al volto, umettandosi le labbra secche, prima di aprire bocca. -"Rupert Higgins era un intrepido viaggiatore, da quello che riportano i vicini e lo conferma la mensola sopra il caminetto, piena di cianfrusaglie inusuali provenienti da diverse parti del mondo..."-
"Non potevano essere dei ricordi portati da qualcun'altro?"- Intervenne interessato il soldato, interrompendolo.
"Non aveva così tanti amici da riempire un intera mensola e poi, dietro la porta della sua camera da letto, teneva a portata di mano due valigie, una delle due ancora piena, risalente al suo recente ultimo viaggio: Sicilia, Italia, come indicava il biglietto attaccato al bagaglio." - Il consulente investigativo attese per un attimo che il suo collega recepisse bene le sue parole, prima di continuare.
"Non aveva famiglia, nessuno che possedesse una copia delle chiavi di casa sua, la porta è stata forzata dall'ignaro vicino che ha cominciato a sentire un odore di marcio provenire dall'interno, allarmandosi. Tuttavia, quest'ultimo, non aveva alcun movente per ucciderlo, ne' tanto meno le capacità per farlo."- Disse L'investigatore immaginando di fronte a se il volto stanco e stressato del dipendente sottopagato - profonde occhiaie, viso smagrito e vestiti di seconda mano- che si era trovato -all'improvviso, coinvolto nell'uccisione di un uomo.
"Non ha alcun senso neanche il suicidio della vittima: aveva un'ottima situazione economica, un casa di sua proprietà e nessuno ha mai ipotizzato potesse essere affetto da depressione"- Ribatté confuso il soldato.-"Perché avrebbe dovuto avvelenarsi da solo?"-
"Perché non ero consapevole nel momento in cui lo ha fatto"- Spiegò Sherlock, senza riuscire ad assottigliare la fitta nube di confusione che aveva piegato i suoi lineamenti. - "Non vi era alcun gingillo portato dall'Italia"-
"Magari era ancora nella valigia"- Ipotizzò John, ma l'amico scosse la testa. - " Si tratta di ultimi acquisti, effettuati solitamente alla fine del viaggio, non vengono riposti nella valigia, ma nel bagaglio a mano"- Puntualizzò.
"Non c'era nulla nello zaino"-
"Proprio così."- Confermò. -"Rupert Higgins torna due giorni fa dalla Sicilia, poggia la valigia in camera da letto e si rilassa qualche ora sul divano dopo la fatica del viaggio. Apre lo zaino e tira fuori il sacchetto di plastica trasparente, quello che abbiamo ritrovato in superficie nella pattumiera.
"Cosa conteneva?"- Domandò John, visibilmente interessato dal racconto dell'investigatore.
"Mandorle. Non mandorle comprate in un negozio, mandorle fresche, raccolte da lui stesso. La suola delle scarpe era ricoperta da un sottile strato di terra secco, conteneva un elevata quantità di sali minerali e agenti chimici impiegati nella fertilizzazione, un frutteto. Le mandorle sono tipiche del luogo, ma la nostra vittima non era molto esperta al riguardo. Per quanto possa essere confuso con un comune mandorlo, quelle raccolte da Rupert erano mandorle amare, come spiegano i rimasugli sulla dentatura”- Rispose il detective, continuando l'esposizione della sua deduzione. - “ La mandorle amare hanno un alto contenuto di amigdalina, uno dei più importanti glicosidi cianogeni che- per idrolisi- determina la generazione dell'acido cianidrico”-
E questo spiega l'intossicazione da cianuro”- Concluse il Dottor Watson, palesando con ovvietà quello dedotto dall'investigatore.
Sherlock annuì di tutta risposta, vagamente amareggiato di aver concluso in così breve tempo le sue spiegazioni. - “Adorabili, gli umani: alla continua ricerca di conoscenza riescono a perdersi nell'oceano dell'ignoranza, annaspando, fino ad agonizzare sul fondo”- Aggiunse Sherlock con una nota di delusione. - “Ma d'altronde è così facile riporre la propria fiducia nelle apparenze, dare tutto per scontato”-
John lo guardò per qualche secondo, prima che un sorriso si allargasse sul suo volto, accennando quasi una risata. Il detective lo guardò con un aria confusa, incapace di comprendere il motivo di quella improvviso cambio di umore. -”Perché ridi?”- Chiese interrogativo, lasciando i suoi occhi di ghiaccio in quelli divertiti dell'amico. -”Perché ancora non riesco a capire come”- Rispose, con una nota di meraviglia nella voce. Sherlock piegò la testa di lato, scrutandolo perplesso. - “Come tu faccia ad essere così intelligente. Lo avevi capito dopo cinque minuti entrato dentro quell'appartamento che non si trattasse di un omicidio, bensì di un suicidio. Hai impiegato poco meno di mezz'ora per dimostrarlo.”- Si spiegò meglio. - “Ma come è possibile?”- Domandò, ma quel quesito non sembrava esser rivolto a nessuno in particolare, come se si fosse arreso da tempo all'impossibilità di trovare quella razionale ed incomprensibile risposta. Il volto spigoloso del consulente investigativo venne addolcito da un lieve sorriso soddisfatto al suono di quelle parole affascinate, ricordandosi di tutte le volte in cui il medico aveva dimostrato a voce alta il suo meravigliato stupore, dopo le esposizioni- durante la risoluzione di un caso- delle sue infallibili deduzioni. Erano passati anni da quando la loro quotidianità era stata brutalmente interrotta dalle fatidiche scelte di Sherlock, e per quanto i casi che erano susseguiti al suo ritorno avessero riempito archi di tempo della loro vita, nulla aveva più il sapore delle consuetudini del passato, ormai irrevocabile. Il tempo a loro disposizione era sempre più breve, le priorità del soldato erano notevolmente cambiate da quando aveva scelto di costruirsi una famiglia e le abitudini di un tempo erano state sostituite da doverose responsabilità. L'opprimente sensazione che spesso gravava sul petto di Sherlock Holmes al rivangare involontariamente quei lontani ricordi poteva facilmente essere catalogata come malinconia, ma il farlo avrebbe dovuto implicare l'ammissione delle sue colpe e dei suoi sbagli e suonava inammissibile nel metodico universo che esisteva all'interno del suo cranio, da cui i sentimentalismi erano esclusi.
Sherlock Holmes scansò quegli inopportuni ragionamenti - ultimamente, sempre più frequenti- in un angolo remoto della sua mente, tornando ad osservare nel silenzio lo sguardo dell'uomo di fronte a lui, momentaneamente intento nello scrutare l'orario sul suo orologio da polso. Il detective sospirò impercettibilmente, infastidito dal significato tra le righe di quell'immagine. - “Devi andare”- Affermò atono, mutando improvvisamente i lineamenti del suo viso in un'espressione seria, anticipando le parole dell'amico.
Il Dottor Watson alzò lo sguardo dalle piccole lancette, anche lui contrariato da quella realtà. - “Mi stai mandando via da casa tua?”- Ironizzò, con una teatrale sorpresa sul volto. Sherlock trattenne una risata, soffermandosi poi a riflettere - per brevi istanti- sulle ultime due parole che avevano catturato, amaramente, la sua attenzione. Il 221B di Baker Street era tornato ad essere la residenza del solo investigatore dopo un lungo lasso di tempo in cui di fianco al suo cognome - sul contratto d'affitto- ne era seguito quello di John, ed oltre al vuoto sulla carta, quella sigla aveva lasciato un'enorme vuoto anche fra quelle quattro mura, dalle quali Sherlock tentava spesso di evadere- distraendosi con il suo lavoro- pur di non affrontare i fantasmi che le popolavano.
Hai capito perfettamente”- Rispose il detective, con la stessa drammaticità dell'amico. Sorridendo, il Dottor Watson si tirò in piedi dalla sua consumata poltrona, afferrando il suo cappotto poggiato distrattamente sul divano. Sherlock gettò un occhio sul suo orologio, ignorando quale ora avessero sfiorato quella notte, perdendosi in futili parole, sguardi stanchi e piacevoli silenzi. - “Puoi rimanere quanto vuoi, non devo ricordartelo”- Sherlock si alzò dalla poltrona, svolgendo il tessuto stropicciato delle maniche a coprire le esili braccia ed indirizzando qualche passo verso l'amico. John scosse lievemente la testa, infilandosi la pesante giacca imbottita. - “No, non posso”- Sospirò, sbadatamente, come un pensiero fugace uscito involontariamente dalle sue labbra. Sherlock aggrottò perplesso le sopracciglia, nuovamente confuso. Il soldato incrociò il suo sguardo- in attesa di delucidazioni - nell'improvviso silenzio, d'un tratto opprimente, incerto sul cosa dire. - “Se potessi scegliere di rimanere quanto voglio, non me ne andrei più”- Confessò, tentando invano di nascondere il disagio nella sua voce. - “Ho delle...”- Cercò di aggiungere, sperando che la sua voce riacquistasse sicurezza, ma Sherlock lo interruppe. - “Responsabilità a cui badare, certo ” - Sentenziò il detective, marcando volontariamente l'ultima parola con ovvietà. - “Priorità maggiori che gravano sulla tua vita rispetto...”- Sherlock indugiò per un secondo prima di concludere la sua frase, scioccamente distratto dallo sguardo provato del suo migliore amico, assolutamente incapace di reggere ulteriori fardelli di cui occuparsi. Il viso di John Watson non era lontanamente paragonabile a quello di uomo soddisfatto dopo tre mesi di felice matrimonio in attesa di diventare padre, al contrario sembrava un volto reduce al passaggio di una tormenta, che aveva stravolto inaspettatamente le certezze delle sue scelte, vincolandolo - senza alcuna via di fuga- alle rispettive conseguenze.
Rispetto a cosa, Sherlock?”- Lo invitò a continuare il medico, pronto a cedere al suono di quella risposta.
Il detective si trovava di fronte a due strade e, come in passato aveva già fatto per l'uomo che aveva di fronte, scelse di mettere da parte il suo egoismo, per quanto la piaga che quel matrimonio aveva aperto sul suo petto fosse ancora fresca. - “Rispetto a te, John”- Rispose, senza tentennare. - “Ma quando si mette su famiglia è questo che accade, no? Ci si annulla per l'altro, si mette da parte il nostro egoismo pur di vedere felice la nostra dolce metà, sono scelte”- Continuò, oltrepassando, irresponsabilmente, i limiti che la sua mente aveva risolutamente imposto. Il Dottor Watson annuì, abbassando lo sguardo, titubante. - “Sei convinto delle tue, John?”-
Gli occhi grigi si sollevarono all'improvviso dal suolo, tornando a fissare le inquisitorie iridi azzurre; il soldato era turbato non tanto dalla domanda, ma dalla risposta che si era istintivamente fatta largo nella sua testa con l'urgenza di essere buttata fuori, gridata a quelle quattro mura o semplicemente sussurrata ad un orecchio attento, eppure John rimase in silenzio, ingoiando quelle parole amare che non sarebbe stato giusto pronunciare, ne' ora, ne' mai. - “Assolutamente”- Mentì, padroneggiando una fermezza che non pensava di avere. L'espressione dell'investigatore rimase impassibile, a differenza del suo migliore amico, Sherlock Holmes era in grado di dissimulare, celare le sue emozioni dietro la sua facciata insensibile e apatica, tal volta sputando qualche cattiveria per nascondere la sua frustrazione, ma non quella volta. Non serviva un investigatore privato per capire quanto quell'affermazione così sicura fosse falsa, un lenzuolo troppo corto per cercare di nascondere una realtà così evidente. - “Ho preso le mie decisioni, ho fatto le mie promesse”- Continuò, elencando quegli eventi come promemoria,quasi tentando di convincere se stesso mentre il telefono sul tavolo della cucina ricadeva nel silenzio dopo l'ennesimo squillo.
'Talvolta le decisioni che si prendono sono sbagliate e le promesse sono fatte per essere infrante' - Pensò egoisticamente il detective, lasciando che l'irrazionalità prendesse il controllo della sua mente solo per un attimo e nutrendosi della falsa speranza di essere lui stesso la scelta giusta. Quel pensiero ebbe breve durata, fu quasi istintivamente cancellato dalla testa dell'investigatore subito dopo esser stato partorito, assolutamente inconsiderabile.
Riconosco quando menti”- Affermò Sherlock, imperterrito, continuando a scrutarlo con il suo sguardo inquisitore. La fermezza del medico non vacillò, per quanto quell'affermazione - o più probabilmente, la verità- lo avesse innervosito. - “Smettila”- Gli intimò a denti stretti, le pupille improvvisamente più dilatate e le iridi scurite. -“Di fare cosa?”- Domandò il detective, vagamente perplesso.
Di fare questo”- Rispose John con la voce sfumata dalla stanchezza e dalla rabbia . - “Di guardarmi dal tuo gradino di superiorità come se fossi una dei tuoi criminali o -peggio- una delle tue vittime, costringendomi ad ammettere verità che non posso sentire mie”- Parola dopo parola, quella frase veniva appesantita dal senso di colpa che lo stava logorando, ormai -nonostante gli sforzi- innegabile.
Sherlock trasalì impercettibilmente, colto alla sprovvista da quella giustificata reazione. - “E' umano commettere degli errori, John”- Disse l'investigatore, nel vano tentativo di calmarlo. - “Va bene”-
No, Sherlock, non va bene!”- Ribatté esasperato. - “Sto per diventare padre, non dovrei nemmeno pensare che il matrimonio con Mary sia un errore. Non sono neanche in grado di essere un buon marito, se ammettessi di aver sbagliato, come potrei pensare di essere un buon genitore?”- Gli occhi del Dottor Watson vennero ricoperti all'improvviso da una patina lucida, ricolma di frustrazione, ma le lacrime furono all'istante spinte in dietro, morendo con un acuto bruciore alla fine della gola. I lineamenti di Sherlock erano improvvisamente più tesi, incapace di fronteggiare quella situazione: l'empatia non era mai stata il suo forte. Eppure, per quanto cercasse di esternare un'inopportuna freddezza, quel dolore gli apparteneva più di quanto non volesse ammettere, lo sentiva suo insieme a quella frustrante incapacità di trovare una soluzione, stavano cercando di vincere la guerra di cui erano i prigionieri. - “Se solo non te ne fossi andato...”- Sussurrò con voce rotta il soldato con lo sguardo rivolto altrove, pentendosene all'istante.
L'autocontrollo del detective fu messo a dura prova da quell'affermazione, più dolorosa di una pallottola nel petto: oltre ad accrescere il peso dei suoi errori, quella frase aveva riacceso vane speranze, dando vita e spessore ad irrazionali illusioni, concretizzando passate possibilità ormai troppo lontane.
Sherlock rimase fermo, quasi terrorizzato dalle emozioni che stavano prendendo il sopravvento su di lui, scatenando il caos nei precisi schemi della sua mente. Il telefono in cucina emise l'ennesimo squillo, interrompendo l'opprimente silenzio calato fra quelle quattro mura, mentre i raggi del sole si allungavano da dietro le sporche vetrate, raggiungendo le poche zone d'ombra rimaste. John sospirò, scattando esasperato al suono del suo cellulare, affrettandosi in cucina per metterlo a tacere nuovamente . Sherlock fu grato a Mary per aver chiamato ancora - per la prima volta, in quella lunga serata-, risoluto sul riprendere il controllo di se stesso senza più John fra i piedi, per quanto in realtà gli dispiacesse.
Il display illuminato riportava ventisette messaggi, quindici chiamate e tre messaggi in segreteria, tutti provenienti dalla stessa persona. Il soldato fece scorrere un dito sullo schermo con aria scocciata, esitante a chiamare la sua preoccupata compagna. Non era stato affatto maturo ignorare le sue chiamate per tutta la notte, dopo essere uscito di casa sbattendo rumorosamente la porta e senza dirle dove stava andando. La vita di coppia non era stata affatto come John si era illuso fosse dopo quelle promesse sopra ad un altare, neanche un decimo delle sue aspettative era stato soddisfatto ed era perfettamente consapevole che la colpa di questo era sua. Era insensato cercare la felicità all'interno di una gabbia buia, nella quale lui stesso si era andato a rinchiudere, non vi era alcuna via di fuga, l'unico sollievo che John poteva concedersi era osservare lo spiraglio di luce che penetrava dalle sbarre, respirando a pieni polmoni quell'assaggio di libertà.
I pensieri contrastanti del medico vennero interrotti dall'acuto suono del violino, le prime note di quell'inedito componimento che aveva ascoltato qualche minuto prima. John fece scivolare il telefono nella tasca, voltandosi verso l'ombra scura che suonava di fronte all'infisso, teso e concentrato sullo spartito.
Sherlock stava pensando, ancora una volta la musica l'avrebbe riportato sui suoi statici binari con la precisione delle sue note legate insieme da artificiose armonie, ristabilendo l'ordine nella sua caotica mente. La porta non fece il rumore da lui previsto, nessuno l'aprì: John Watson si lasciò cadere sulla poltrona ancora una volta, lasciando che un sorriso sollevato curvasse le sue labbra, risoluto sul respirare per ancora quale minuto l'aria di quell'appartamento, sotto i raggi dell'unico sole che potesse mai illuminare gli errori della sua vita.
Anche gli angoli della bocca di Sherlock Holmes si sollevarono verso l'alto, ammorbidendo la sua dura espressione, determinato sull'accompagnare l'archetto sulle corde fino a quando le braccia non si fossero stancate di muoversi.
  
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