Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: JustAMermaid    31/10/2016    1 recensioni
“La vita di Jotaro Kujo poteva essere riassunta in una serie di situazioni strambe quanto imbarazzanti.”
Quando hai quattordici anni e tu e tuoi amici riuscite a vedere una donna dai capelli fatti di serpenti, ti potresti fare un paio di domande.
Soprattutto quando tuo nonno ti rivela di essere figlio della dea Atena.
In confronto al resto, questo era più che bizzarro.
{ PercyJackson/Heroes of Olympus!AU | Minilong | Past CaeJoseQ, Hints JotaKak e AvPol | Parte di una cosa più grande, non so se ci farò mai una long | Parte della serie “JoJo and the Olympians” | Non serve aver letto i libri per capire la storia! Solo sapere qualcosina di mitologia greca! }
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'JoJo and the Olympians'
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Capitolo I – Jotaro: Di bulli traumatizzati e lezioni di Mitologia Greca

 

La vita di Jotaro Kujo poteva essere riassunta in una serie di situazioni strambe quanto imbarazzanti.

Che, per dire, era la norma se eri solo un ragazzino di quattordici anni che cambiava scuola come si cambiano i vestiti, ma doveva esserci un limite a tutto, persino alle stranezze. Era impossibile che all’asilo le fontanelle d’acqua esplodessero appena urlava contro un compagno che lo aveva trattato male, come era impossibile che a dieci anni avesse richiamato un intero branco di delfini a bordo della piscina della nave da crociera solo perché li aveva salutati come se fossero amici di scuola.

Quindi sì, la vita di Jotaro Kujo era altamente bizzarra. Contando anche il fatto che non riuscisse a leggere o a scrivere perfettamente in inglese e giapponese ma che capisse il greco antico come se fosse nato per farlo. E anche perché non sapeva ben nulla di suo padre, solo che sua madre, Holly Joestar, aveva detto di aver incontrato un bel giovane in Giappone mentre era in viaggio di lavoro, dove avevano vissuto sotto il nome di Kujo fino a quando Jotaro aveva compiuto nove anni.

Ma niente o nessuno lo aveva preparato ad avere il proprio nonno come professore di storia antica.

Alcuni giorni prima, aveva litigato con sua madre per via della nuova scuola  alla quale sarebbe dovuto andare: l’Istituto Saint Marie per ragazzi problematici. Non era il posto in sé – la scuola era situata in un luogo abbastanza tranquillo ed era poco frequentata per la gioia di Jotaro – ma pensare che quel vecchiaccio di Joseph Joestar sarebbe stato il suo prof gli rovinò la serata. Nemmeno i pancake mattutini con doppia guarnizione di panna gli sollevarono il morale.

Ed era un brutto segno. Erano l’unica cosa che gli davano un po’ di energia la mattina.

E la giornata diventò ancora peggio quando vide arrivare il vecchio fuori la porta con la sua dannata winnebago. Quel catorcio aveva l’aria di poter rompersi da un momento all’altro. Jotaro sperò succedesse. Almeno non si sarebbe rovinato la reputazione il primo giorno di scuola.

Ora sedeva vicino al finestrino e al nonno, senza cintura e con il cappellino nero come i suoi capelli spettinati calcato in testa, la stessa espressione di sempre in viso. Fortunatamente non aveva dovuto mettersi una divisa, ma aveva la sua fidata giacchetta nera con se. La tracolla non era nemmeno tanto pesante: solo qualche libro e delle penne.
 
- Perciò… nuova scuola, eh?

Joseph continuava a tenere gli occhi puntati sulla strada di New York e le mani avvinghiate al volante. Jotaro non rispose.

Il vecchio era un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati e quasi bianchi, occhi verdi, con la corporatura di un palestrato, le braccia forti e l’aria furba. Il tipo di cui ti potevi fidare ma vicino al quale non dovevi mai abbassare la guardia se lo facevi arrabbiare. Vestiva come se fosse una specie di archeologo, tanto di cappello. Inoltre indossava un paio di guanti sulle mani che, almeno Jotaro, non aveva mai visto. Forse indossava un tipo di braccia prostetiche delle quali non gli aveva mai detto per via del fatto che si collegassero a qualche brutto ricordo.

- Dai ragazzo, non puoi tenermi il muso in questo modo.

- Non sto tenendo il muso.

Joseph fece una corta e grassa risata: - Ah! Sai quante volte ho detto la stessa cosa a mia nonna Erina! Tranne che per me era il ridere. Ridevo sempre, e continuo a pensare che sia una buona medicina. Dovresti provare a ridere anche tu, Jotaro.

Il ragazzo continuò a restare in silenzio. Osservo il traffico fuori dal finestrino e poi l’interno bianco latte della winnebago. Gli cadde l’occhio sulla fascia colorata che Joseph portava legata al polso, decorata con un motivo triangolare. Non era la prima volta che l’aveva notata, ma il vecchio sembrava non separarsene mai. Per quanto il ragazzo ne avesse potuto sapere la lasciava legata anche quando andava a dormire.

- Dimmi, vecchio – iniziò Jotaro – come mai hai sempre quella fascia con te?

Il sorriso sulla faccia del Joestar si affievolì, ma la presa al volante sembrò diventare più salda. Guardò alla sua sinistra, nello specchietto, per poi voltare lo sguardo verso Jotaro non appena si fermarono ad un semaforo.

- Era di un amico. Anche se non credo di poterlo spiegare, Jotaro. E’ troppo complicato, non mi crederesti.

Jotaro rimase sorpreso dalla risposta di suo nonno, di solito era il tipo di persona che diceva tutto. Annuì.

- Ok, va bene. Ero solo curioso.

- Un giorno potrei anche dirtelo. Ci sono forze alle quali non possiamo andare contro, la verità è una di queste.

Il ragazzo capì di aver fatto una domanda scomoda e non aggiunse altro. Joseph restò zitto per il resto del viaggio verso l’Istituto.



 
*** Ψ ***

 

Poche persone, avevano detto.

Evidentemente sua madre non conosceva il significato di quella parola, pensò Jotaro.

Era come se il Saint Marie fosse una stazione dei treni, di quelle nuove: persone continuavano ad uscire ed entrare nella scuola, altre correvano, e molti studenti parlavano all’entrata dell’istituto. L’edificio era moderno e pitturato di bianco – così lucente che con la luce del sole di quella mattina di Settembre quasi avrebbe potuto accecare – e dall’interno proveniva un odore di detergente per le pulizie e merendine delle macchinette. Non sembrava per niente costruito per “ragazzini problematici”. Jotaro fu grato della cosa.

- Ehi! – lo chiamo Joseph – Mi potresti aiutare con questa roba, per piacere?

Jotaro girò la testa per vedere il vecchio armeggiare con una scatola di cartone della grandezza di un braccio e mezzo, di forma rettangolare. Non l’aveva notata prima. Aveva scritto sopra con un pennarello nero ‘FRAGILE’ a caratteri cubitali, e poi sotto “Proprietà della Speedwagon Greek Archeology Association”. Arrivò a passi lenti verso Joseph, aiutandolo a prendere la scatola. In effetti pesava tanto.

Passarono per il giardino della scuola ed entrarono nell’edificio. Alcune persone si fermarono a guardarli e a ridere di Jotaro ma lui li azzittiva soltanto con lo sguardo. Quasi si divertiva a farlo.

La scuola sembrava ancora più grande da dentro. Le pareti erano colorate di grigio scuro e decorate da un susseguirsi di armadietti bianchi e bacheche di sughero. La classica scuola americana.

- Grazie tanto, Jotaro – disse ad un certo punto Joseph, facendo forza sulle mani per portare da solo lo scatolone – Puoi pure andare, devo solo sistemare questo nel mio ufficio. Ricorda che hai la prima ora con me.

Jotaro sbuffò, e si incamminò per il corridoio salutando suo nonno con un distratto gesto della mano.

Non sapeva che a momenti sarebbero iniziate ad accaderne di belle.


 
*** Ψ ***

 

Jotaro passò davanti alla caffetteria e si appoggiò alla porta, i fogli della segreteria in mano.

Alla fine non era andata così male come credeva. Ma era solo inizio giornata. Aveva visto in giro ragazzi parlare ignorando il fatto che fossero lì per via del loro comportamento. Quasi gli sembrava finalmente di essere un ragazzo normale.

Ma i ragazzi normali non riuscivano a respirare sott’acqua più di quindici minuti, e non rovinavano ogni gita alla quale partecipavano perché picchiavano il ragazzone di turno che li avevano insultati.

E i ragazzi normali, ecco, i loro padri andavano a trovarli. E si divertivano.

Jotaro era arrabbiato con suo padre, ovunque fosse. Sua madre era sempre sorridente ma quel bastardo non l’aveva più vista appena una settimana prima della nascita di suo figlio. Era scappato via.

Strinse i pugni.

- PISTA!

Il ragazzo stava proprio per incamminarsi verso la classe, quando vide correre verso di lui due ragazzoni vestiti di tutto punto con in mano una catenina alla quale era attaccato un ciondolo.

Jotaro fece in tempo a spostarsi, trattenendosi da non urlargli dietro un bel po’ d’insulti. Scosse la testa.

- Ma guarda un po’…

- Ehi, fermi!

Ancora un altro.

Al fianco di Jotaro sfrecciò un ragazzo alquanto strano. Aveva la faccia puntellata di chiarissime lentiggini e gli occhi azzurri, la corporatura robusta. Portava un chiodo nero in pelle sopra una t-shirt dello stesso colore e pantaloni bianchi strappati alle ginocchia. Sembrava pronto per un raduno di motociclisti, se non fosse stato per i capelli. Jotaro dovette assottigliare gli occhi per capire che il ragazzo aveva li aveva praticamente bianchi – oltre che piani di gel. Inoltre portava persino un paio di orecchini rossi.

- Fermatevi, stronzi! – urlò il ragazzo dai capelli bianchi – Se vi prendo siete finiti!

Ecco, ora sì che la scuola sembrava essere davvero quello che si era aspettato. Era sicuramente meglio della precedente… E di quella prima ancora. Però ora era incuriosito, diamine. Probabilmente il ciondolo con il quale i primi ragazzini stavano correndo apparteneva al tizio con i capelli bianchi, quello di sicuro.

Sentì una voce differente provenire dal fondo del corridoio: - Fate passare, per favore!

Questa volta vide un ragazzo camminare a passo spedito verso la direzione dove erano corsi gli altri tre. Aveva grandi occhi scuri e la pelle ambrata, i capelli legati in un codino basso. I suoi vestiti erano alquanto ben fatti per essere quelli di uno studente, dovevano per forza esser fatti di seta o qualcosa di simile, con tutti quei ricami complicati. Dal portamento sembrava persino un principe, anche perché era coperto da gioielli, dalla collana color oro ai bracciali intorno ai polsi. Sembrava essere sui quindici anni proprio come il suo amico. Sicuramente molto più calmo del coetaneo.

Si fermò vicino a Jotaro, proprio all’angolo, cercando con lo sguardo l’altro.

- Scusami, - iniziò poi, rivolto a Jotaro – hai per caso visto un ragazzo coi capelli bianchi correre per di qui? Non finisce mai di mettersi nei guai.
Jotaro lo squadrò da capo a piedi, poi un cenno del capo indicò davanti a lui: - E’ passato per lì. Farai meglio a vedere dov’è, credo che sia piuttosto incasinato.

- Ridammelo!

“Parli del diavolo”. Il ragazzo era spuntato dietro l’angolo, e teneva per il polso il più grande dei due bulli, che aveva ancora la catenina in mano. Il secondo dei due, più mingherlino ma per questo non meno forte, approfittò della situazione. Con le braccia avvolse il bacino dell’altro e lo staccò dalla presa ferrea del proprietario del gioiello, che si sbilanciò sulle proprie gambe pericolosamente. In un attimo finì con il sedere a terra, ma non sembrò importargliene molto. Tastò la giacca, come ad assicurarsi che niente all’interno delle tasche si fosse rotto, e più continuava più sembrava entrare nel panico. I bulletti risero. Avevano la faccia butterata e i capelli ben curati, Jotaro capì che probabilmente erano figli di alcuni ricconi della zona.

- Che cretino! – disse quello più basso dei due, mentre prendeva dalle mani del compagno di scuola il cammeo e cercava di aprirlo – Figura di merda già nella tua prima settimana di scuola? Farai proprio un figurone!

Il ragazzo che lo aveva interrogato prima sgranò gli occhi e corse verso l’amico. – Pol! – disse, mentre andava ad aiutarlo.

Ecco, in quelle situazioni Jotaro si sentiva sempre nel mezzo. Non sapeva mai come agire. Di solito si faceva gli affari suoi, ma la peculiarità della situazione fece attivare la sua vocina nella testa che continuava a dirgli “dai, vai a vedere, su!”. Non se lo fece ripetere due volte.

Il bulletto aprì finalmente il gioiello, mostrandolo all’amico più alto, che fischiò impressionato. – Wow, e chi è questa?

- Ridammelo subito! – disse il ragazzo dai capelli bianchi, rialzandosi. Il suo amico gli arrivò vicino. Intanto un molte persone già si raggruppavano per osservare la scena.

- E’ carina! – rispose poi il tizio più alto, facendo all’amico il segno di girare il gioiellino. Intanto il ragazzo vestito da motociclista iniziava a sembrare sempre più infastidito. Jotaro intuì dalla mascella serrata e dal fiatone che avrebbe avuto voglia di prenderli a pugni in faccia. Avrebbe fatto lo stesso.

Il bulletto cercò di leggere un nome inciso dietro il cammeo: - Vediamo… Sherry Helene Polnareff? E’ tua sorella?

- Credo proprio di sì! Perché ti porti una foto dietro? E’ morta, scusa?

- Chiudete quella bocca! – li interruppe il ragazzo dagli occhi scuri, per poi rivolgersi all’amico – Non devi farlo, Polnareff. Prenderli a pugni non cambierà niente.

- Stanne fuori! – riprese poi il bullo basso – Senti chi parla! Dimmi, Avdol, se ti prendo a calci nel sedere per caso tuo padre mi lancia una maledizione? – e disse l’ultima parola con un tono piuttosto irritante.

- Già, magari ci fa i malocchi! – rise il bullo alto. – Comunque, Pol, tua sorella doveva proprio essere una tipa simpatica, peccato non sia qui.

- Credo che semmai vi avrebbe visto probabilmente sarebbe scappata via vomitando.

Jotaro sorrise leggermente. Quel Polnareff già gli piaceva.

- E come lo sai? La conoscevi bene? Magari l’hai uccisa tu! Cosa ne pensi James?

Il bulletto alto, quello di nome James, non si spaventò nemmeno un po’ degli sguardi assassini che gli lanciarono gli altri due.

- Credo che sia stato proprio lui, Ben. Con quella faccia poi!

Polnareff aveva le nocche rosse e gli occhi lucidi. Intanto l’altro, che a quanto pare chiamavano Avdol, sembrò improvvisamente pensare di avere l’idea del secolo e concentrò lo sguardo sui vestiti di Ben.

Jotaro sulle prime cercò di capire se aveva visto male ma dove prima stava il taschino della giacca ora era presente un buco grande quanto un pugno e fumante, persino. Come se fosse stato bruciato.

Ma come…?

Ben urlò appena posò lo sguardo sui propri vestiti, e James pure. Avdol non fece altro che sorridere soddisfatto. Polnareff al contrario rimase altamente inquietato.

- Cosa?! – urlarono i bulletti, mentre Ben gettava il capo a terra e lo pestava con il piede per cercare di spegnere il fumo – Come diavolo hai fatto?

Avdol scrollò le spalle. – Eh. Magia.

- Fermi!

Tutti si girarono verso chi aveva parlato: a quanto pare qualcun altro aveva avuto la bella idea di intromettersi.

Dalla folla uscì un ragazzo alto e dal viso affusolato, capelli rossi e sistemati per bene, tranne un ciuffo ribelle che gli ricadeva sul viso, coprendo uno degli occhi dal colore violetto. Aveva una lunga giacca verde, ignorando completamente il fatto che fuori ci fossero più di quindici gradi, e anche lui indossava un paio di orecchini. Il suo viso traspariva sicurezza.

E tutti sembrarono ascoltarlo. Nessuno disse più niente ne si mosse.

Jotaro percepì qualcosa di strano nella sua voce, del genere che forse sarebbe stato meglio girarsene a largo, ma era così convincente che ebbe la voglia di starsene lì per ancora un po’.

- Ora, perché state facendo tutto questo? – chiese il nuovo arrivato, le braccia incrociate – Ditemelo. Subito.

Ben e James si guardarono, per poi balbettare: - P-perché ci divertiamo. – Era come fossero ipnotizzati.

- Vi divertite? Siete davvero dei mostri – continuò il ragazzo, usando un tono sempre più convinto – Ora, date quel gioiello a chi lo avete rubato.

Ben sembrò entrare in trance. Camminò lentamente verso Polnareff, la mano tesa che teneva la catenella del cammeo, penzolante per aria. Dire che fosse confuso era poco.

- Bene, ora sta fermo. Amico, vorresti…? – e fece un cenno a Polnareff, che prese la catenina tra le mani e se la mise al collo velocemente, nascondendola sotto la maglietta. Poi guardò l’altro ragazzo, annuendo.

- Posso?

Avdol lo guardò storto: - Cosa vorresti fare, Jean?

Polnareff non rispose che Ben si beccò un gancio caricato alla perfezione sul naso, facendolo cadere, e James si riprese da quella specie di ipnosi appena accadde.

Ora, va bene che quel ragazzo era abbastanza muscoloso, ma nessuno della sua età avrebbe mai fatto quasi volare in aria qualcuno con un pugno, che fu quello che successe a Ben. Si alzò per qualche secondo per aria e cadde steso a terra con il naso colante di sangue, a pochi metri di stanza da dove era prima. Quello, più il fatto che intorno a Polnareff sembrò crearsi una debolissima luce color rossa, che sparì subito.

James camminò spaventato verso il compagno, aiutandolo ad alzarsi, e corsero via a gambe levate. Jotaro non aveva visto persone così spaventate in tutta la sua vita.

Non ti capitava tutti i giorni di vedere i vestiti di qualcuno prendere fuoco o di venire ipnotizzato. Si sentiva stranamente a casa vicino a quei tre.

Il ragazzo dalla giacca verde si girò verso il pubblico studentesco, che aveva guardato tutto senza fiatare.

- Andate.

In meno di un minuto il corridoio fu sgombro.

Nessuno dei quattro studenti rimanenti aprì bocca.

- Oh mio dio!

…Più o meno.

Polnareff corse verso il ragazzo dalla giacca verde, che si era sistemato vicino a Jotaro. Ora che lo vedeva da più vicino, sembrava stranamente… potente nel suo atteggiamento. Inoltre emanava un fortissimo odore di ciliegie. Era come se si fosse infilato nel profumo per tutta la sera.

- Devi assolutamente dirmi come hai fatto… Wow. Merci.

- Non è niente – disse l’altro, sistemandosi i capelli. – Piuttosto, com’è che il tuo amico ha dato fuoco a quei vestiti?

Avdol scosse la testa. – Niente di ché, come ho detto. Solo magia.

- Ehm, sì… - continuò preoccupato Polnareff. – Magari la prossima volta prova qualcosa di diverso dal fuoco. Non è che io ne sia un grande fan. Inoltre, per caso avete visto un bastoncino di legno in giro?

Jotaro decise che la conversazione non lo riguardava più, quando calpestò per sbaglio l’oggetto d’interesse. A terra c’era un piccolo bastoncino di legno levigato, con attaccato via un filo di spago un sacchettino trasparente. Sembravano ci fossero delle braci dentro. Lo prese da terra. Chissà perché se lo portava in giro.

- Questo?

Polnareff si girò vero Jotaro, per poi strappargli di mano il bastone come se la sua vita ne dipendesse. Borbottò un ‘grazie’ e lo infilò nella tasca interna della giacca di pelle.

- E tu sei…?

Jotaro non mosse muscolo.

- Perché ti interessa?

- Sei praticamente stato a guardare – aggiunse Pol. – Avresti potuto, che ne so, provare a prenderli a pugni come ho fatto io? Vedevo che la faccenda ti stava prendendo.

Jotaro notò una nota di rimproverò nella sua voce, alla quale rispose sbuffando: - Ma pensa te… Senti, è il mio primo giorno qui. Non volevo mettermi nei guai. Ho cambiato scuola ogni anno, e per una volta vorrei restare qui per almeno più di un mese, capito?

Polnareff portò le mani in aria. – Va bene, va bene. Anche io e il mio amico Momo siamo nuovi qui! – e indicò Avdol.

- Già nomignoli? Ci conosciamo da tre giorni – disse poi Avdol. – Continuando, io sono Mohammed Avdol. Il ragazzo che hai davanti a te invece è Jean Pierre Polnareff.

Pol portò le mani ai fianchi, con aria fiera. – L’unico e solo!

- Io sono Jotaro Kujo, ma a casa mi chiamano JoJo, – rispose Jotaro – e sono qui da solo un giorno. Anche voi ragazzi problematici, uh?

- Più o meno… - disse il ragazzo vestito di verde – Comunque piacere di conoscervi, io sono Noriaki Kakyoin. Potete chiamarmi Kakyoin o Kak.

Kakyoin? Jotaro giurò di aver già sentito quel cognome in giro.

Polnareff sembrò sul punto di ringraziare Kayoin per l’ennesima volta, quando la campanella suonò.

Dannazione, la lezione di storia! Jotaro se ne era completamente dimenticato.

Avdol si avvicinò a Pol, facendogli cenno con la testa di andare. – Magari ci vedremo all’intervallo. Abbiamo lezione di storia con il professor Joestar.

Kakyoin li seguì a ruota: - Anche io ho storia con il Joestar. Che coincidenza, eh?

I tre si girarono verso Jotaro.

- Avanti, dillo… - pregò Polnareff. – Dai…

Jotaro sospirò.

- Sì, ho anche io lezione con il Joestar.

- Esattamente!

Jotaro sperò in un nanosecondo che non fosse il vecchio quello che stava girando l’angolo e- sì, era lui. Non era mai stato così pronto a rovinarsi la vita sociale come in quel momento. Che gioia.

- Professore – salutarono gli altri tre, sorridendo.

- Ah, Jotaro! – e Joseph gli diede un’amichevole pacca sulla spalla. – Vedo che ti sei già fatto degli amici!

Kak cercò di soffocare una risata: - Ma… lo conosci?

“No. No, assolutamente. Per niente. Perché chiedere?”

- E’ mio nipote!

Oh, gliene avrebbe dette quattro una volta arrivato a casa. Anche di più. Sperò che non stesse arrossendo dall’imbarazzo.

Fortunatamente nessuno sembrò dire niente.

- Stavo andando in classe – disse Joseph – quando ho visto quello che è successo. Quei due se la sono proprio meritata. Ora, magari potrebbero esserci delle conseguenze…

- Come il preside? – suggerì Avdol.

- Sì, come il preside. O quell’arpia della Johnson, la prof di matematica. Che rimanga tra me e voi, ma ha l’alito che sa di cavolo fritto… Che schifo. Comunque, avrei un idea per far modo che non la dobbiate incontrare. Non sto per niente dicendo che forse potreste trascorrere la prossima ora nel mio ufficio sotto sorveglianza, ma…

Polnareff lo interruppe: - Mi faccia indovinare, sta proprio dicendo che forse potremmo trascorrere la prossima ora nel suo ufficio sotto sorveglianza!

Joseph rise, battendo una mano sul ginocchio. – Ahah! Mi piace questo ragazzo, è sveglio! E sì, sto proprio dicendo questo. Non sarà una punizione, ma la camufferemo come tale. Inoltre, avrei un paio di domande da farvi.

Jotaro sembrò vedere una nota di preoccupazione nel viso del vecchio, del genere che la situazione era molto più seria di quanto avesse pensato. E se era suo nonno, allora bisognava stare attenti.

- Bene, che mi dite di raggiungere gli altri ora? – suggerì il professor Joestar – L’Impero Romano non si studia da solo.



 
*** Ψ ***

 

Jotaro non lo avrebbe mai ammesso a voce alta, ma il vecchio Joestar era bravo a fare il suo lavoro.

Credeva che prima o poi si sarebbe messo ad agitare una spada finta e recitare versi in latino facendo la parte di un comandante romano con l’armata nemica alle porte, ma fortunatamente la cosa non successe. Però si poteva vedere nel modo nel quale elencava i più famosi eroi e nelle parole che usava che non avrebbe fatto altro mestiere al mondo.

Dopo la lezione Joseph condusse Jotaro e gli altri tre nel piano di sopra dell’Istituto, che ospitava le classi dell’ultimo anno e gli uffici dei professori. Era un corridoio lungo e più buio del solito, e l’odore di pulito era sovrastato da quello di caffè. Arrivarono davanti ad una porta con una finestrella in vetro traslucido, la scritta ‘Professor Joseph Joestar’ stampata sopra in lettere dorate. Il vecchio armeggiò con un mazzo di chiavi, e riuscì finalmente ad aprire la porta dopo molte imprecazioni a bassa voce.

Jotaro e gli altri si sporsero in avanti per osservare l’ufficio. Rispetto al resto della scuola, sembrava stranamente tranquillo. Una scrivania in legno con dietro una poltrona in pelle nera era sistemata proprio davanti alla finestra, che faceva entrare i caldi raggi del sole. Le pareti in crema avrebbero fatto sembrare il tutto più accogliente, se non fosse stato per l’insieme degli scatoloni accatastati per terra. Su una mensola vicina erano disposti in fila vasi greci decorati da vari scenari di guerra o rappresentanti gli dei, e all’entrata erano stati appesi quadri e arazzi intricati. Appena vicino alla scrivania – sulla quale ora stava un’anfora con scritte greche e immagini varie, oltre che ad una foto incorniciata - c’era una vetrinetta con spade da uno strano colore bronzeo che probabilmente nessun preside avrebbe mai permesso entrassero a scuola. Jotaro si chiese come diamine suo nonno fosse riuscito a sistemare quelle armi lì.

- Benvenuti! – li accolse Joseph, facendoli entrare. – Prendete pure delle sedie, sono alla vostra sinistra, e scusate per il casino, sto ancora sistemando un po’ di cose. Volete da bere? Un tè, forse?

 - Un tè mi va bene – rispose Jotaro. Stranamente, ogni bevanda che avesse un’alta percentuale liquida lo rifocillava molto di più che del normale cibo. Nelle ore di educazione fisica gli bastava bere un sorso d’acqua che tornava subito in forma.

- Perfetto. Potete toccare quello che volete, ma non aprite i vasi o provate a prendere in mano le spade. Torno tra poco – e detto questo Joseph sparì in una stanzetta adiacente all’ufficio, chiudendosi la porta dietro.

- Allora, - disse Polnareff appena il vecchio Joestar se ne andò – è arrivato il momento di dirlo: primo; la cosa mi puzza. Secondo; JoJo tuo nonno è un grande! E terzo; non credo si possa chiedere ad un ragazzino con deficit d’attenzione di stare fermo.

Kakyoin sgranò gli occhi, sorpreso e alquanto felice. – Anche tu? – chiese poi.

- Entrambi, in realtà – continuò Avdol.

Jotaro rimase stupito come Kakyoin, se non di più. Per tutta la vita si era sentito l’unico ragazzino al mondo, in tutte le scuole nelle quali aveva frequentato, al quale veniva l’improvvisa voglia di alzarsi dal banco durante la lezione per scorrazzare in giro oppure che non riusciva ad ascoltare bene cosa gli dicesse sua madre, e molto di più che questo. E aveva sempre saputo che in realtà non lo era, che molti ragazzini come lui esistevano, ma non ne aveva mai incontrato nessuno – anche perché non era il tipo da fare amicizia con chi capita a tiro, soprattutto perché non gli piaceva.

Ma lì, in quella stanzetta, con gli altri tre, sentì che forse aveva finalmente trovato delle persone simili a lui.

- A che età lo avete scoperto? – chiese Jotaro. – Mia madre non me lo ha detto fino a cinque anni fa.

- Eh, scusa? – chiese Polnareff, che intanto si era avvicinato alla vetrinetta delle spade e le osservava come se fossero la cosa più bella al mondo. – Ah… Boh, lo so e basta. Anche mia madre me lo aveva tenuto nascosto. Mi aveva detto che secondo lei è solo un tratto psicologico… Tutta influenza di mio padre, anche se non l’ho mai conosciuto.

- Neanche io – ammise Jotaro.

- Io invece non so niente di mia madre – disse Avdol, sedendosi davanti alla scrivania sulla sedia che aveva appena sistemato. – Mio padre non si è mai degnato di dirmi niente.

- Tutto ciò che so io di mia madre è che era “la donna più bella che abbia mai camminato su questa terra” – continuò Kakyoin, mimando l’ultima parte della frase con delle virgolette – O almeno, è quello che mi ha sempre detto papà. Almeno so da chi ho preso il mio fascino.

Polnareff, alle ultime parole dell’altro, alzò gli occhi al cielo. – Va bene, Mister Universo… Ora, se solo questa vetrinetta si aprisse… - e cercò davvero di aprirla, girando la manopolina in ferro a destra e poi a sinistra.

- Cosa fai, Pol? – lo rimproverò Avdol. – Il professor Joestar ha detto di non toccare le spade.

- Eddai, su! Non ho mai visto spade del genere! Sono fichissime, ne voglio almeno dieci così in camera mia!

In effetti, erano piuttosto belle. Alla luce del sole avevano un riflesso bronzeo tendente persino al blu se guardate da un altro angolo. Sembravano uscite direttamente da un film fantasy.

Jotaro prese una sedia dalle tre rimanenti vicine a lui, sistemandosi con le gambe incrociate. Ora che vedeva la foto da più vicino era ancora più curioso, quindi la prese tra le mani.

Era in bianco e nero, e capì subito che il ragazzo dai capelli spettinati e scuri nel mezzo doveva essere suo nonno all’età di quindici anni. Portava una maglietta con su scritto “Campo Mezzosangue” e faceva la linguaccia. Tipico. Affianco a lui c’era una ragazza bionda, molto simile a sua madre, che invece faceva il segno della pace e sorrideva smagliante, e portava anche lei quella maglietta. Capì che quella doveva essere nonna Suzie. Ma Jotaro rimase più che sorpreso ad osservare il terzo ragazzo, che, per tutte le forze presenti in quel mondo, portava in testa la stessa identica fascia che Joseph aveva legata intorno al polso. Sembrava il più serio dei tre, anche se sorrideva, e aveva il braccio intorno al fianco di Joseph e in mano aveva… una spada? Ad un campo estivo?

E assomigliava anche troppo a quelle in vetrina.

Non riuscì a formulare un pensiero decente che Joseph tornò con in mano una tazza di tè fumante. Jotaro sistemò subito la foto sul tavolo in fretta e furia per evitare domande imbarazzanti e fece finta di aggiustarsi il cappellino in testa.

- Ecco, - disse il vecchio, appoggiando la tazza davanti a Jotaro – non sapevo come fartelo ma spero ti piaccia lo stesso.

- Uhm… sì…

Joseph guardò Jotaro per una frazione di secondo, per poi sbattere due volte la mano sulla scrivania.

- Ragazzi, se credete di non fare niente con me, vi sbagliate. Non mi piace sprecare tempo. Venite qui e state attenti, ho un paio di cosucce da mostrarvi… - e detto questo prese un vaso oblungo dalla mensola di fianco a lui, color rosso scuro e dai disegni neri, di quelli che si trovano ai musei di solito.

Anche Kakyoin e Polnareff alla fine si sedettero davanti alla scrivania, e Joseph sfregò le mani insieme.

- Perfetto. Ora, iniziando… Quanto sapete di mitologia greca?

Pol fece finta di tossire, indicando Avdol con un gesto della mano, al quale l’altro rispose con un’occhiataccia.  Jotaro e Kakyoin si girarono verso di lui.

- Mohammed, - riprese Joseph – potresti dirmi cosa sai?

- Dipende se sta chiedendo di Gigantomachia o Titanomachia, signor Joestar. Prima ci furono le entità primordiali con i giganti, poi i Titani e poi gli Olimpi.

Joseph rimase positivamente sorpreso: - Uh… Vedo che abbiamo un appassionato qui.

- Mio padre gestisce una libreria in centro. Diciamo che so un po’ si cose.

- Bene! Il vostro compagno ha ragione, ragazzi. Gli dei non erano mica nati a caso, certo che no. Prima di loro ci furono i Titani, come Giapeto od Oceano per esempio, e ancora più indietro i loro genitori: Gea ed Urano. Discendevano da Chaos, un abisso infinito che ebbe anche come figli Nyx, la manifestazione della notte, e Tartaro.

- Credevo che il Tartaro fosse un luogo - lo interruppe Kakyoin. – Come gli Inferi.

- Il Tartaro è dove finiscono i mostri, Kakyoin. E credimi, non vorresti mai vedere… - Joseph poi sembrò accorgersi di dover continuare - … Come lo hanno descritto. Un luogo attraversato da cinque fiumi magici e fatto interamente dal corpo dell’entità. Un poeta, Esiodo, disse che un incudine ci avrebbe messo ben nove giorni e nove notti di discesa per arrivarci. Gli Inferi sono solo il regno di Ade, che è comunque a stretto contatto con il Tartaro. Ma continuando, dopo le entità primordiali ci furono i Titani, figli di Gea, la terra, e di Urano, il cielo. E ora… - indicò con un dito la scritta in greco sul vaso, che aveva dipinta sopra un immagine abbastanza confusionaria di un uomo con in mano un bambino - …Sapete per caso cosa c’è scritto?

I ragazzi si guardarono tra di loro. Le facce di tutti e quattro dicevano chiaramente ‘ehi, fate voi, non voglio sembrare troppo strano.’

La scritta leggeva ‘Κρόνος’. Un nome. Un nome di un Titano.

- Crono.

La parola uscì dalla bocca di Jotaro come un peso, e stranamente sentì un brivido salirgli su per la schiena. Era come se il tempo dentro la stanza fosse rallentato.
Sentiva come se avesse degli occhi su di se. E anche gli altri lo percepirono.

Prese il tè con due mani, cominciando a sorseggiarlo. Sapeva di limone. Lo avrebbe calmato.

- Esatto, Jotaro. Crono, il Titano del tempo. Furono anche generati tre ciclopi: Cotto, Briareo e Gige, che per la loro mostruosità vennero rinchiusi dal padre Urano. Perciò Gea creò una falce dalla forza incredibile e chiese ai figli Titani di uccidere il marito. Nessuno lo fece, tranne Crono. Era assetato di potere, voleva solo farsi vedere come più potente visto che era il più piccolo dei fratelli. Prese la falce e attirò Urano giù sulla terra, per poi ucciderlo e castrarlo.

All’ultima parola Kakyoin scosse la testa, ripetendo “Come, scusi?”, Jotaro alzò un sopracciglio – i greci, valli a capire… - e Polnareff si portò istintivamente la mani ai pantaloni, sibilando un “Ahia!”. Avdol sembrava l’unico a non essere sorpreso.

- Credetemi, c’è di peggio dopo.

- Infatti. E… beh, la parte castrata, diciamo, finì nella spuma di mare, facendo nascere Afrodite, dea dell’amore e della fertilità. Quindi lei, tecnicamente, è l’abitante dell’Olimpo più antico – riprese Joseph. – Andando avanti, Crono divenne quindi il Titano più potente, e si unì a Rea, creando così i primi Olimpi: Estia, la più grande, Demetra, Era, Ade e Poseidone.

Avdol interruppe il professore, continuando: - E poi li mangiò.

Jotaro sentì la bevanda calda salirgli nella gola. Allora quello sul vaso era Crono… E stava tenendo in mano Ade o Poseidone… Per mangiarlo.

Kakyoin e Polnareff si guardarono, lasciandosi sfuggire uno ‘bleah!’ all’unisono.

- Sì, Avdol ha ragione. Li mangiò per paura di essere spodestato. Fortunatamente l’ultimo figlio di Rea, Zeus, fu partorito in segreto! E quindi riuscì a salvare i fratelli facendo vomitare il padre. Per niente un bello spettacolo. Zeus riuscì persino a liberare tre ciclopi, che lo ricompensarono con il potere del cielo: tuoni, fulmini, aria, eccetera eccetera. La lotta di Zeus e i suoi fratelli e sorelle contro Crono durò anni, ma alla fine sappiamo bene che gli Olimpi ne uscirono vittoriosi, rinchiudendo il padre e gli altri Titani nelle profondità del Tartaro. Zeus divenne Re dell’Olimpo, e generò altri figli come Ares e Atena, oppure Artemide, Apollo, Ermes, Efesto, Dioniso… Zeus è conosciuto molto bene per le sue scappatelle. Poi ai suoi fratelli Poseidone e Ade vennero dati il dominio sul mare e sull’oltretomba, rispettivamente.

- Non l’ho mai trovato giusto – commentò Avdol. – Alla fine Ade era il più grande, ed è stato ingiustamente bollato come cattivo della situazione. Ho ragione, professore?

Joseph sembrò pensare qualcosa per un paio di secondi, ma poi si accinse a rispondere: - Ade non è mai stato malvagio, solo molto incompreso e arrabbiato con i suoi fratelli, ma non ha mai cercato di conquistare l’Olimpo o cose simili.

Il tono del vecchio era stranamente malinconico, come se stesse parlando di un vecchio amico e non di un personaggio mitologico.

- Perché ci sta dicendo queste cose, prof? – commentò Polnareff. – Cioè, è abbastanza interessante, ma lo sta dicendo solo per riempire l’ora?

Jotaro sentì una brutta aria cominciare a stringersi intorno a lui. Aveva l’impressione che da lì a poco avrebbe scoperto qualcosa di molto grosso. E strano, soprattutto. Forse alcuni punti interrogativi della sua vita sarebbero potuti finalmente essere sostituiti da risposte, e la cosa lo incuriosiva.

E anche il tè sembrava pensare lo stesso, perché lo vide letteralmente fluttuare davanti ai suoi occhi.

Jotaro riuscì a non far cadere la tazza dalle mani, anche perché rimase più stranito che spaventato. Fortunatamente il blob di tè al limone sospeso a mezz’aria - neanche fosse una bolla - cadde subito nel proprio contenitore prima che gli altri potessero accorgersi della cosa, come se nulla fosse successo.
Perfetto, un’altra cosa da aggiungere alle stranezze della sua vita. Lo avrebbe messo nel curriculum: ‘Jotaro Kujo, esperto in biologia marina e levitazione del tè’.

Joseph richiamò la sua attenzione. - Jotaro, tutto ok?

Il ragazzo annuì distrattamente, appoggiando il tè sul tavolo. – Sì, sì. Tutto ok.

Il vecchio se la bevve.

- Bene. Ora per rispondere alla vostra domanda… E’ difficile da spiegare. Potreste credermi come ignorarmi, e capirei. Ho girato scuole e scuole in vece di professore per dire la verità a ragazzi come voi. Ogni cosa che vi siete mai chiesti della vostra vita? Io ho le risposte. Ma dovrete essere pronti.

Jotaro, in quel momento, capì molte cose.

Capì che Joseph sapeva. Sapeva del padre e del perché la sua vita fosse così.

Lo sapeva e non glielo aveva mai detto.

- Basta scherzi – lo interruppe Jotaro. – Senti vecchio, se devi stare qui a blaterare…

- Non sto blaterando, ragazzo. Come se non avessi notato il tuo potere di manipolare l’acqua o di parlare con gli animali marini da quando sei nato.

Aveva ragione.

Il resto del gruppetto osservò Jotaro, e il ragazzo vide una strana luce nei loro occhi. Come a sperare che fosse uno di loro.

Quanto avrebbe voluto andarsene dalla stanza in quel momento.

Joseph si tolse il cappello in un movimento delicato e lo appoggiò sulla scrivania, sospirando. – I vostri genitori, ecco…

La porta si spalancò.

All’entrata dell’ufficio stava, in piedi e rigida come un bastone, una donna dal corpo minuto e gli occhi verde veleno, i capelli neri così lucidi da sembrare una parrucca. E di fronte a lei, l’ultima persona che i quattro ragazzi avrebbero voluto vedere in vita loro.

- Eccoli! – disse Ben, mentre con una mano teneva un pacchetto di ghiaccio medico sulla guancia sinistra. – Sono loro, Miss Johnson! Quegli strambi!

- Grazie, caro – disse la professoressa. – Aggressione aggravata, ragazzi miei. Ci vediamo dopo scuola per la punizione, tutti e quattro. E ora verrete con me in presidenza.

- Cosa? – disse Pol, alzandosi dalla sedia. – Quattro? Jotaro non ha fatto niente!

- E’ stato solo a guardare, infatti – aggiunse Avdol. – Prenda solo noi tre.

Anche Kakyoin si mise dalla loro parte: - Concordo. Siamo stati solo noi.

Jotaro sulle prime non credette a nessuno dei tre. Una punizione del genere non sarebbe stata niente in confronto alle altre – ricorda ancora la serata alla Howard High School passata a sbattere i cancellini e pulire con i bidelli – quindi non si preoccupò molto. Ma poi capì che gli altri facevano sul serio. Erano per caso fuori di testa? Si conoscevano a malapena da un’ora! E infondo, avrebbero anche potuto difendersi, erano stati quei due figli di papà ad iniziare.

Poi osservò meglio la cosiddetta professoressa Johnson, e la trovò piuttosto disturbante. Soprattutto le sue movenze fin troppo fluide, aggiungendo anche il fatto che a ogni ‘z’ e ‘s’ sembrasse quasi sibilare.

- Professoressa – interruppe Joseph – questi ragazzi sono sotto la mia sorveglianza. Hanno già passato un’ora con me nel mio ufficio, come può vedere.
Tra i due prof c’era una tensione palpabile, un filo che si sarebbe potuto spezzare facilmente.

- Non mi interessa – continuò la donna, avvicinandosi a Jotaro – e anche lui verrà.

Per un momento la professoressa sembrò fiutare l’aria intorno a lui. E, dannazione, suo nonno aveva ragione sull’alito al cavolo fritto.

Joseph strinse nelle mani una penna viola, il pollice sul cappuccio come pronto a sfidarla a colpi di firme su permessi di sorveglianza. O almeno, Jotaro aveva capito così.

- Ringrazi la presenza del mortale, signora Johnson – sussurrò Joseph, guardandola con il naso storto. – Ma la Foschia non la salverà per sempre.

La professoressa tirò fuori il sorriso più inquietante che il ragazzo avesse mai visto. – Vedremo.

E detto questo tornò sui suoi passi, il bulletto che sorrideva compiaciuto.

Che giornata pazza.









N.A
ODDEI, eccoci qui, finally!
Ho così tante cose da dire su questa AU che sinceramente non so da dove inziare. Se non avete letto i libri di Percy Jackson ed Eroi dell'Olimpo potrete comunque seguire questa long poiché praticamente l'unica cosa che ho preso dai libri - essendo un'AU - è il setting e gli dei/titani/mostri vari. L'idea mi è venuta trovando molte similiarità tra i semidei e i portatori di Stand. 
E ovviamente mi sono fissata con questa AU. Yay!
Ho organizzato ogni cosa della trama - anche se questa è una minilong/esperimento per vedere se funzionerà, sappiate che se inzierò a scrivere una long più vasta partirò da Battle Tendency - quindi aspettatevi cameo di personaggi anche della quarta/quinta/sesta parte! 
Alla prossima (presto, spero)!

 
  
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