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Autore: Newdark    31/10/2016    3 recensioni
Mycroft ha un problema. Per fortuna.
[Pseudo-post terza stagione]
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Mycroft gli rivolge un sorriso tirato. «Suppongo di poter sorvolare sul fatto che lei mi abbia appena dato dell’imbecille come ringraziamento per la sua collaborazione» dichiara, e John non riesce a credere che non ci avesse pensato da solo a portare Lestrade al ristorante, invece di organizzare un blitz per sequestrarlo. Risponde con un’alzata di spalle e l’uomo, in silenzio, raggiunge la porta. «Immagino di non doverle suggerire di tenere per sé quanto ha appreso» aggiunge senza guardare altro se non le scale, ma il suo tono è apertamente minaccioso.
John sospira. «La tua immaginazione lavora egregiamente, Mycroft».
Il maggiore degli Holmes si volta a fulminarlo con un sorriso che avrebbe fatto rizzare il pelo persino al mastino di Baskerville, se mai fosse esistito. «Ma la sua no, non è vero?» commenta irridente e John, pur non decifrando la stoccata, stabilisce che per quel giorno a solidarietà è a posto così.
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[Johnlock] con delicato sottofondo di [Mystrade].
Buon appetito.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Benvenute/i!
Pubblico questa, ehm, cosa, avvertendo i gentili avventori del fatto che non è una storia seria (per niente proprio).
Se cercate qualcosa di davvero sensato, o profondo, o emotivamente stimolante, questo non è il posto giusto. Qui, signori, si va sul demenziale, ma con dignità (?).
Spero però che qualcuno voglia gettarsi nella folle impresa di leggere queste troppe righe e che magari si diverta anche un po', dato che è il motivo primario per cui questa storia è stata scritta.
Ai coraggiosi auguro una buona lettura!
P.s. Un parere è sempre ben accetto
– ma le melanzane non tiratemele, ché mi fanno schifo.


NewDark

 

 

 

 

 

 

 

Astenersi Mycroft Indesiderati

 

 

 

 

 

 

 

     «Dimmi che sei pienamente consapevole di quanto tutto questo sia stupido. Per favore» lo apostrofa John quel pomeriggio, sfilandogli accanto con una tazza di tè bollente stretta tra le mani.
   Il dottore è appena rientrato dal lavoro e fuori si gela, maledizione, sarebbe magnifico godersi il calore del caminetto – se soltanto Sherlock si fosse degnato di accenderlo – e non pensare a niente in particolare – se soltanto Sherlock non avesse deciso di giocare al bambino antipatico facendo cose stupide a cui John sente di dover in qualche misura pensare.
   Sherlock, neanche a dirlo, non l’ha ascoltato affatto. Raggomitolato sulla sua poltrona in un modo che John non avrebbe ritenuto possibile per un uomo adulto, il detective pare immerso in vigorose meditazioni nelle quali, senza dubbio, non può esserci spazio per raffreddati dottori in cerca di caminetti accesi o noiosi comportamenti da persona matura.
   Dopo tutti questi anni, John sa perfettamente che quando il suo coinquilino è perso negli insondabili meandri della propria mente non c’è nulla da fare, ma stavolta ha come l’impressione che le fatiche intellettuali di Sherlock siano rivolte per l’appunto a quella cosa stupida cui accennava poc’anzi, perciò molla la tazza e gli si piazza davanti a braccia conserte, sentendosi pienamente in diritto di intervenire.
   «È una cosa molto stupida, Sherlock» ribadisce, chinandosi in avanti su quella testa riccia che non dà ancora segno di aver anche solo notato la sua presenza, figurarsi il suo parere. «Sherlock» insiste John, iniziando a battere ritmicamente un piede a terra. Normalmente, lo sa benissimo, questa è una battaglia persa in partenza; stavolta, però, il dottore ha deciso che il suo coinquilino lo ascolterà adesso – e che diavolo, per una volta se la vuole togliere questa soddisfazione proibita – perciò si protende verso l’irritante entità con aria battagliera. «È una cosa stupida, Sherlock» ripete, ostinato. «Stupida, davvero stupida!». E alza la voce ad ogni sillaba, di pari passo col suo crescente disappunto, perché l’altro non lo sente proprio e anzi pare ancora più concentrato. John Watson sospira, paziente. E poi inizia a scrollare il suo coinquilino senza troppo garbo, urlando a squarciagola «STUPIDA, SHERLOCK!» perché va bene tutto, ma il ridicolo cartello affisso al loro portone d’ingresso recitante Astenersi Mycroft indesiderati e relativo codazzo è davvero troppo.
   Di fronte a quell’assalto concertato su più fronti – John sta ancora berciando e continua a scuoterlo come una maracas – il grande detective ripiomba tra i comuni mortali sprizzando furia ultraterrena da ogni poro, e riserva un’occhiata di ghiaccio al dottore, che dal canto suo sta assaporando il momento di gloria con un’aria di compiacimento semplicemente sfacciata. Per qualche istante Sherlock si limita ad un silenzio oltraggiato, spolverandosi di dosso inesistenti particelle di polvere e coltivando nel frattempo l’idea di dedicare il resto del pomeriggio ad un esperimento di quelli che il suo coinquilino classifica come assolutamente disgustosi.
   «Si può sapere che accidenti ti è preso, John?» è il sibilo minaccioso che alla fine lascia le sue labbra drammaticamente piegate all’ingiù.
   Per tutta risposta, il dottore gli appiccica in faccia il foglio incriminato. Limitarsi ad una gestualità primitiva ma non fraintendibile è il modo migliore che John conosca di evitare che Sherlock riesca ad intortarlo con la sua fluida e devastante parlantina.
   Il detective brontola qualcosa di inintelligibile contro il foglio premuto assai poco graziosamente sulla sua faccia e il dottore, una volta moderatamente sicuro di poter gestire la situazione, lo rimuove per ascoltare qualcosa di sensato lasciare quella bocca caustica (questo gli fa tornare in mente il fatto che, tempo addietro, Sherlock ha stimato che la piena convinzione di John in merito a qualcosa è giustificata in un magro 52.37% dei casi e John davvero, davvero non sa perché si dia pena di annotare con tanta cura ogni singola stronzata che l’uomo talvolta gli rifila, perché sì, anche Sherlock Holmes qualche volta spara eclatanti castronerie).
   «Non vedo dove sia il problema» mugugna allora Sherlock, lanciandogli da sotto in su un’occhiata di ferro.
   John assottiglia lo sguardo. «Hai quarant’anni, te ne sei accorto? Per la miseria, Sherlock, neanche all’asilo!» esclama, cercando dentro di sé uno sbigottimento che tuttavia tarda a saltar fuori. È Sherlock, gli ricorda paziente il suo cervello come ogni volta in cui John si ritrova in qualche situazione difficile anche solo da immaginare.
   «Non desidero ricevere visite da quell’individuo e ho preso i miei provvedimenti» lo ammaestra il suo coinquilino con una disinvoltura invidiabile.
   John Watson è forse l’unico essere umano sulla faccia della Terra a non guardare mai – o quasi – Sherlock Holmes come se costui fosse pazzo, ma stavolta è tentato sul serio. In ogni caso, la battuta – malgrado Sherlock sia scandalosamente serio, o più ragionevolmente proprio per questo – merita una grassa risata. Che Mycroft Holmes faccia elegantemente dietrofront dinanzi al monito del ridicolo cartello è un qualcosa che ha la probabilità di accadere quanto lo ha Sherlock di essere visto vagare per Londra in sandali rosa con calzino a vista. Davanti alla sconvolgente immagine appena evocata, John è sopraffatto da un violento scoppio di risa, e l’aria mortalmente offesa di Sherlock contribuisce ad innalzare la sua ilarità verso picchi vertiginosi.
   «E questo, secondo te, dovrebbe tenerlo lontano?» singhiozza John, sventolandogli il cartello sotto il naso. Non crede di aver mai udito qualcosa di così ridicolo lasciare le labbra del suo coinquilino. D’accordo, sta esagerando, ha sentito di peggio. Ma insomma...!
   Il detective stringe le labbra in una linea sottile, serissimo, e il dottore ride più forte. «Non colgo l’ironia» sbotta Sherlock, lo sguardo animato da una luce decisamente poco amichevole. «Malgrado le sue innumerevoli mancanze, sono piuttosto sicuro che Mycroft sappia leggere».
   John quasi rischia di strozzarsi. «Ma ti è venuto il dubbio, vero? Altrimenti non si spiega la presenza di questo patetico scarabocchio che, tra parentesi, ricorda la faccia di Mycroft quanto un polmone masticato può ricordare la mia» sghignazza, indicando una sottospecie di sgradevole patata rosa provvista di occhietti maligni e infantilmente sbarrata col rosso.
   «Sei ingiustificatamente fin troppo clemente con te stesso» commenta secco Sherlock, incrociando gambe e braccia con l’aria fosca di chi stia meditando gravi ritorsioni.
   «Sei bello tu» ribatte John prendendo fiato, per poi rimanere inchiodato a pensare che come risposta è abbastanza stupida. Sherlock è bello. Fottutamente bello. Di colpo John è vagamente infelice e non sa bene perché. Vorrebbe prendersi qualche istante per analizzare la sensazione, ma dalla famigerata porta che nessuno chiude mai fa il suo ingresso, per l’appunto, un impeccabile Mycroft Holmes – e il dottore si domanda che diavolo ce li abbiano a fare, una porta, un portone e una padrona di casa, visto che lì ognuno fa come gli pare.
   L’uomo si fa avanti nella stanza e punta l’immancabile ombrello a terra, squadrando John e il cartello nelle sue mani con aria sardonica. «Le sono grato per aver rimosso quell’obbrobrio, dottor Watson» esordisce in tono educato, e posandosi su Sherlock i suoi occhi si velano di un divertimento canzonatorio. «Temevo di dover aspettare il prossimo acquazzone che lo spazzasse via, per rimettere piede qui dentro».
   «Non avresti dovuto attendere molto» replica confusamente John, spiazzato dalla dichiarazione, «è previsto un temporale per domani».
   Mycroft appare già irrimediabilmente annoiato. «È più il concetto di attendere, a disturbarmi, non so se mi spiego» illustra altezzosamente, con un pizzico di fastidio nella voce.
   «È per questo che ti sei stancato di aspettare che il tuo cervello iniziasse a funzionare dignitosamente e ti sei accontentato di quei grugniti che emette a sere alterne?» interviene Sherlock, fulminandolo col più supponente dei suoi sorrisi.
   Mycroft alza gli occhi al cielo, già pronto alla baruffa, quando John e la sua impellente necessità di fare chiarezza sulla losca faccenda del cartello esplodono in un tripudio di inquietudine. «Per favore» chiede, quasi supplice, al maggiore degli Holmes, «dimmi che saresti entrato comunque».
   Mycroft, per tutta risposta, lo guarda con lo stesso mezzo sorriso ironico e sofferente di sempre, quello che lo fa sembrare un uomo costretto a ingoiare cacca per amore. «Vorrà scherzare. Naturalmente no» afferma in tono delicato, come se non stesse pensando che soltanto un grosso idiota potrebbe formulare una simile ipotesi, considerazione che platealmente sta facendo.
   «Vorrai scherzare tu, spero!» esclama John, con gli occhi quasi fuori dalle orbite e la voce intrisa del più genuino sconcerto.
   Mycroft alza gli occhi al cielo, visibilmente seccato. «Come fai a sopportare tutto ciò?» domanda, indicando sommariamente l’intera persona di Watson ad uno Sherlock che sogghigna, e John si prepara a cacciare Mycroft a pedate.
   «Ci sono abituato» ribatte il detective, noncurante, e il dottore si volta di scatto verso il traditore infame, che non ha voluto rinunciare all’occasione di vendicarsi nemmeno per non dare soddisfazione al fratello. «L’uomo che tiene le fila del Governo Britannico non entra in casa del fratellino che appende disegnini da ritardato al batacchio storto del portone» illustra Sherlock in tono annoiato, e oltre alla stizza John sente in bocca il sapore amaro della sconfitta. Nella sua totale mancanza di senso quel cartello aveva un senso, dopotutto, tanto che si affretterà a riposizionarlo da dove l’ha tolto per evitare nuove intrusioni da parte di Mycroft indesiderati, almeno finché a John non sarà passata la voglia di lanciargli un vaso.
   Nel frattempo, comunque, l’Oscuro Signore di Londra non pare avere alcuna intenzione di lasciarsi mettere alla porta e invece marcia deciso verso la poltrona di Sherlock, mulinando nervosamente l’ombrello intorno a sé, mentre John giura a se stesso che non aspetterà che l’uomo lo colpisca – erroneamente o meno – per assestargli una gloriosa padellata dal sapore gustosamente vendicativo. Mycroft si china appena verso il fratello con una delle sue terrificanti espressioni da Mycroft stampata in faccia. «Dobbiamo parlare» intima in un sibilo minaccioso. Per tutta risposta, Sherlock raccoglie le ginocchia al petto e gli lancia uno sguardo molto poco collaborativo.
   «Sono settimane che mi tormenti con i tuoi deliri, Mycroft, e credevo avessi toccato il fondo giovedì sera con la storia del rapimento. Hai proprio deciso di impressionarmi».
   «Forse ti sfugge il particolare che un dialogo necessita di un minimo di partecipazione da parte tua, e non intendo qualche mugugno a sproposito che mi lascia supporre che tu non abbia mai ascoltato un bel niente di quanto ti ho detto!» lo rimbecca Mycroft, visibilmente scontento.
   «Mi sfugge il particolare di come questo sia un mio problema, invece» lo corregge velenoso Sherlock, incrociando riottosamente le braccia al petto, e John lo guarda male e ringrazia il Cielo che Mycroft sia personalmente poco incline ad atti di cruda violenza, perché preferirebbe evitare di trascorrere la serata a rimuovere il sangue di quell'ingrato dal tappeto della signora Hudson. Il maggiore degli Holmes punta l’ombrello dritto sul naso del fratello, molto contrariato dalla risposta. Sherlock sbuffa e rotea gli occhi con infinita teatralità. «Sono stato attentissimo, Mycroft» ammette allora con un sorrisetto che definire inquietante costituirebbe una gentilezza eccessiva. «Quando mi ricapita l’occasione di fare incetta di dettagli così scabrosi su di te?».
   Mycroft apre la bocca e la richiude, semplicemente indignato. «Quali dettagli scabrosi?» protesta a mezza voce, ripercorrendo mentalmente le informazioni che ha scelto di condividere con quella specie di arpia che ha come congiunto.
   «Hai una faccia anche tu, fratello caro. E io so leggere» si compiace Sherlock. Il fratello caro inarca un sopracciglio con aria vagamente derisoria e scuote la testa con indulgenza, ma poi il sorrisetto di Sherlock vira al diabolico, e Mycroft avverte un tremito di preoccupazione. «Mamma gradirà» annuncia il detective, sempre rassicurante come solo Hannibal Lecter saprebbe essere, e il fratello assume una delicata sfumatura di verde. Prima che possa rovesciare addosso a Sherlock i migliori auguri di una prossima dipartita e qualche ombrellata per accelerare il processo, tuttavia, John decide che quelle poche battute sono state sufficienti a provocargli un fitto mal di testa.
   «Volete spiegare anche a me?» si azzarda a chiedere, tentando di scollarsi di dosso la spiacevole sensazione di essere il terzo incomodo. In effetti, i due fratelli si voltano a guardarlo come se avessero del tutto rimosso il dettaglio della sua esistenza, che Mycroft pare ora ritenere scandalosamente inopportuna – il sentimento è reciproco, stabilisce John assottigliando lo sguardo. Gli occhi di Sherlock, però, brillano di maligno divertimento.
   «Non osare» sibila Mycroft a denti stretti, furente.
   Che il mondo sappia, nessun invito/ordine/minaccia del genere ha mai sortito un qualche apprezzabile effetto su Sherlock Holmes – e il fratello ne è dolorosamente consapevole – e non si capisce perché dovrebbe funzionare proprio stavolta. Infatti, no.
   «Mycroft vuole Lestrade e non sa che cosa fare, eccetto assillare il sottoscritto» spiffera il detective senza alcuna remora, e il fratello vacilla come fosse stato colpito da un proiettile.
   Cala un silenzio molto imbarazzante.
   John è rimasto di sasso e nemmeno lo nasconde, e soltanto dopo qualche minuto si domanda distrattamente se non dovrebbe piantarla di fissare Mycroft come se costui gli avesse appena rivelato che nel tempo libero ama guardare i film di Barbie. Accantonando violentemente l’agghiacciante immagine, il dottore si schiarisce la voce e pensa a qualcosa di intelligente da dire. «Mycroft... vuole... cosa?» è però l’unica cosa che riesce a gracchiare, fallendo miseramente anche nel tentativo di assumere un tono neutro e composto.
   «Lestrade, John» incalza Sherlock, spazientito. «Hai qualche suggerimento?». E il detective lo guarda, come aspettandosi davvero una qualche indicazione da parte sua – o almeno uno sguardo meno che idiota, ma nessuna delle due opzioni sembra al momento nelle possibilità di John, dato che il suo cervello è ben lontano dal lavorare a pieno regime e continua piuttosto a domandarsi se non sia appena scattato il conto alla rovescia per la fine del mondo. Che cosa dovrebbe fare prima di morire? Perché non ha mai pensato a stilare una lista? Adesso è impreparato, maledizione, ed evidentemente anche molto, molto confuso, visto che fatica a visualizzare qualcos’altro che non sia Sherlock come immagine dei suoi ultimi istanti di vita.
   Per scrollarsi di dosso la strana sensazione, il dottore si lascia andare ad un altro intervento brillante, giusto perché i suoi rapporti con Mycroft sono già davvero ottimi. «Ed esattamente... in che senso lo vuole?» indaga in tutta serietà, per poi rinsavire e realizzare che – al diavolo! – lo avrebbe chiesto lo stesso, perché la faccenda è talmente assurda che non può proprio andare per il sottile giocando all’intellettuale.
   Sherlock si volta verso Mycroft che, dal canto suo, ha uno sguardo perso e infelice. «Vuoi rispondere?» chiede, ridendosela sotto i baffi.
   «Voglio morire» ribatte il fratello, passandosi stancamente una mano sul viso. E poi guarda John, mentre Sherlock borbotta tra sé che in tal caso non avrebbe proprio nulla in contrario. Di fronte allo sguardo affilato – e vagamente depresso – dell’uomo di ghiaccio, il dottore si sente seriamente chiamato in causa e annaspa sotto il peso di quella responsabilità inaspettata. Tentenna e prova ad imbastire una risposta che gli muore sulle labbra ad ogni tentativo, senza sospettare che Mycroft non sta affatto aspettando un suo consiglio ma sta piuttosto valutando la possibilità di farlo assassinare durante la notte, data la sensibilità dei dati di cui è venuto in possesso.
   Ben presto John si arrende. «Non ho la più pallida idea di come si conquisti un uomo. Mi dispiace» dichiara col tono grave di chi abbia molto ponderato per giungere ad una solida conclusione, e proprio non comprende il motivo dello sguardo assolutamente disgustato che riceve identico da entrambi i fratelli Holmes. Di colpo si sente stupido e non sa perché.
   Mycroft si volta verso il fratello con un’insolita smorfia compassionevole stampata in viso.
   «Taci» lo frena Sherlock, serrando gli occhi con un fremito di stizza, e agita nervosamente la mano in un gesto che dovrebbe essere un invito ad accomiatarsi e anche in fretta. «Va’ via, Mycroft. Come vedi, qui non c’è nessuno in grado di aiutarti».
   «Potresti... invitarlo a cena» interviene allora John, allargando le braccia, più per distrarsi dal senso di disagio che l’ha attanagliato che per dare un contributo costruttivo alla causa – il che è quantomeno palese, vista la banalità del suggerimento.
   Mycroft inarca pesantemente un sopracciglio, scettico. «E con quale scusa?».
   John Watson aggrotta la fronte. «Questo genere di cose non necessita di una scusa, Mycroft».
   Il suo antipatico interlocutore alza gli occhi al cielo con un sorriso sarcastico. «Non mi dirà che se qualcuno che conosce a malapena si presentasse da lei per invitarla a cena, lei non si domanderebbe nemmeno perché». Il tono è irridente, ed il dottore si domanda indispettito come facciano gli Holmes a farlo passare per un deficiente persino quando è evidente che, nella stanza, l’unico nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali è proprio lui.
   «Il perché sarebbe palese, non ti pare?» scandisce lentamente, impiegando contro Mycroft quello stesso tono e quello stesso sguardo che Sherlock utilizza appositamente per far sentire stupide le persone – più di quanto non lo faccia solitamente. Se una donna lo invitasse a cena, John non perderebbe certo tempo in considerazioni filosofiche – il perché di un tale invito sarebbe ovvio, no? Non è ovvio? Del resto, neanche quando è Sherlock ad invitarlo a cena, John sente la necessità di chiedersi per quale motivo lo faccia. Anche perché, in effetti, non sono classici inviti, i suoi, più che altro se lo trascina dietro come fa sempre. Ma se davvero lo invitasse allora – un momento, perché diavolo sta pensando a Sherlock che lo invita a cena, adesso?!
   Mycroft Holmes affila lo sguardo e John Watson, inspiegabilmente, arrossisce. Poi, stabilendo che la strana deriva del suo cervello dev’essere interamente imputabile al fastidioso individuo di cui sopra e al suo losco problema, il dottore lo guarda in cagnesco e, rinvigorito dall'inconfutabile verità di essere l'unica persona, lì dentro, in grado di sostenere una conversazione con un altro essere umano senza che questo venga colto dall'irrefrenabile desiderio di emigrare oltreoceano, sporge il mento con aria fiera. «Le persone non chiedono perché» proclama piuttosto stupidamente, come se questo sancisse definitivamente la sua supremazia in campo sentimentale. Nella sua testa suonava meglio, senza dubbio.
   «Che meraviglioso mondo di pesci rossi» commenta Mycroft con uno sbuffo, agitando pensieroso l’ombrello. «Molto bene» sentenzia infine a bassa voce, un luccichio pericoloso negli occhi e l’aria di chi abbia preso una risoluzione sofferta ma necessaria. «Mi vedo costretto a fare a modo mio, dunque». E si avvia rapido e temibile verso la porta, come se non potesse attendere un istante di più per fare brutalmente irruzione nell’esistenza dell’ignaro ispettore e scombinarla irrimediabilmente – e probabilmente è proprio così.
   John è scosso dal brivido di un pessimo presentimento, e spinto dall’amicizia verso Lestrade – non può dimenticare di aver sentito Sherlock accennare ad un rapimento, dopotutto – interviene frettolosamente. «Digli che vuoi parlargli di Sherlock!» farfuglia, e di nuovo due paia di occhi Holmes lo puntano con sorprendente intensità. John deglutisce e prosegue. «Accetterà senza fare altre domande. E poi, a cena, potrai inventarti qualche preoccupazione da fratello maggiore».
   «Magari dovessi inventare qualcosa» sospira Mycroft, ma sembra prendere in considerazione la proposta mentre Sherlock guarda male lui e John alternativamente.
   «Non vedo come possa avere senso una cosa del genere» commenta il detective, rigido. «Perché mai Lestrade dovrebbe accettare di andare a cena con mio fratello per parlare di me?». E John gli riserva un’espressione a metà tra lo sconforto e il fastidio, perché Sherlock è un maledetto zuccone che non ha davvero la più pallida idea di quanto gli si possa volere bene.
   «Ai tuoi amici, Sherlock, basta sentir pronunciare il tuo nome e la parola ‘problema’ nella stessa frase, per trasformarsi in trottole esagitate che rimbalzano da una parte all’altra nel tentativo di tirarti fuori dai guai» spiega sospirando. E se Sherlock avesse un minimo di umana sensibilità, ora avrebbe gli occhi un filo lucidi. Invece niente, rileva John, rassegnato.
   «Lestrade è mio amico?» domanda piuttosto quello, come se la faccenda fosse terribilmente sospetta.
   Eppure è una cosa tenera, quella che ha detto il dottore. Forse non si è spiegato bene? In genere è Sherlock, quello che sentimentalmente si esprime a merda.
   «Eccellente analisi, dottor Watson» approva però Mycroft senza scomporsi, e John si domanda se la categoria 'amici' possa accogliere l’ingombrante e peculiare presenza del terribile fratello. Sherlock non sarebbe d’accordo.
   «Tutti quelli che hanno la curiosa tendenza a volerti bene sono sempre pronti a farsi in quattro per te» puntualizza allora il dottore. «Siamo coloro che, con immenso tatto e savoir faire, sei solito definire ‘imbecilli sentimentali’». Ora è soddisfatto, davvero. Ma Sherlock, come al solito quando si tratta di frivolezze come il cuore delle persone, non pare aver centrato il punto.
   «Lestrade mi vuole bene?» esclama stralunato, e non si capisce se sia disgustato o soltanto scioccato.
   John Watson alza gli occhi al cielo e si chiede perché. Niente di specifico, una domanda così in generale. L’espressione di Mycroft è specchio della sua, e per una volta il dottore si concede della comprensione per lui. Non che John odi l’onnipotente fratello del suo coinquilino e amico, non davvero, no. Ma la sua parte più irrazionale, quella che talvolta la notte sogna ancora tetti e corpi che cadono, non vuole perdonargli il suo silenzio lungo due anni. Lui avrebbe potuto. Lui avrebbe dovuto.
   Mycroft gli rivolge un sorriso tirato. «Suppongo di poter sorvolare sul fatto che lei mi abbia appena dato dell’imbecille come ringraziamento per la sua collaborazione» dichiara, e John non riesce davvero a credere che non ci avesse pensato da solo a portare Lestrade al ristorante, invece di organizzare un blitz per sequestrarlo. Risponde con un’alzata di spalle e Mycroft, in silenzio, raggiunge la porta. «Immagino di non doverle suggerire di tenere per sé quanto ha appreso» aggiunge senza guardare altro se non le scale, ma il suo tono è apertamente minaccioso.
   John sospira. «La tua immaginazione lavora egregiamente, Mycroft».
   Il maggiore degli Holmes si volta a fulminarlo con un sorriso che avrebbe fatto rizzare il pelo persino al mastino di Baskerville, se mai fosse esistito. «Ma la sua no, non è vero?» commenta, canzonatorio, e John, pur non decifrando la stoccata, stabilisce che per quel giorno a solidarietà è a posto così. Mycroft si volta verso il fratello con una cert’aria di compatimento. «Non sono sicuro di capire le tue ragioni» confessa, quasi divertito. «Ma non è una novità, vero?».
   Sherlock sbuffa dalle narici come un toro arrabbiato. «Faresti meglio a pensare alle tue».
   «Ti terrò aggiornato» dichiara l’altro, scuotendo la testa con vaga rassegnazione.
   «Non disturbarti, leggerò tutto in faccia a Gustav la prossima volta che verrà ad implorare il mio aiuto. Molto presto, quindi».
   «Greg» lo correggono all’unisono John e Mycroft, esasperati, prima che costui imbocchi le scale.
   «Riguardati, Sherlock, ti vedo stanco» suggerisce, e il fratello si produce in una specie di pernacchia che spinge Mycroft a sospirare pesantemente, prima di guardare John e accennargli di nuovo quel sorriso indicibilmente inquietante. «Stia bene, dottore. E faccia qualcosa per quella nebbia».
   Una volta che il portone del 221B si è richiuso alle spalle dell’uomo, John si gira ad osservare Sherlock che, immobile e ad occhi chiusi, appare esageratamente provato dalla visita. «Era un insulto anche quello, vero?» indaga il dottore, indispettito, avvicinandosi al suo coinquilino.
   «Hai mai sentito altro da mio fratello?» conferma il detective, alzandosi in piedi di scatto e prendendo a girare per la stanza come un leone in gabbia.
   «Gliela do io, la nebbia» brontola John tra i denti, studiando il percorso nevrotico di Sherlock. «Sono quasi tentato di chiamare Greg e combinare qualche casino».
   «Sarebbe fatica sprecata, stavolta mio fratello è deciso» afferma l’altro con un grugnito infastidito, scavalcando il tavolino.
   «Potrebbe non andare come Mycroft desidera» considera il dottore, senza sapere bene cosa dovrebbe augurare ai due di cui si sta discutendo.
   «Ma certo che andrà come desidera. Lestrade non aspetta altro» obietta Sherlock con il tono di qualcuno che spieghi qualcosa di ovvio ad un idiota. Il suo solito tono, a ben vedere.
   John è perplesso. «Non credevo che Greg apprezzasse il genere maschile» commenta un po’ incerto, e si indispone quando avverte chiaramente di essere arrossito – e non è niente affatto convinto di volerne conoscere la ragione.
  «Non credevo che Mycroft apprezzasse il genere umano» puntualizza il detective con un'alzata di spalle. «Ma immagino che mio fratello possa risultare interessante, se lo desidera» brontola seccamente, girando intorno al tavolo della cucina.
   «Piangerebbe di commozione, a sentirti» osserva John con un mezzo ghigno, subito ricambiato.
   «Con me non si è mai sforzato, in ogni caso» conclude Sherlock, agitando noncurante la mano.
   «Con me nemmeno. Cos’ha Lestrade che io non ho?». L'altro lo studia in silenzio, come se ci stesse pensando seriamente anche lui. «Per la cronaca, era solo così per dire. Non sono interessato a tuo fratello, grazie» puntualizza in fretta John, prima che il suo coinquilino sviluppi strane idee.
   Sherlock inarca un sopracciglio. «Ne sarebbe semplicemente deliziato» commenta con un sorrisetto infido.
   Il dottore stringe gli occhi in due fessure, ma per il resto lo ignora, scegliendo di riportare un briciolo di ragionevolezza nella discussione. «Ma se Greg è così interessato come dici, perché tuo fratello semplicemente non lo sa?».
   Il detective si lascia sfuggire un grugnito di disapprovazione, fermandosi un istante e poi riprendendo a girovagare nervosamente per il salotto. «A quanto pare nemmeno Mycroft è padrone del proprio cervello, in questa situazione. Proprio come succede a voialtri» aggiunge con vago disprezzo, contemplando lo smile di pallottole impresso nel muro. John incrocia le braccia al petto con aria di sfida.
   «Parli come se tu fossi certo di poter mantenere la tua fredda lucidità in un simile frangente».
   «Ne sono certo, infatti» assicura il detective girando attorno alle poltrone, e il dottore si scopre turbato da quel tono sicuro di chi una cosa l’ha vissuta sulla propria pelle, e non sa bene perché.
   «È difficile essere completamente razionali in questo genere di cose» insiste, vagamente innervosito. «Lo sarebbe anche per te, sei un essere umano, che tu lo accetti o no».
   «Io ne sono capace» afferma l’altro, indecorosamente spavaldo, e John si irrita perché quel sono al posto del sarei che si aspettava lo disturba molto più di quanto sia disposto ad ammettere.
   «E come lo sai? Pensavo che il grande Sherlock Holmes non avesse mai ceduto all’imperdonabile debolezza di innamorarsi di qualcuno» sbotta, inspiegabilmente impermalito.
   Sherlock gli riserva un’occhiataccia e si lascia cadere come un sacco sul divano, senza degnarlo di ulteriore considerazione. Il dottore gli si accosta e lo fronteggia dall’alto. Si squadrano per diversi istanti, torvi, e dal canto suo John non capisce che diavolo stia succedendo.
   Fottutamente bello.
   Il pensiero lo sfiora a tradimento e il dottore quasi sobbalza, prima di scuotere la testa e tornare all'attacco. «Non mi dirai che ti sei invaghito di Lestrade anche tu» insinua, e vorrebbe suonare scherzoso e provocatorio, davvero, ma per qualche ragione il pensiero gli causa un improvviso sconquasso emotivo, al punto che ne emerge qualcosa di molto più simile ad un’accusa, decisamente.
   Sherlock si puntella sui gomiti e si protende con aria battagliera, mandando saette dagli occhi. «Inizio a credere che il ruolo di assistente detective non ti si addica affatto, John».
   John lo ignora nella maniera più assoluta. «C’è qualcosa in questa storia che ti disturba, è evidente. È questo?» si azzarda a domandare, una volta certo di aver riacquistato un tono di voce socialmente accettabile (e forse Sherlock ha davvero ragione con quella faccenda del 52.37%, perché per qualche bizzarro motivo sta ringhiando).
   Il detective balza in piedi e per qualche secondo lui e il dottore sono talmente vicini che potrebbero contarsi le ciglia a vicenda. John ha la fronte aggrottata e tanti pensieri confusi, ma per un attimo l’immagine delle labbra dell’altro resta impressa a fuoco nella sua retina e il dottore è certo di non sapere davvero perché.
   «Dovresti proprio fare qualcosa per quella nebbia» gli sibila Sherlock a mezzo centimetro dal naso, prima di scostarsi e sparire in uno svolazzo di vestaglia viola.

 

 

 

 

     Quella notte John non riesce a dormire. Il pensiero di quella presunta nebbia che, a dire degli Holmes, offusca in qualche maniera la sua capacità di giudizio gli impedisce di prendere sonno. Sente che nella sua stanza al piano di sotto veglia anche Sherlock, che cammina in su e in giù da ore.
   Il mattino seguente, comunque, tutto sembra rientrato nei ranghi – qualsiasi cosa sia successa – e il dottore porge il tè ad uno Sherlock nuovamente raggomitolato in poltrona prima di uscire per andare al lavoro, il viso insoddisfatto e grondante sonno di chi ha passato una notte intera ad arrovellarsi su qualcosa d’importante senza grande costrutto.
   John sospira e accoglie il primo paziente della giornata: una bella sessione di prelievi è proprio quel che gli ci vuole per distrarsi. Sfortunatamente – per il paziente – costui ha la disgrazia di chiamarsi Gregory.
   Il dottore avverte la bizzarra sensazione di avere un picchio malvagio insediato nel cervello che vorrebbe costringerlo a strapazzare il poveretto contro la sua volontà, perché John non avrebbe proprio alcun motivo di sentir scorrere tutta quell’irritazione sottopelle al solo suono di quel nome. Naturalmente fa del suo meglio per essere cortese, ma qualcosa dev’essere andato clamorosamente storto, perché quando il paziente lascia la stanza appare esageratamente sollevato.
   John è sbigottito dalla propria idiozia e si chiede quale diavolo sia, tutto d’un colpo, il suo problema col nome Gregory – che è anche un bel nome, tra l’altro.
   Il dottore avverte un altro colpo del picchio infernale.
   Certo, in effetti è quasi pretenzioso, come nome. Un po’ snob. Gregory. Evoca anche l’idea di una persona intellettualmente modesta, per non dire ottusa, di qualcuno che, senza suggerimento, non sarebbe capace di trovare il bagno di casa propria. E poi è troppo lungo, e pronunciandolo la lingua vibra in maniera spiacevole.
   Che nome di merda, a ben vedere. Ma questo non ha assolutamente nulla a che vedere con Lestrade. John non sta affatto pensando a Lestrade, aveva persino dimenticato che esistesse, Lestrade. Perché dovrebbe pensare a Lestrade? Perché dovrebbe pensare che Sherlock potrebbe star pensando a Lestrade? Ma perché, poi, Sherlock dovrebbe pensare a Lestrade?
   L’idea che il detective possa essere realmente attratto dal modesto ispettore di Scotland Yard è ridicola e spaventosa insieme.
   Il dottore prova a convincersi dell’assurdità dell’ipotesi considerando che Sherlock tratta Lestrade davvero troppo male perché questa possa anche solo essere valutata, ma poi, di nuovo, è Sherlock, gli ricorda il suo cervello. Magari per lui quella è una raffinata tecnica di corteggiamento.
   John scuote la testa. Se ciò fosse vero, Sherlock dovrebbe essere pazzo di Anderson, e almeno di questo ha il dovere di dubitare, vero? L’attimo dopo, John si ritrova a contare mentalmente le volte in cui Sherlock lo ha insultato, di recente, e se davvero la chiave è questa il dottore non ha speranze, Lestrade lo batte su tutta la linea. E c’è l’aggravante del nome che Sherlock fa ampiamente mostra di non ricordare.
   John si lascia sfuggire un mugolio irritato, prima di soffermarsi a riflettere sul corso dei suoi pensieri e domandarsi se forse non sia impazzito come si aspettava che sarebbe accaduto prima o poi – ha sempre sospettato che la vicinanza di Sherlock l’avrebbe condotto ad una demenza prematura.

 

 

 

 

     Nei giorni seguenti, il dottore continua a rimuginare su questa storia della nebbia, di Mycroft, di Lestrade, di Sherlock che insegue Lestrade nella nebbia e Mycroft che resta indietro sbraitando e lui, John, che chissà per quale motivo piagnucola in un angolo, neanche fosse un cane abbandonato. Questo lo ha sognato, in verità. Santo Cielo, gli toccherà prendere qualcosa, tutto questo non è normale.
   Col passare del tempo, John si ritrova talmente immerso nelle proprie elucubrazioni – o per meglio dire impantanato – da non accorgersi di aver preso a fissare Sherlock ogni volta che sono insieme, come tentando di carpirgli una spiegazione circa il manicomio che si è scatenato nella sua testa. Quella sera non fa eccezione, anche se non sono da soli in casa. Anche se sono sul luogo di un omicidio con tanto di cadavere ancora presente. Anche se Lestrade continua a guardare John con viva perplessità e a tentare di scambiare con Sherlock molte più occhiate di quante John reputi necessarie.
   Il detective, dal canto suo, si limita a spiegare quel che è successo al poveretto lì a terra, scopre l’assassino via internet, insulta Donovan, ferma un taxi e ordina la cena al cinese: sarà ad attenderli quando rientreranno; il tutto in ventitré minuti. Prima di alzare i tacchi, Sherlock ispeziona attentamente la faccia di Lestrade sotto lo sguardo insolitamente severo di John. L’ispettore è visibilmente a disagio, ma il detective sembra improvvisamente molto soddisfatto, tanto da ricordarsi di salutare.
   «Ci vediamo, Gervasius» esclama quasi allegro, lasciando tutti basiti.
   È con una specie di pigolio incerto che Lestrade ribatte «Greg, mi chiamo Greg», suonando talmente poco convinto che pare stia prendendo in seria considerazione l’idea di cambiare nome.
   In taxi, John continua ad osservare il suo compagno con vivo sospetto. «Cos’hai tanto da sorridere?» indaga, squadrando l’aria di trionfo stampata sulla faccia del detective, decisamente eccessiva per il caso appena risolto, classificato da Sherlock come un misero quattro – uno di quei casi per cui normalmente non si sarebbe nemmeno scomodato a vestirsi, per intendersi, figurarsi ad uscire di casa. E invece Sherlock si è fiondato sulla scena del crimine non appena Lestrade ha chiamato e John non è affatto felice di tutto questo zelo.
   «Mycroft non si è ancora mosso» si limita ad illustrare l’altro, con un compiacimento che a John non va proprio giù. «Sono passati cinque giorni e non è successo niente. A questo punto potrebbe davvero essersi tirato indietro» valuta soddisfatto.
   «E perché questo ti rende così euforico?» lo interroga John e Santo Cielo, perché sta digrignando i denti?
   Sherlock inarca un sopracciglio. «C’è chi colleziona francobolli, o insetti, o tappi di birra. Io colleziono i fallimenti di mio fratello» spiega, e sembra crederci davvero. Ma il dottore assottiglia lo sguardo, inquisitorio, certo di essere sul punto di cogliere la spiacevole verità che il suo amico è innamorato di Gregory Lestrade e lui, John Watson, dovrà trascorrere un’altra notte insonne a tentare di capire perché questo fatto sembra volergli spezzare il cuore.
   Ma quando infine sussurra «È veramente questo il motivo?» suonando incerto e un po’ smarrito, e gli occhi di Sherlock balenano per un attimo nei suoi, indecisi, John è come folgorato da un’altra possibile verità, e per un istante trema e boccheggia. Poi tutto finisce, Sherlock gli dà le spalle per scendere dal taxi e John lo segue frastornato.

 

 

 

 

     Malgrado non abbia letto sul viso di Sherlock quel che temeva, nemmeno quella notte il dottore riesce a dormire come la massacrante giornata di lavoro che lo attende l’indomani gli suggerirebbe di fare. È colpa del cinese, si dice, gli è risultato pesante – ecco il perché dello stomaco sottosopra. E deve anche aver esagerato col tè, prima di salire a dormire – ecco il perché dei battiti accelerati. Ma il modo in cui da giorni – mesi, anni – continua a pensare a Sherlock non consente un’interpretazione altrettanto di comodo, purtroppo.
   Dopo una settimana di irritata confusione, John Watson inizia ad avere paura. Naturalmente non è la prima volta che si ritrova a domandarsi se per caso non sia innamorato di Sherlock Holmes – però scherzava, davvero! – ma in genere ha sempre accuratamente evitato di fornirsi una risposta, soprattutto perché il bastardo allora era morto e poi lui, John, si è sposato e Cielo, che casino – ma ora il pensiero si è fatto asfissiante. Sarebbe un problema, è un problema, perché è vero, tutto fottutamente vero, e perciò non si dorme.
   Quando alla fine, pochi minuti o qualche ora più tardi – fuori, comunque, è ancora clamorosamente buio – Sherlock si attacca al violino come quello schizzato che è, il desiderio di uccidere il suo amico placa finalmente quel marasma di sentimenti agitati che ha recentemente guadagnato in consapevolezza nella testa di un certo capitano del quinto fucilieri del Northumberland.
   Il mattino seguente, John approda in cucina in stato confusionale, ed è solo con un notevole sforzo di immaginazione che riesce a cogliere la presenza di Mycroft Holmes seduto a tavola, frenando per un pelo il movimento che l’avrebbe condotto ad accomodarglisi addosso – con scarso piacere di entrambi, suppone.
   «Buongiorno, dottore» lo saluta l’uomo con un sorriso affettato, per poi tornare a rivolgere la propria attenzione al fratello che, come John nota solo ora, gli sta seduto di fronte.
   I due Holmes si studiano in silenzio mentre il dottore consuma rapido e piuttosto confuso la propria colazione, spostando lo sguardo dall’uno all’altro. Sembra che stiano intrattenendo una vera e propria discussione e probabilmente è così e John vorrebbe saperne di più perché sa che c’entra Lestrade e non che lui pensi ancora a quella stupidaggine ma- «Devo andare, buona giornata» esclama, alzandosi e uscendo di casa un momento dopo, senza aver potuto mancare di notare che Sherlock non lo ha guardato neanche una volta. Ma questo naturalmente non gli stringe spiacevolmente lo stomaco. Dev’essere un reflusso della famigerata cena cinese.
   A ripensarci quella sera, e quella successiva, e quella seguente, John ha modo di pentirsi amaramente di non essere rimasto a casa ad assistere al confronto tra i due fratelli, perché da allora Sherlock è sprofondato nel suo Palazzo Mentale e non ne riemerge neanche per mangiare, e il dottore è decisamente sull’orlo di una crisi di nervi.
   Il detective non parla e nemmeno suona, di rado si alza dal divano su cui si è spalmato come se non gli restasse un solo osso in corpo e non sembra accorgersi dell’esistenza dell’altro, che si trascina ripetutamente dalla cucina al salotto nel tentativo di fargli ingerire qualcosa. John non nota che in realtà Sherlock lo perde raramente d’occhio, perciò si limita a stabilire che la colpa dev’essere tutta di Mycroft, ed è giusto sul punto di telefonargli per intimargli di venire a imboccare personalmente suo fratello quando la porta – quella fottuta porta – viene spalancata di botto e sette persone fanno irruzione nell’appartamento.
   Il dottore sobbalza e avverte chiaramente di stare per urlare qualcosa di davvero poco carino e spera che Lestrade non sia troppo sensibile – perché c’è lui, naturalmente, a capo di quell’orda di barbari penetrati nel loro territorio per una presunta retata antidroga – perché non è affatto sicuro di volersi trattenere. Si volta verso Sherlock, pronto a concedergli l’onore di aprire le danze, ma con suo sommo sgomento il suo coinquilino non si è mosso di un centimetro, e resta immobile per tutto il tempo in cui quell’ammasso di piantagrane si diverte a ficcare il naso in mezzo alle sue mutande, e John non sa davvero che cosa pensare, ed evidentemente non lo sa neanche Lestrade, che si gratta la testa imbarazzato. 
   L'ispettore compie due passi verso il detective, evidentemente incerto su cosa dire, ma Sherlock lo precede. «Qui non c’è niente che possa interessarvi, George, se vogliamo escludere quei quindici o venti testi di chimica che Anderson farebbe meglio a riguardarsi» puntualizza senza aprire gli occhi e senza alcuna inflessione particolare nella voce, scevra persino del giusto disprezzo che Anderson si merita a prescindere. John è semplicemente esterrefatto.
   Lestrade si schiarisce la voce e si avvicina ancora, e il picchio malefico risorge glorioso nel cervello del dottor Watson. «Tuo fratello è molto preoccupato, Sherlock» confessa l'ispettore, in tono quasi timido, e questo dovrebbe spiegare al dottore parecchie cose circa quell’improvviso scompiglio e la visita di Mycroft di qualche mattina prima, se soltanto il suo equilibrio interiore non fosse così irrimediabilmente compromesso da impedirgli di mettere a fuoco la situazione.
   Il detective sbuffa sonoramente, e questo è tutto ciò che ha da dichiarare in merito. Lestrade cerca in John un supporto morale, ma si scontra col suo sguardo inaspettatamente gelido nel momento in cui posa una mano sulla spalla di Sherlock per invitarlo al dialogo. Sta per parlare, probabilmente per chiedere cos’abbia il dottore che non vada, quando gli altri invasori giungono a comunicare che non hanno trovato nulla e infilano rapidamente la porta sotto lo sguardo di fuoco del capitano Watson.
   Lestrade indugia. Ha ritratto la mano, ma è ancora troppo vicino a Sherlock perché il dottore possa riservargli qualcosa di più di uno sguardo affilatissimo, e stavolta l'ispettore manifesta apertamente la propria confusione. «John? Ti senti bene?» chiede, incerto, iniziando a domandarsi se Sherlock non sia l’unico potenzialmente fatto, lì dentro.
   «Benissimo, grazie» tuona il dottore con uno schiocco di lingua, mentre la voce del detective emerge funerea ad assicurare: «Non sono fatto, Gerard» e John si volta a fissarlo, e poi «Non è fatto» gracchia, tentando di imprimere la più tracotante sicurezza in quelle tre parole – perché no, non ha ancora capito che cosa sta succedendo e perciò un filino di sana inquietudine lo assale di prepotenza.
   Lestrade non ha appigli per insistere, anche se appare tutto fuorché convinto, e si lascia accompagnare alla porta. Prima di imboccare le scale, rivolge a John uno sguardo sinceramente preoccupato. «Sei sicuro che vada tutto bene?» si azzarda a chiedere ancora, ed è allora che John si rende conto che Lestrade è un suo amico e che non va bene per niente quello che ha pensato di lui ultimamente. Il dottore si sforza e riesce a prodursi in un sorriso un po’ stentato, ma sincero.
   «Sì. Sì, scusa. È solo un periodo un po’... massacrante. Sai, Sherlock, il lavoro... Sherlock» si costringe a rispondere, e l'altro sorride immediatamente in risposta, comprensivo.
   «Tienilo d’occhio» gli raccomanda, e non c’è davvero altro se non l’affetto di un amico nel saluto che rivolge ai due coinquilini prima di lasciare la stanza.
   Sì, Lestrade è suo amico e John gli vuole bene, medita il dottore serrando la porta a chiave – per quella sera è più che sufficiente così, grazie. Gli vuole bene come ne vuole alla signora Hudson, o a Mike. E non come ne vuole a Sherlock.
   John si dirige incerto verso il suo coinquilino, che appare di nuovo irrimediabilmente avulso dalla realtà. Lo contempla per un istante e poi allunga una mano per scrollarlo violentemente.
   Sherlock apre gli occhi, inviperito, e sta per regalare anatemi come fossero caramelle quando John si china deciso su di lui e tenendogli il viso fermo con una mano utilizza le dita dell’altra per costringerlo a spalancare un occhio, e si limita ad osservare che la pupilla ha dimensioni perfettamente normali e non, di nuovo, che il suo amico è davvero fottutamente bello, mentre lo guarda come fosse stato orrendamente vilipeso.
   «Non sono fatto, John» ripete Sherlock, e pare volersi costringere alla calma. Il dottore fa un passo indietro e sospira.
   «No. Lo so» ammette, e mentre si ritrova a guardargli ancora le labbra gli viene quasi da piangere, rendendosi conto del perfetto cretino che è. John Watson chiude gli occhi e trattiene a stento un lamento.
   Il peggio, ne è certo, deve ancora arrivare.

 

 

 

 

     In effetti, le cose non migliorano nei giorni successivi. Sherlock è ancora in pieno ritiro intellettuale e John vaga per casa come un fantasma. La scena è talmente bizzarra che persino Mycroft resterebbe sconcertato, e di certo è più che sufficiente alla signora Hudson per uscirsene, un pomeriggio, con un: «Ora basta, chiamo un medico» prima che John le ricordi un po’ indignato che lui è un medico. Mrs Hudson inarca un sopracciglio ed esce sventolando un vassoio.
   «Allora faccia qualcosa, caro» dice, e lui vorrebbe risponderle che lo farebbe volentieri, se soltanto capisse quale sia la mossa giusta per non ritrovarsi sommerso di cacca.
   La questione è molto complessa. Sherlock è il suo migliore amico, dopotutto, ed è un uomo, ed è Sherlock. Tre argomenti più che validi per giustificare il panico – perché di questo si tratta – che ha assalito il dottore.
   Le cose non migliorano ma il tempo continua a scorrere, e prima che John se ne renda conto è passata un'altra settimana, e un mattino il dottore riceve una chiamata da un numero privato. Dall’altro capo del telefono, Mycroft saluta e chiede di parlare con Sherlock. «Ha il cellulare spento da giorni» spiega, e pare quasi divertito.
   «Come vanno le cose?» chiede John, ancora prima di domandarsi se non farebbe meglio a farsi gli affari propri. «Con... beh, sì, insomma. Lo sai».
   «In maniera soddisfacente. Era di questo che volevo informare il mio caro fratello, se volesse degnarsi di ascoltarmi» puntualizza Mycroft, e John sta per porgere il telefono a Sherlock, che è ancora in simbiosi col divano, quando il detective alza una mano a mo’ di stop e «No» dichiara, secco.
   «Ho come l’impressione che non voglia parlare con te» rivela il dottore, riprendendo la conversazione telefonica.
   Mycroft sospira. «Sempre così infantile. Può farmi la cortesia di dirgli che l’invidia non si addice al suo cervello modestamente sopra la media?». John sta per chiedere lumi in merito ma Mycroft saluta e attacca, e il dottore fissa scontento lo schermo del telefono per qualche istante, prima di alzare gli occhi su Sherlock e rendersi conto che il detective lo sta guardando apertamente per la prima volta dopo giorni.
   John ha un sussulto e resta immobile, deglutendo rumorosamente. «Mycroft ti accusa di essere infantile» butta lì dopo qualche istante di silenzio, e Sherlock esibisce una smorfia di puro fastidio, ma non risponde. «Mi chiedo come gli sia venuta un'idea del genere» mormora John. «Le cose con Greg gli stanno andando bene, sembra, e-» ma non gli è concesso di terminare la breve esposizione delle presunte gioie sentimentali di Mycroft, perché Sherlock si è tirato su di scatto ed è sparito verso la sua stanza, e un’espressione vivamente irritata è tutto quello che il dottore ha potuto leggere sul suo viso, al posto di un più tradizionale augurio di buona giornata.

 

 

 

 

     Quando rientra, nel pomeriggio, il suo coinquilino non c’è. John mette a posto la spesa e dà una sistemata in giro, osservando con distaccata perplessità il fatto che la carta in quell’appartamento non fa che aumentare esponenzialmente, giusto perché sono nell’era della tecnologia.
   Poi il suo sguardo cade sul divano. Il divano di cui Sherlock ha praticamente preso possesso fin dal primo giorno lì dentro. Colto da una curiosa tentazione, John si avvicina. Si siede al centro, respira, chiude gli occhi. E si sdraia come fa Sherlock, nella stessa posizione, mani giunte e tutto il resto. Si domanda distrattamente che senso abbia ciò che sta facendo. E si risponde che gli avvallamenti che percepisce sotto di sé li ha provocati la figura distesa di Sherlock, perciò lo sta sentendo, ecco che cosa sta facendo. In un modo un po’ strano e più intimo del solito, per quanto paradossale possa sembrare.
   Quando riapre gli occhi, poco ci manca che la saliva gli vada di traverso e muoia lì sul colpo. Dev’essersi addormentato e nel frattempo Sherlock è rientrato, ed è lì in piedi al suo fianco ad osservarlo con un’espressione indecifrabile. Ha avuto tutto il tempo di prepararsi, lui, riflette John indispettito, e si chiede che faccia avesse, invece, nel momento in cui lo ha rinvenuto lì in quella posa – si è assopito con le dita intrecciate sotto il naso e, benché sia opinabile se la prova sia così evidente, a John pare di avere una didascalia al neon proprio sopra la testa.
   Il dottore si tira su a sedere di scatto, neanche avesse preso la scossa, con l’espressione più colpevole che sia mai riuscito a produrre in oltre quarant’anni di esistenza, e dopo un attimo di assestamento alza su Sherlock uno sguardo affilato, come sfidandolo a dire qualcosa di infame. Ma il suo amico tace e continua ad osservarlo senza che il suo viso tradisca il segno di una qualsiasi emozione.
   John è piuttosto intontito dal brusco risveglio. Il suo sguardo vaga distratto sulla mensola del caminetto, il tappeto, i buchi nella parete, la figura slanciata del detective. Qualcosa attira la sua attenzione e il dottore guarda meglio. Dopo un attimo di smarrimento, sbianca. «Sherlock» sussurra ad occhi sbarrati, «perché sei coperto di sangue?».
   L’uomo di fronte a lui si riscuote e pare ricordarsi del particolare soltanto in quel momento. «Oh, questo» mormora, senza alcuna apparente preoccupazione. «Non è niente, provvedo subito». E si incammina tranquillo verso il bagno. Un istante dopo, John lo insegue a passo di carica.
   «Fammi vedere» gli intima, mentre il detective si piega a recuperare dal mobiletto sotto il lavandino il kit del pronto soccorso. Sherlock lo supera ed entra nella propria stanza, sfilandosi il cappotto che aveva ancora indosso.
   John si domanda quanto Sherlock sia rimasto sorpreso dalla scenetta di poco prima, per aver trascurato persino di togliersi il cappotto – oltre che di accertarsi di non avere un’emorragia in corso. «Quando sei rientrato?» domanda, seguendolo a braccia conserte.
   Sherlock si sbottona la camicia con aria svagata. «Circa un'ora fa» risponde senza fare una piega, e il dottore sussulta. La risposta è molto sorpreso. John gli si accosta per compiere il suo dovere di medico e trattiene una maledizione quando Sherlock gli mostra il suo personalissimo concetto di niente – una fitta rete di escoriazioni e tagli e quella è una bruciatura? ed è tutto talmente sporco di sangue secco da rendere difficile l’identificazione di danni ulteriori, ma il dottore ci può giurare che troverà qualcos’altro per cui disperarsi.
   John scruta torvo l’uomo di fronte a sé. «Voglio saperlo?» sibila tra i denti, e spera vivamente di no, perché farebbe volentieri a meno di dedicare le ore successive a rintracciare il farabutto responsabile di quello sfacelo per manifestargli il proprio educato disappunto, spezzandogli quelle quattro o cinque ossa di cui in carcere potrà certamente fare a meno per qualche mese.
   Sherlock ci pensa soltanto per un attimo. «No, credo di no». E in effetti non sarebbe saggio confessargli che, tra le altre cose, l’assassino a cui ha dato la caccia tutto il giorno lo ha scaraventato contro i vetri chiusi di una finestra – e quindi fuori dalla finestra – di un primo piano. Per fortuna era basso, e Sherlock è abbastanza sicuro di essersi ripreso al punto che John non lo vedrà neanche zoppicare, quindi non è il caso di spaventarlo troppo. Il dottore è ancora discretamente sensibile al pensiero di Sherlock che casca dai palazzi e il detective si sta sforzando di tenerlo a mente.
   John è un grumo di biasimo e imprecazioni soffocate, mentre ritorna con un panno bagnato e comincia a pulirlo senza alcuna delicatezza. Quando poco dopo Sherlock sibila, dolorante, «Scusa» dice la bocca di John. Ti sta bene, brutto idiota, dice tutto il resto, e i movimenti del dottore non si addolciscono. «Accidenti a te, Sherlock» brontola, all’opera sul suo braccio.
   Il detective sbuffa, infastidito. «Come se fosse la prima volta che torno ricoperto di sangue» osserva polemico, neanche questo conferisse alla faccenda lo status di ordinaria amministrazione.
   «L’altra volta il sangue non era tuo» puntualizza John, ricordando con un involontario guizzo di ilarità la sconcertante apparizione del detective armato di arpione, qualche anno prima.
   «Dettagli» commenta Sherlock, annoiato.
   John alza gli occhi al cielo e provvede a incerottarlo qua e là. «C’è altro che devo sapere?» domanda, rabbuiandosi.
   «No» risponde prontamente l’altro. Troppo prontamente.
   Il dottore lo squadra con sospetto, riducendo gli occhi a due fessure. «Stai mentendo» stabilisce un attimo dopo, ed inizia a girargli intorno nel tentativo di cogliere qualcosa di anomalo. Nota che Sherlock poggia il peso sulla gamba destra – niente di strano, in teoria, ma urge verificare. «Gambe diritte, Sherlock».
   Il detective stringe le labbra a metà tra il fastidio e il compiacimento: beccato al primo colpo. «Stai migliorando, John» approva, ma il dottore non si lascia distrarre.
   «Sposta il peso sull’altra gamba» ordina, esasperato.
   «Preferirei evitare» ammette candidamente il detective.
   John Watson prende un profondo respiro per calmarsi. «Perché?».
   Sherlock inarca un sopracciglio. «Perché fa male, no?».
   Il dottore si stringe i capelli tra le mani e prova la bizzarra sensazione di avere del fumo che gli esce sibilando dalle orecchie. «Ti sei rotto una gamba, sciagurato!» ulula, in preda ad un’irragionevole – direbbe Sherlock – voglia di mollare all’altro un ceffone.
   Il detective appare stupito. «No, John, è una lieve slogatura, come fai a non-».
   «LO SO che non hai davvero una gamba rotta, idiota, altrimenti nemmeno la tua cocciutaggine ti avrebbe consentito di startene un'ora impalato a fissarmi. Avevo solo bisogno di urlarti addosso» spiega John, soddisfatto, e si frega mentalmente le mani al pensiero di poter cogliere una qualche reazione alle sue parole. Ma Sherlock, ovviamente, ignora platealmente l’astratta gomitata del dottore.
   «Mi auguro per te che non ricerchi la stessa teatralità in ambulatorio. Sarebbe oltremodo imbarazzante».
   All’altro cadono le braccia. Raccogliendo i cocci di quello che avrebbe potuto essere un assist geniale, John Watson lancia al suo coinquilino un’occhiata di fuoco. «Anche rientrare a casa conciato per Halloween il venti di marzo dovrebbe esserlo» sbotta, irritato.
   Sherlock sbuffa. «Non ho bisogno di una paternale, John» ribatte stizzosamente, allontanandosi per recuperare qualcosa da mettersi. Osservando i muscoli della schiena del suo coinquilino contrarsi armoniosi mentre la maglietta gli scivola addosso, il dottore realizza definitivamente che l’ultima cosa che vorrebbe essere per Sherlock in quel momento – e in qualsiasi altro – è un padre.
   «Voglio dormire» interviene a distrarlo la voce dell’indisponente entità, che gli si accosta spingendolo ad arretrare verso la porta.
   Praticamente lo sta cacciando via e John si mostra scontento. «Tu non vuoi mai dormire» gli fa notare un po’ infantilmente. «E poi sono certo che non hai mangiato nulla».
   Sherlock alza gli occhi al cielo. «Sopravvivrò» afferma con aria platealmente disinteressata, un momento prima di chiudergli la porta in faccia.

 

 

 

 

     John è sopravvissuto a Moriarty, a Magnussen, al matrimonio con un pericoloso sicario, a trafficanti cinesi con manie di avanspettacolo e a tanta altra bella gente, ma una volta è morto. Quando Sherlock è scomparso dalla sua vita per giocare allo spy-zombie, John è morto. Poi, quando il bastardo gli si è ripresentato davanti inequivocabilmente vivo e con quella sua solita faccia di bronzo, a John è quasi partito un infarto e ha davvero temuto di lasciarci le penne – giusto perché lo stronzo le cose deve farle per bene. E invece è rinato. E mentre rinasceva lo ha preso a pugni, a testate e a male parole – e non se n’è mai pentito – e poi hanno ricominciato. Insieme, come sempre.
   Se John fosse un sentimentale – cosa che assolutamente non è – deciderebbe che, potendo esprimere un desiderio, uno soltanto, vorrebbe Sherlock. Solo Sherlock, al suo fianco, per sempre.
   Per questo ora cammina coi piedi di piombo, timoroso che questa presa di coscienza da parte sua possa compromettere il loro equilibrio. John ora sa che resterà con Sherlock, e questo – almeno per ora – può bastargli. Non è sicuro di poter rischiare che l’altro se ne esca un’altra volta con un «Sono lusingato, ma». Che cosa ne sarebbe allora, di loro? È il caso di andarci cauti, si dice John, e di fare chiarezza un poco per volta. Ecco perché adesso sta battendo la mano contro la porta di Sherlock, chiusa a chiave, intimando al suo irritante coinquilino di uscire di lì e venire a mangiare, perché “sopravvivrò” non è un concetto che John Watson può prendere in considerazione al momento, con tutto quello a cui deve pensare.
   «Sherlock!» grugnisce, deciso a non mollare finché una tra la sua mano o la porta verrà a capo della tenzone. «Esci di lì e trascina il tuo sedere in cucina!». Sono passate tre ore da quando ha lasciato la stanza del suo amico, gli pare di essere stato comprensivo. Ma Sherlock non risponde e col passare dei minuti John inizia a inquietarsi. «Sherlock, ti avviso: hai quindici secondi per aprire questa porta o quant’è vero quell’occhio nel freezer, io la sfondo» minaccia il dottore con voce sicura, pregando che l’altro apra prima di doversi sfasciare una spalla contro il legno. Non ne uscirebbe troppo bene.
   Il suo coinquilino pare pensarla allo stesso modo, perché si decide finalmente a dare un segno della propria esistenza. «Andiamo, John. Non vorrai farmi passare la notte all’ospedale» brontola pigramente, la voce attutita dal muro che li divide.
   «Se non vieni a mangiare, io manderò te all’ospedale, e prima che tu possa finirci da solo per inedia». Sherlock non pare trovare la prospettiva convincente come John in effetti non aveva sperato che la trovasse, e tace. «Vieni a mangiare» mormora stancamente il dottore. Sherlock non risponde. John insiste ancora per un po’, mollando qualche fiacco calcio alla porta – il proposito di sfondarla a spallate è stato accantonato in favore di una sana vecchiaia – e l’altro, naturalmente, non lo degna più di una risposta. Malgrado le sue minacce, il dottore si arrende all’evidenza che Sherlock Holmes quella sera non mangerà, maledizione a lui.
   John sospira e poggia stancamente la fronte contro la porta. Si domanda distrattamente cosa farebbe il suo coinquilino, se lui si addormentasse lì sul suo uscio. Probabilmente scavalcherebbe il suo corpo appisolato alle tre del mattino per andare a suonare il violino in salotto. Magari non lo noterebbe nemmeno, se fosse preso da uno dei suoi raptus deduttivi. Magari lo calpesterebbe persino. Tentando di scacciare la non propriamente rincuorante immagine di miserabile zerbino di Sherlock Holmes dalla sua testa, John apre bocca e le dà fiato perché sì, qualche volta a lui succede, soprattutto quando il suo umore non è dei migliori.
   «Voglio fare un gioco con te» borbotta, e per un istante si rende conto che la maratona di Saw l’Enigmista la sera prima deve avergli bruciato qualche neurone in più del previsto. «Un ragionamento» si affretta dunque a correggersi, anche perché più che Saw quella frase lo fa sentire una specie di maniaco. «Voglio condurre un... sì, un ragionamento. Con te». Dall’altra parte del muro Sherlock non fiata, ma il dottore è certo di avere la sua attenzione e sospira. «Poniamo che, in via del tutto teorica... che... Sì, ehm, beh. Poniamo che, ecco, io sia – sempre teoricamente – innamorato» balbetta John, iniziando a sudare freddo ancora prima di accorgersi della mancanza del nodo fondamentale della questione. «Di te» aggiunge allora, precipitosamente, con un mezzo grugnito. E poi trattiene il fiato, in attesa. Alla faccia della circospezione. Dalla stanza di Sherlock, nessuna risposta. John aspetta e aspetta ancora. Alla fine, la fronte ormai aggrottata e due occhi spiritati, si costringe a chiamarlo. «Sherlock?». E spera che la sua voce non suoni davvero così ridicolmente alta come la percepisce lui. «Sherlock» ripete dopo un po’, ed ora è apertamente frustrato.
   «Ti sto ascoltando» ha la grandissima faccia tosta di ribattere quello un secondo prima che John volti le spalle alla sua porta e se ne vada col cuore pesante e lo stomaco sottosopra.
   Il dottore strabuzza gli occhi ed in un istante una scintilla di speranza gli incendia l’anima. «Io ho finito, veramente» chiarisce, in tono vagamente accusatorio.
   Un istante dopo, la chiave gira nella toppa e uno spiraglio si apre sul viso perplesso di Sherlock. Si guardano, palesemente confusi e palesemente per due motivi differenti – come potrebbe essere altrimenti? – la qual cosa non contribuisce di certo a semplificare la situazione.
   «Beh?» sbotta John, allargando le braccia con aria disperatamente interrogativa.
   Sherlock lo contempla per un istante ancora. «Stavo aspettando che chiarissi di che cosa, esattamente, vuoi ragionare» spiega poi, come se fosse ovvio, e malgrado l’imbarazzo John trova la forza di guardarlo male come egli merita – come diavolo dovrebbe interpretare una risposta simile? A corto di una replica che non preveda il pesante abuso di insulti e recriminazioni, il dottore lo guarda e il detective ricambia, e d’un tratto John vede che Sherlock, sotto quella faccia di cavolo che gli mostra, sta sorridendo. È un attimo e subito sorride lui, un po’ stralunato.
   «Devi rendere sempre tutto difficile, vero?». Dovrebbe essere un rimprovero, dovrebbe suonare rassegnato, magari indispettito, di certo non scherzoso come invece salta fuori, mentre il sorriso appena percettibile dell’altro si trasforma in un ghigno perfettamente riconoscibile.
   «Sei tu che hai voluto renderti dannatamente difficile il pensiero di cadere ai miei piedi» obietta il detective con un’alzata di spalle.
   Il dottore inarca un sopracciglio. «Io non sto cadendo ai tuoi piedi, Sherlock».
   «Non credo che la tua bassa statura sia sufficiente ad escludere questo modo di dire, John».
   John alza gli occhi al cielo e decide che questo è il momento di prendersi una piccola rivincita. «Buonanotte, Sherlock» esclama in tono definitivo, ed è quasi tentato di mettersi a canticchiare per la soddisfazione di vedere il suo coinquilino sgranare interdetto gli occhi. Il dottore è sul punto di scoppiare a ridergli in faccia, ma decide di optare per un trionfo più meditato e gira sui tacchi per andarsene.
   «John?» chiama l’altro, e la sua voce suona allibita.
   Il dottore soffoca una risata nel pugno e guadagna le scale con la sensazione di essere circondato da una folla plaudente. Una volta nella sua stanza, si accascia sul letto e scoppia a ridere come non gli capitava da settimane. D’un tratto, il suo telefono squilla. John legge il nome, ride ancora, si compiace e poi risponde.
   Dall’altro capo, silenzio. Per quasi un minuto.
   «Stai cercando di intimidirmi?» si azzarda alla fine a chiedere John, e deve quasi mordersi a sangue una guancia per non ricominciare a ridere come un idiota.
   «Non ho capito» confessa l’altro, e pare sinceramente infastidito.
   «Dovresti prepararmi a certe rivelazioni, Sherlock. Potresti uccidermi con molto meno».
   «Noto che l’esplosione di sentimento a cui ti sei abbandonato poco fa non ha migliorato neanche lontanamente il tuo discutibile senso dell’umorismo» lo rimbrotta il detective, risentito.
   Al dottore sfugge una risata. «Sarebbe delizioso se si potesse dire altrettanto del tuo. Almeno vorrebbe dire che esiste» precisa, pensando tra sé con un sorrisetto che lui adora l’umorismo di Sherlock.
   «Credo che tu stia parlando con l’Holmes sbagliato. Devo chiamare Mycroft e riferirgli le tue considerazioni?» propone il suo coinquilino, sprizzando sarcasmo.
   «Mi dispiacerebbe farlo restare male» sogghigna John.
   «Non è vero» decreta Sherlock, e dalla voce sembrerebbe star sorridendo.
   «No, per niente» conferma il dottore senza esitare, e i due ridacchiano per qualche istante, prima che cali di nuovo il silenzio.
   «Non ho capito» ripete il detective dopo un po’, e stavolta suona insicuro. «Ti sei… offeso? Volevi che ti seguissi? Che ti fermassi?». E John avverte un tiepido senso di colpa. «Che cosa dovevo fare?».
   «Che cosa volevi fare?».
   Sherlock medita per un po’. «Non ci sono... stupide norme anche per questo?».
   «Ci sono norme per tutto, Sherlock. Soprattutto per questo. Ma, in via del tutto eccezionale, ti do il permesso di ignorarle».
   «Ah, bene» approva l’altro, e gli attacca in faccia.
   «Sì, ma almeno salutare...!» protesta John al telefono muto, un po’ indispettito. Pochi istanti dopo, la voce profonda del detective risuona oltre la porta della sua stanza e il dottore sobbalza.
   «Sono qui. E, tra parentesi, ho sentito ogni singolo insulto».
   «Devo avere paura?» scherza John, avvicinandosi alla porta con una certa agitazione.
   Sherlock prende in considerazione l’idea. «Se a questo punto non vuoi aprirmi,».
   «Non sembrano le battute migliori per iniziare una relazione» commenta il dottore, e apre la porta. Il detective, in piedi davanti a lui, incredibilmente arrossisce. John incrocia le braccia al petto e lo squadra con un sopracciglio ironicamente alzato, straordinariamente appagato dalla situazione. Sherlock che non sa che cosa dire e quindi tace è uno spettacolo di un certo spessore. Ma dura poco. Dev’essere l’aria tronfia di John a fargli trovare il coraggio di riaprire bocca – peccato, ma il dottore non poteva proprio controllarsi.
   «Io non sono l’elemento migliore con cui iniziare una relazione» precisa Sherlock, carico di spiazzante serietà, gli occhi fissi in quelli di John. Che, per diversi istanti, non può far altro che ricambiare l’occhiata con la bocca semiaperta. Poi scrolla la testa come per riscuotersi.
   «Penso che tutto sia relativo, Sherlock, per quanto il concetto possa risultarti sgradevole. E poi sono anni che abbiamo una relazione» ammette John con un mezzo sorriso.
   Sherlock inarca un sopracciglio e il dottore comprende che il suo amico vorrebbe rimarcare l’evidenza che questo tipo di osservazioni non ha mai riscontrato il gradimento di John, in passato. Testa di cazzo, direbbe Sherlock, se soltanto Sherlock dicesse questo genere di cose. Ma di certo ne sta formulando una versione appena più edulcorata, perché non c’è bisogno di usare questo linguaggio per insultare pesantemente qualcuno e John ormai lo sa benissimo – lo ha imparato da lui – e alza le spalle, condividendo almeno in parte il silenzioso appunto.
   «Prima non ero pronto. Forse». E alza le mani, ammettendo la possibilità che forse avrebbe potuto collaborare un pochino.
   Sherlock ha ancora un sopracciglio pesantemente inarcato. «L’ultima volta che ho controllato ero ancora un uomo, John».
   Il sorriso del dottore si allarga. «E la prossima volta possiamo controllare insieme, se vuoi».
   Sherlock alza gli occhi al cielo. «Sono costretto ad escludere nella maniera più assoluta la possibilità di incorrere in mutazioni spontanee di quel tipo» sbotta, un po’ esasperato, e il dottore si limita a guardarlo con l’aria di chi abbia messo da parte una massiccia scorta di pazienza giusto per affrontare discussioni improbabili come questa. Sherlock ricambia l’occhiata affettuosamente indulgente di John con crescente perplessità. Poi, qualcosa sembra finalmente scattare nel suo geniale, ottuso cervello. Un velo di sospetto gli attraversa il viso, e aggrotta la fronte. Poi sgrana gli occhi, e arrossisce un po’. Si strofina il naso, poi sorride appena e «Oh» prorompe eloquentemente, fissandosi le mani con quello che pare moderato imbarazzo.
   «Già» dice John, e per qualche astruso motivo gli viene da ridere.
   «Perché te ne sei andato?» domanda poco dopo l’altro, e John è di nuovo sorpreso dal fatto che Sherlock abbia preso la sua ritirata così seriamente – ma ovviamente avrebbe dovuto pensarci prima perché, beh, è Sherlock.
   «Ti stavo solo prendendo in giro» confessa con un mezzo sorriso, attendendo con ragionevole sicurezza che il viso dell’altro si contragga sotto il peso dell’oltraggio subito invano; la stima del detective si rivela in ogni occasione fastidiosamente accurata.
   Sherlock lo scruta impassibile per qualche secondo. «Ma davvero» commenta, atono. «Beh, buonanotte, John» dichiara un attimo dopo con uno sguardo affilato, compiendo un passo indietro.
   John strabuzza gli occhi. «Col cavolo!» esclama, e lo agguanta per un polso, tirandolo verso di sé con tanta prepotenza da mandarlo – del tutto involontariamente, si intende – a spalmarsi contro la parete.
   «Stavo scherzando, John» spiega Sherlock, ostentando sussiego – cosa che gli riesce inspiegabilmente bene anche da mezzo spiaccicato sulla carta da parati.
   «Ci stavo arrivando» si difende il dottore, roteando teatralmente gli occhi e guardandolo ricomporsi.
   «Prima o dopo avermi quasi spezzato un polso?» s’informa l’altro, massaggiandosi la parte lesa con aria scettica.
   «Dopo, decisamente» è la secca risposta. E Sherlock ride, ed un istante più tardi ride anche John, passandosi una mano sugli occhi, e vanno avanti così per un pezzo, finché il dottore riprende fiato e lo guarda. In modo inequivocabile, a detta sua, ma ovviamente il silenzioso invito non va a segno. «Mi faresti il favore di chinare la testa?» si rassegna a domandare, tradendo un ennesimo accenno di risata.
   Sherlock trasuda falsa ingenuità quando rivolge apposta la propria attenzione al soffitto e chiede «Perché?».
   John incrocia le braccia al petto e sospira. Non ne verranno a capo in tempi umani, se qualcuno non alza bandiera bianca. «Perché sono più basso di te e non ci arrivo se non collabori, bastardo» si arrende con uno sbuffo, e Sherlock sorride soddisfatto. «Ma potrei sempre assalirti brutalmente, e in quel caso non mi azzarderei a garantire per la tua incolumità» lo avverte il dottore un istante dopo, minaccioso. Sherlock sembra valutare seriamente le opzioni e poi, con un gesto regale, china il viso. John gli è addosso subito.
   All’inizio è una cosa un po’ confusa e poco concertata, un turbinìo di braccia e mani che svolazzano da ogni parte, poi John si stacca col fiatone e una mezza risata, afferra l’altro per le spalle e lo invita a fermarsi. Sherlock lo contempla un po’ perplesso.
   Fottutamente bello.
   «Okay» balbetta il dottore. «Siamo un po’ fuori tempo. Stai... fermo un momento, per favore» mormora, e allunga le mani a tenergli il viso. L’altro lo lascia fare, insolitamente docile. John deglutisce e stringe la presa. «Okay» ripete in un sussurro, avvicinandosi di nuovo. Respira sulle labbra di Sherlock prima di sfiorarle di nuovo, più lentamente. Il detective si lascia baciare, perfettamente immobile, per minuti interi, finché il dottore sopprime una risatina contro la sua guancia lievemente accaldata.
   «Che succede?» domanda Sherlock, la voce deliziosamente tremolante.
   «Adesso puoi smetterla di fare la statua» lo informa John con un gran sorriso.
   «Mi hai chiesto tu di stare fermo!» protesta il detective, indispettito.
   «Sono passati dieci minuti, Sherlock, mi sono ambientato» osserva il dottore, lasciandogli un bacio su uno zigomo.
   «Ma io no» ribatte l’altro con qualcosa di molto simile ad un sospiro appagato, e John ci mette un po’ a realizzare che a Sherlock sta piacendo essere baciato così, la qual cosa è affascinante in maniera quasi sconvolgente. Il dottore solleva pensieroso una mano e sfiora il viso del suo compagno, che si muove per ricevere la carezza. John contempla estasiato quel volto così familiare perso in quell’espressione così nuova e così terrena – che mai avrebbe immaginato di poter vedere, e che è stato lui a provocare – e si sente travolto. Allora afferra Sherlock per le spalle e lo spinge contro la parete, spalmandoglisi addosso, le mani aggrappate disperatamente ad ogni parte di lui che riescono a raggiungere.
   «Adesso che ne dici di collaborare?» mormora, il respiro agitato, un istante prima di cercare le labbra dell’altro per invitarle a schiudersi per lui, e allora Sherlock lo aggredisce. Bocca contro bocca, stavolta tentano di assecondare i movimenti l’uno dell’altro con una riuscita talmente buona che ben presto non sono più in piedi, e poco più tardi nemmeno troppo vestiti.
   Mentre – diverse ore dopo – John medita su che cosa potrebbe regalare a Mycroft e Greg per Natale – mancano nove mesi, ma dubita che il senso di riconoscenza che prova per quei due lo avrà abbandonato per allora (o magari sì, Mycroft è discretamente bravo nel rendersi sgradevole) – Sherlock si diverte a datare le macchie di umidità del soffitto della stanza del dottore, allungandosi elegantemente su di lui di quando in quando per ricordargli che è proprio tutto vero. E come inizio non è davvero niente male.

 

 

 

 

     «E così sei un investigatore anche tu» esordisce il signor Holmes quella sera, scrutando con attenzione Lestrade, che gli è seduto accanto. L'ispettore accenna un sorriso imbarazzato, mentre Sherlock si abbandona ad espressioni di tale disappunto da convincere John a mollargli un calcio sotto il tavolo.
   «Lavoro per Scotland Yard» illustra Lestrade, perfettamente conscio del fatto che la donna seduta a capotavola di fronte al marito conosce certamente di lui anche i più oscuri segreti e tuttavia non ne pare turbata – perciò dev’essere tutto a posto, suppone.
   Sherlock, dal canto suo, continua a fare boccacce che spingono John a fingere un colpo di tosse per mascherare una risata. Smettila, gli mima col labiale un attimo dopo, senza pensare neanche per un istante che il detective gli darà retta, e per l’appunto Sherlock continua imperterrito a manifestare apertamente la sua convinzione che chiamare Lestrade 'investigatore' sia un insulto alla categoria.
   «Ti è andato qualcosa di traverso, Sherlock?» interviene Mycroft, rivolgendo al fratello un sorriso gelido. «Dagli un colpetto, Greg, per favore» suggerisce al compagno, seduto accanto all’irritante detective. «Non vorrei che si strozzasse» spiega con un sorriso che di angelico non ha che la pretesa – o più probabilmente nemmeno quella.
   John e Greg si scambiano uno sguardo di pura fratellanza. Holmes, dicono gli occhi di John; Holmes, rispondono quelli di Greg. Posso umiliarti qui a questa tavola in diciassette modi diversi e fare in modo che neppure Mycroft riesca a risollevare la tua immagine che, francamente, lascia già molto a desiderare, minacciano quelli di Sherlock, ma non se ne accorge nessuno se non Mycroft, che assottiglia pericolosamente lo sguardo.
   «Ti prego di non aizzare Gregory contro tuo fratello la sera di Natale, Myc» si inserisce perentoria madama Holmes, scoccando al maggiore dei suoi figli un’occhiata che non ammette repliche, mentre la super mente di Mycroft ne partorisce all’istante almeno una ventina.
   Questo vuol dire che da domani posso fare del mio peggio?, oppure Non c’è alcun bisogno del mio intervento, Sherlock è più che capace di farsi detestare da solo, sono solo alcune delle osservazioni che Mycroft vorrebbe fare. Invece si limita ad uno stizzito «Perché lui è 'Gregory' e io sono 'Myc', mamma?» mentre la donna gli serve l’arrosto con le patate.
   La signora Holmes alza gli occhi al cielo, e in quel momento la somiglianza con Sherlock e Mycroft è così assoluta che John e Greg si ritrovano a tossire dopo aver mandato di traverso quel che stavano bevendo, mentre il signor Holmes sorride tra sé e porge tovagliolini con l’aria di chi si aspettava che qualcosa del genere si sarebbe verificato.
   «Mi passi il sale, Myc, per favore?» domanda candidamente Sherlock al fratello, poco dopo che la tranquillità è stata ripristinata e tutti – o quasi – mangiano con gusto.
   Mycroft alza su di lui uno sguardo poco amichevole. Sa bene che anche Sherlock detesta quel diminutivo, che infatti si riserva di usare soltanto durante le loro rare riunioni di famiglia, giusto per dare corda alla madre. «Devo dedurre che le braccia ti dolgono al punto di non poterle allungare di pochi centimetri? Che cos’avrai mai fatto, Sherlock, per ridurti così» commenta, ed il suo tono è talmente insinuante che John si ritrova ad arrossire, sentendosi indirettamente chiamato in causa, pur se del tutto innocente circa lo stato delle braccia del compagno – che è ottimo, potrebbe giurarci. Sherlock, invece, sorride compiaciuto: è sempre divertente quando Mycroft si irrita al punto di dover ricorrere a colpi così bassi.
   «Mycroft!» esclama la signora Holmes, sprizzando vivo disappunto.
   «Mi piacerebbe potertelo spiegare, ma temo non capiresti» ribatte il detective con un sorriso strafottente, e Greg e John si ritrovano sull’orlo del collasso – questo è decisamente l’ultimo argomento che vorrebbero affrontare in una situazione – nonché in una compagnia – simile.
   Mycroft spara saette dagli occhi, ma non ha il tempo di rispondere per le rime che Violet Holmes stabilisce di averne abbastanza. «Sherlock, Mycroft, aiutatemi a servire il dolce» ordina con un tono di voce che pare più lo schiocco di una frusta, ed incredibilmente i due uomini si sollevano da tavola quasi all’istante, guardandosi in cagnesco, e seguono la donna verso la cucina. Greg e John assistono a quello spettacolo improbabile con la faccia attonita di chi abbia appena visto un ippogrifo a passeggio in Trafalgar Square, mentre il signor Holmes sorseggia tranquillamente il suo vino.
   «Che cosa diavolo ho appena visto?» esclama alla fine John Watson, gli occhi quasi fuori dalle orbite. «Come... diavolo ha fatto?». E le rotelle del suo cervello girano freneticamente alla ricerca della chiave per rendere Sherlock quella creatura parzialmente obbediente che è certo di aver intravisto un secondo prima.
   Lestrade scuote la testa con aria solenne. «È della donna che ha messo al mondo e cresciuto quei due, che stai parlando» osserva con molto buon senso ed una certa reverenza, e John non può far altro che annuire con un misto di mestizia e ammirazione. Si sarebbe aspettato tante cose, dalla vita, meno che di finire in un circolo di superdotati – rispettivamente fidanzato maschio, cognato e suocera, e qualcosa di molto simile deve star attraversando la mente di Lestrade, che sospira un po’ stralunato.
   Un attimo dopo, Mycroft e Sherlock fanno irruzione carichi di pudding e battute al vetriolo, salvo interrompersi quando Violet Holmes sopraggiunge agitando pericolosamente un mestolo. I due fratelli tornano ad accomodarsi ciascuno di fronte al proprio compagno, per condividere con loro l’irritazione scatenata dalla presenza dell’altro con due espressioni fotocopia che costringono Greg e John a soffocare una risata. Sherlock e Mycroft alzano gli occhi al cielo e si scambiano di sottecchi qualcosa di molto simile ad un sorriso, che nessun altro sarebbe capace di decifrare.
   «Un altro po’ di pudding, John? Gregory?» suggerisce la signora Holmes, porgendo loro il vassoio, e, quando il dottore annuisce entusiasta, Sherlock sbuffa rumorosamente.
   «Davvero, John? Cresci una tenia? Avrei dovuto immaginarlo».
   Mycroft gli scocca un’occhiata sprezzante. «Le persone mangiano per sopravvivere, Sherlock». E osserva, intimamente avvilito perché di nuovo a dieta, Lestrade servirsi di un’altra porzione di dolce.
   «Io mangio, Mycroft, ma non mi ingozzo ogni volta come se dovesse essere l’ultima».
   «Peccato. Potrebbe esserlo» ribatte il fratello in tono dolce.
   Sherlock lo fulmina con una delle sue occhiatacce più velenose. «Perché dovrei sforzarmi? Tu mangi abbastanza per tutti e due» osserva con un sorrisetto infido, e Mycroft sospira e si passa una mano sul viso.
   «Per quanto la cosa non sia affar tuo, sono dimagrito, Sherlock» sibila a denti stretti.
   «No, per niente. Mamma?».
   E Mycroft osserva allibito la genitrice glissare sulla domanda e proporre alla tavolata dell’altro vino, mentre Sherlock sorride mefistofelicamente vittorioso. «Papà!» protesta l’uomo, pentendosi amaramente di non essersi infilato un completo nero solo per fare contenta la madre – traditrice – che non lo voleva vestito da funerale.
   «Tu che ne pensi, Gregory?» indaga Sherlock, azzeccando il nome dell'ispettore per la prima volta dopo anni, al punto che per un istante sono tutti talmente scioccati da fissarlo senza aprire – o chiudere, nel caso di Lestrade, che l’ha semi spalancata – bocca.
   L’uomo si schiarisce la voce un po’ imbarazzato, scoccando al compagno un’occhiata incerta. Mycroft lo guarda severamente. «È dimagrito, certo» farfuglia un po’ agitato, confortato dal sorriso soddisfatto del maggiore dei fratelli Holmes, mentre John se la ride tra sé, riconoscendo nell’approccio di Lestrade al problema qualcosa di familiare.
   Sherlock inarca un sopracciglio con aria derisoria. «La mia fiducia nelle tue capacità di osservazione è ulteriormente calata, e ti assicuro che non era facile. Attualmente sei nella categoria "sostanze inorganiche"» dichiara, e quando Lestrade sta per ribattere, piccato, «E dire che hai un accesso privilegiato alla raccolta dei dati» esclama spazientito il detective, quasi provocando un mancamento nei due disgraziati ospiti che iniziano a domandarsi se quella sia una cena di Natale o una punizione divina.
   «Sherlock» lo richiama con un sospiro la signora Holmes, scuotendo la testa senza troppa convinzione – è così ogni Natale, dopotutto, anche se magari il soggetto delle stilettate verbali dei due fratelli tendeva ad essere un po’ diverso. Li guarda entrambi e nasconde un sorriso, intercettato e ricambiato dal marito, mentre la baruffa prosegue serrata intorno a loro e i famosi particolari scabrosi volano da una parte all’altra della tavolata, colpendo soprattutto Greg e John, che stanno sperimentando con sorprendente dolore quante sfumature di rosso possano attraversare il viso di un essere umano violentemente imbarazzato.
   «Adesso basta!» tuona infine John Watson, assalito dal desiderio di fare di Sherlock innocue polpette, balzando in piedi e stroncando sul nascere l'ennesimo sordido punzecchiamento. «Adesso basta» insiste il dottore, sibilando. «Tu hai dei problemi» dichiara, puntando minacciosamente il dito contro uno scandalizzato Sherlock, «e tu non stai affatto meglio» prosegue indicando Mycroft, che si mostra oltraggiato, «ma quelli che stanno messi peggio siamo noi due, e ora abbiamo bisogno di qualcosa di forte» decreta con un sospiro tornando a sedersi, mentre Lestrade annuisce vivacemente.
   La signora Holmes si fa avanti con un ampio sorriso, due teiere fumanti che porge intimidatoria ai due figli ed una bottiglia di qualcosa di brutalmente alcolico per correggere il tè.
   «È nero?» domanda John, mentre Sherlock gli versa il tè roteando gli occhi e dall’altro lato del tavolo Mycroft è la sua copia con Greg.
   «Nerissimo» assicurano i due fratelli con un sorriso tirato, e Greg e John sogghignano, e Violet sogghigna, e Sieger sogghigna, e Mycroft e Sherlock non sono mai stati tanto contenti di non avere l’abitudine di girare armati – e in realtà sono tutti talmente soddisfatti che nemmeno sembra Natale.
   Per un istante, Sherlock è tentato di ripristinare lo status quo provocando un’esplosione sul cappotto nuovo di Mycroft, ma poi guarda John e decide che, per una volta, va bene anche così. «Buon Natale, Mycroft» esclama compostamente, scoccando al fratello uno dei loro sguardi in codice. Mycroft ricambia, piegando impercettibilmente all’insù un angolo delle labbra – sorriso che si fa più definito un attimo dopo, quando Greg gli prende la mano e la stringe come fosse la cosa più preziosa del mondo. Sherlock osserva e sorride tra sé, intrecciando a sua volta le dita con quelle di John.
   «Come dicevo, buon Natale» esclama un momento più tardi. «Allora, Gerard, ce l’hai un bel serial killer da regalarmi?».

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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