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Autore: Vibo_Paso    01/11/2016    1 recensioni
In principio erano tre.
Uno era lui. Due era lei. E poi c'era Tre. Si volevano bene davvero, ma alcuni più di altri. E io questo lo sapevo.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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In principio erano tre.
Uno era lui, alto, grosso e scorbutico, barba ispida e capelli ricci. Si vantava di avere grande cultura e ce l’aveva col mondo intero, o almeno con tutto ciò che di più inutile può dar fastidio del mondo intero: la voce stridula della vicina, il caratteraccio del padre, le strisce pedonali storte (e quindi con l’addetto a fare quelle strisce che non sa fare il suo mestiere), la fila alla posta, i netturbini e il tempo che non veniva predetto con precisione.
Due era lei, bassa, grassottella e allegra, capelli di un colore diverso ogni volta che la vedevi. Sembrava costantemente fatta, dalla stridula risata facile e contagiosa, buona compagna per un bicchiere di vino e una serata di baldoria. Cultrice di cinema e letteratura russa, intavolava discussioni sempre interessanti, che sfociavano quasi esclusivamente in sesso, droga e serie tv, che se famose Uno rifiutava a prescindere da se le conoscesse o meno.
E poi c’era Tre, sorella di Uno, due anni più piccola di lui e uno più grande di lei, stessi capelli ricci, stesso sorriso, che concedeva più spesso del fratello. Sognava il grande amore, Tre. Sognava una Grande storia, una qualsiasi cosa a cui pensare con un sorriso e con un timido rossore di guance. Ci sognava a otto, tredici, quindici e diciott’anni. Perché lei sapeva che, in fondo, il suo principe sarebbe arrivato, stava solo perdendo tempo a cercar parcheggio, tutto qui. Tre non era timida, chiusa o poco socievole. Lei aveva solo preso le compagnie sbagliate fino a quel momento, che l’avevano portata a preferire i pomeriggi in casa che al bar o in piazza al paese. O almeno questo amava raccontarsi.

Tutti e tre cominciarono a lavorare insieme l’estate di due anni addietro. Si scoprirono amanti dello stesso genere musicale, del vino e delle serate a cantare in riva il mare con la chitarra di Uno, la voce di Due e la diamonica di Tre. E Tre quanto amava quelle serate. Si scambiarono numeri, libri e pellicole da vedere. Di incontravano per vederle e discutere insieme. Un caffè, una cena, una cantata. E quei tre tipi che prima erano Uno, Due e Tre divennero un Loro, un Gruppo, a cui Tre pensava con un sorriso e un timido rossore sulle guance. Facevano tutto insieme ed erano l’invidia del paese e delle comitive.
Si volevano bene, davvero.
Ma alcuni più di altri.

Dopo l’inizio dell’università, quando i suoi amici delle superiori si sparsero in tutta Italia e rimase l’unica a far da pendolare, quelle serate in riva al mare divennero tutto per Tre, che arrivava al fine settimana per staccare dallo studio e quando staccava da lavoro viveva solo per quello. Il Gruppo restò l’unica cosa che la distraesse dal mondo che sentiva soffocare. Pensava, comunque, di aver trovato dei veri amici con cui aprirsi ed essere sé stessa.

Quella notte di fine estate Tre pianse insieme ai suoi amici sentendosi a casa.
Era successo che due anni prima si fosse innamorata di un ragazzo, che l’aveva illusa per sei mesi e poi lasciata senza il ricordo di un bacio o di una serata insieme in mezzo alla gente. Quel ragazzo si rifiutava di camminare mano nella mano con lei, di baciarla, di accarezzarla, ma la chiamava “la sua ragazza”. Al ricordo di quel ragazzo, si rese conto che non l’aveva mai chiamata col suo nome, che non le aveva mai fatto i complimenti per il lavoro appena ottenuto o per i buoni risultati a scuola, che non le aveva mai detto che era bella. Uscivano, quasi di nascosto e ritornavano a casa con nulla se non parole buttate al vento di quanto le piacesse. E lei ci era cascata perché le piaceva che qualcuno volesse parlare con lei, stare con lei anche solo nel silenzio di una notte sotto le stelle a non far nulla di più che stare abbracciati. Ma lei voleva davvero qualcuno che le dicesse “che bella che sei”, e guardava con occhi a cuore le lanterne di Rapunzel e il ballo di Cinderella, perché credeva davvero di meritare anche lei quelle cose.
Quella notte di fine estate Tre raccontò tutto ciò ai suoi amici, con voce tremante e le mani intrecciate tra di loro a tenersi ferme a vicenda. Raccontò di quanto quel ragazzo l’avesse bloccata e di come non riuscisse ad approcciare con un ragazzo. Raccontò di come le facesse male che i ragazzi le si avvicinassero per chiederle se conoscesse quell’amica o quell’altra e di come non ci fosse uno che le chiedesse di lei. eppure non era brutta. Io lo so, perché lo pensavo davvero.
Quella notte di fine estate Tre pianse insieme ai suoi amici sentendosi a casa.

Poi accadde il viaggio. Parigi, la città dell’amore. Per Uno e Due fu il tempo di uno sguardo sul panorama di Montmartre e fu amore davvero. Un bacio, un ballo sulla Senna e una passeggiata alla tour Eiffel e Tre non rimase altro che un numero. A reggere la candela no, avrebbe significato fare qualcosa. E Tre rimase testimone del loro amore, di cui inizialmente era davvero felice. Sentiva che ognuno meritasse l’altro, dopo le rispettive delusioni amorose ed era contenta che finalmente una “cognata” le andasse a genio.

Poi la felicità venne meno. E Tre rimase un passo indietro. Poi due. Poi tre. Poi scomparve dal loro cammino.
La prima avvisaglia fu il riaccompagnarla a casa dopo le serate al mare a cantare sotto le stelle, per poi uscire di nuovo. E quello poteva sopportarlo.
Quindi vennero le lunghe pomiciate improvvisate davanti al bicchiere di vino nel pieno della conversazione, e a Tre non rimaneva che abbassare gli occhi e guardare altrove. E quello poteva sopportarlo.
Quindi vennero le serate al cinema con il rinfrescarsi dell’inverno. Loro due stretti a coccolarsi, lei coi pop corn e il desiderio che non riusciva a realizzare di trovarsi una nuova comitiva.
Quindi i girasoli, le lanterne, i regali e le pomiciate. E lei a guardare perché che fossero soli o in loro compagnia non era importante. Per loro, il fatto che Tre fosse presente era sinonimo che le volessero ancora bene come un tempo e che non volessero dividere il gruppo. Per loro, il fatto che Tre fosse presente era motivo di vanto, perché erano riusciti a non sfaldare il gruppo pur amandosi loro.
Ma non era così e Tre si domandava come facessero a non vederlo.
Tre si domandava come non facessero a vedere che lei moriva ogni giorno di più.

Sola. Era così che si sentiva. Ora di nuovo, ora più profondamente che dopo quel ragazzo, più profondamente che dopo le giornate di scuola passate a fuggire le risate dei suoi compagni di classe perché aveva sonno o perché aveva sempre voglia di cantare. Più profondamente che mai.
E piante per i suoi amici chiusa dentro casa. Per giorni.
Quella sera di novembre, a pochi mesi dal viaggio a Parigi, Tre andò in spiaggia da sola. Suo fratello e la sua migliore amica erano andati ad una festa di amici di lui, cui lei doveva partecipare in quanto sua ragazza e Tre non poteva perché era solo sua sorella. Andò in spiaggia a guardare l’orizzonte e il sole che faceva il bagno a mare. Faceva freddo, ma non troppo. L’acqua era gelida, però, questo lo so per certo. Perché la seguii in acqua quando notai sul punto dov’era seduta i suoi vestiti e la sua borsa. Il telefono era muto accanto ad un quaderno scarabocchiato di disegni sempre più cupi e malinconici verso la fine. Il dolce che le avevo comprato per il suo compleanno, quella sera, gettato accanto la sua felpa rossa.
Il fatto è che io quella sera ero riuscito a decidere di dirle finalmente che per me lei non era mai stato Tre, ma l’Unica, sin da quando, il primo giorno di università, la vidi salire sul treno e sedersi accanto a me. Prendevamo il treno tutti i giorni e mi sono innamorato dei suoi sorrisi timidi quando mi chiedeva se poteva sedersi accanto a me, dei suoi occhi che si abbassavano vergognosamente a terra quando cominciammo a fare amicizia, delle sue espressioni buffe e della bava che colava quando dormiva a bocca aperta sul treno dell’alba e della sua assurda gentilezza e delle parole buone che aveva anche per quei tipi che le tiravano i capelli a scuola e la spingevano nei vicoli per colpirla. Quella sera avevo deciso di dirglielo e la seguii sulla spiaggia. Io stupido ad aspettare così tanto, ad aspettare la serata perfetta, ad aspettare che il suo sorriso rinascesse spontaneo e a non desiderare di esserne io la causa, invece.
La seguii in acqua, ma non la trovai.

La trovarono giorni dopo, quando ormai era troppo tardi.
Dopo un po’ trovarono anche me.

   
 
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