Ho scritto questa brevissima fanfic un po’ di tempo fa…in realtà, non so nemmeno io con
esattezza che cosa volessi dire…o se è conclusa oppure no. So solo che dovevo scriverla…
Le tematiche potrebbero essere un
po’ forti o offensive, perciò se non avete voglia di qualcosa di un po’
“pesante” è meglio che non la leggiate.
Vuoto
Si mise a sedere sul letto,
abbandonando le mani tra le ginocchia. La stanza era pregna di un calore
opprimente, denso di odori nascosti e proibiti, leggermente speziati. Odori che davano alla testa, intorpidendo i sensi
e le percezioni. Raggiunse la finestra, lasciando impronte umide sul pavimento,
e la spalancò. Un fiotto d’aria fresca accorse a scacciare la sensazione
appiccicosa e vischiosa sulla sua pelle. Chiuse gli occhi, inalando una
rigenerante ondata della notte. Era ancora troppo presto per il sonnolento
frinire delle cicale e troppo tardi per lo scroscio della pioggia. La notte era
silenziosa e incredibilmente cupa.
Si appoggiò al davanzale,
abbassando gli occhi, senza vedere nulla di ciò che aveva davanti. Non vedeva
niente. Non sentiva niente.
Era vuoto. Inesorabilmente vuoto.
Nessuna emozione, nessun pensiero.
Anche la rabbia che l’aveva
sostenuto per tanti mesi si era dissolta. La tristezza…forse quella non l’aveva
mai provata. Gli sarebbe piaciuto potersi dispiacere per i morti, per la
distruzione, per lo sgomento che leggeva negli occhi dei suoi amici, ma non
poteva. Lui continuava a prendere decisioni, a combattere, a respirare, a
fingere di vivere, ma non sentiva realmente nessuna emozione. La colpa. Quella
c’era stata per un po’. Un forte, profondo e rassicurante senso di colpa, che lo
faceva sentire ancora un essere umano. Almeno finchè
non si era scoperto troppo stanco anche per quello. Troppo sfinito. Troppo
vuoto.
E alla fine era rimasta solo
l’abitudine. Il non voler essere costretto a riflettere per cambiare, per agire
in modo diverso rispetto a come si comportava di solito.
E il desiderio che tutto finisse
al più presto. Ormai non gli importava più in che modo.
A volte sperava che Ron, Hermione e tutte le persone a cui voleva bene venissero
uccise, l’una dopo l’altra. Immaginava i loro corpi straziati, le loro membra
fatte a pezzi, i loro occhi sbarrati in una muta richiesta d’aiuto o invasi da
un senso d’incredulità per quanto era capitato. Immaginava il loro funerale,
compito e doloroso. Immaginava le strette di mano, le pacche sulle spalle, gli
incoraggiamenti, le frasi di circostanza mentre la guerra proseguiva. Immaginava
una fossa vuota e lui e tutti gli altri lì intorno, in piedi sul ciglio. Ma pian
piano i suoi amici sparivano, finchè non si ritrovava
solo. E allora poteva affondare anche lui nel baratro nero. Sarebbe stato
giustificato. Sarebbe stato…niente. Harry Potter non
sarebbe più esistito. Il suo nome sarebbe sbiadito lentamente, in un alone di
ricordi confusi, e sarebbe stato consegnato alla leggenda. E lui sarebbe stato
libero. Morto, probabilmente, ma libero. Sarebbe stato vento, mare, pioggia.
Sarebbe stato pieno, vivo, concreto. Sarebbe stato
diverso.
Ma gli altri non morivano, non
smettevano di lottare, di pianificare, di incoraggiarlo. Lo guardavano pieni di
fiducia, pronti a dargli il loro sostegno, quando lui non desiderava altro che
Voldemort li ammazzasse, li cancellasse per sempre così da non avere più
obblighi verso nessuno.
Si passò una mano tra i capelli,
mentre da dietro di lui proveniva un leggero fruscio di un corpo che si rigirava
tra le lenzuola. Il cambiamento impercettibile del ritmo della respirazione. Un
mugolio sommesso.
“Vattene” disse solo, continuando
a voltare le spalle alla ragazza senza nome.
“Sei proprio uno stronzo” fu la risposta atona. Rumore di vestiti indossati,
di tacchi appuntiti sul pavimento e di una porta sbattuta.
Non si
ricordava il suo nome, nemmeno i lineamenti della sua faccia. Andare in un bar,
rimorchiare una ma-sei-davvero-Harry-Potter, fotterla finchè non riusciva a
concentrarsi su nient’altro a parte il dolore che gli martellava l’uccello e
alla fine raggiungere un orgasmo triste e…vuoto. Fottere una ragazza diversa ogni sera, dimenticando presto
le fattezza del suo viso, se mai le aveva viste. Corpi, nient’altro che corpi.
Non gli interessava il piacere, il calore, la necessità di avere pareti di carne
intorno al suo membro. Anche il sesso era diventato vuoto, monotono, solo
un’abitudine a cui non riusciva a rinunciare per non dover pensare.
Continuare così, senza scopo,
senza programmi. Combattere, combattere, combattere.
Uccidere
Voldemort. Fermare Voldemort.
Andare da
Voldemort e digli: senti, amico, fa’ come ti pare. Io me ne tiro fuori. Troppa
fatica. Troppa fatica. Sperare che tutti vengano uccisi. Sperare di essere
ucciso. Troppo facile, troppo comodo. Troppo senza senso. E allora indossare una
faccia diversa ogni mattina, una voce diversa ogni mattina.
Sì,
ragazzi, andiamo a rompere il culo a quel bastardo.
E sperare
di vedere la marea scura dei Mangiamorte fare
irruzione nella sua camera. Voldemort incede verso di lui, come una sposa verso
il talamo nuziale nella sua prima notte di nozze. E ucciderlo. Assaporare il
dolce sapore della morte riempirgli la bocca. Morire, sentendosi forse vivo per
la prima volta.
Ma
Voldemort non arrivava, non lo ammazzava. E lui era costretto a morire ogni
giorno. A annegare in quel vuoto cosmico che si annidava dentro la carne, che
divorava il cervello.
“Vieni…vieni a prendermi” mormorò
alla notte bugiarda. Gli rispose solo il compatto silenzio della stanza.
Abbassò
la testa, incapace perfino di incazzarsi. Lo sapeva
che non sarebbe venuto. Lo sapeva che avrebbe dovuto continuare a
lottare.
“Harry”
La voce
di Ron proveniente dal
caminetto.
“Sì?”
rispose senza voltarsi.
“Un
attacco al San Mungo. C’è bisogno di te”
“Andate
avanti”…e cercate di morire. Di morire tutti.
Raccolse
i pantaloni dalla poltrona e li indossò con calma.
La sua
mente vuota. Il suo corpo vuoto. La bacchetta assicurata alla
cintura.
Uccidili,
uccidili tutti, pregò, ma sapeva che la sua preghiera sarebbe rimasta
inascoltata.