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Autore: Nirvana_04    03/11/2016    18 recensioni
Amber è cresciuta nel suo piccolo villaggio, Feronia, e non ha mai visto nulla del mondo. La sua vita è legata alla casa e a essa sembra destinata. Ma la foresta nasconde un mistero, celato dagli alti Cancelli di Vite, e solo lei può scorgerne i segreti.
L'amore di Hasse e il ritorno della guerra rischieranno di tenerla lontana dal suo destino o la spingeranno incontro ad esso?
Prima classificata al contest "Porte e Portoni" indetto da Najara87 sul forum di Efp
Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La chiamata del Colle Canuto


E
Questa immagine non mi appartiene. Tutti i diritti sono riservati e appartengono all'autore originale.








 
«Gli alberi parlano» diceva la vecchia seduta all’arcolaio, davanti all’uscio della sua casupola di legno. «Scampanellii risuonano tra le loro fronde innevate, il vento fischietta tra la galaverna. Lì, il terreno è sempre ricoperto dalla guazza e i Vaganti dormono all’addiaccio. Sempre se dormono» aggiungeva solitamente alla fine.
Amber sedeva rannicchiata, come ogni volta, ai piedi di uno dei tronchi di sostegno del fatiscente portico, le mani guantate tra le cosce per trattenere un po’ di calore. Gli inverni erano rigidi a Feronia, il suo villaggio era il più vicino ai pressi dei Cancelli di Vite.
La vecchia si appassionava al suo racconto a tal punto che la ruota smetteva di ruotare e il gelo s’addensava sulla lana da filare.
«Il Colle Canuto si staglia sull’intero sfondo, al di là della Porta di Nanàrm» continuava, «freddo e rigido come l’inverno perenne dei luoghi su cui domina. Non ci sono vivi al di là della Porta, solo i Vaganti.»
«E le rovine della Chiesa? Qualcuno doveva vivere prima lì» le domandò un giorno Amber.
La vecchia spalancò i suoi piccoli occhietti miopi, due noci che faticava a tenere aperte, e allungò il collo nella sua direzione. «Non ci sono rovine!» gracchiò irata. «Non c’è vita al di là della Porta!»
Amber corse via e da quel giorno non le fece più domande; ma continuò a raggomitolarsi sotto il portico di legno, ad ascoltare sempre la storia sui Vaganti e sui luoghi oltre i Cancelli. Nessuno mai osava parlare apertamente di quei luoghi, tutti sussurravano parole concitate sulla Porta, ma non c’era uomo a Feronia o nel Marco del nord-ovest che aveva l’ardire di raccontare dei Cancelli di Vite o dell’ombra che, ancora in certe notti dell’anno, ne varcava il confine.
Eppure lei lo aveva visto, quel luogo.
Quando era piccola, seguiva suo padre nei boschi che circondavano il villaggio. S’imbacuccava per bene e correva tra gli alberi, il volto sognante che veleggiava sugli alti tronchi, i lunghi capelli sciolti al vento, liberi come lei. Restava ore intere in contemplazione delle possenti fogge legnose, alte come le torri di un campanile e rigide come le sentinelle dinanzi i portoni di una città; e avrebbe giurato che il vento sussurrasse alle fronde e che le foglie gli rispondessero. Ella si stringeva stretta nella mantellina di lana, mentre il babbo abbatteva i tronchi più piccoli e li spezzava, per poi accatastarli sulla slitta.
Suo padre era uno dei pochi che osava avventurarsi nei boschi di Nanàrm e depredare i suoi possedimenti.
«Se quell’ombra può ancora chiedere un tributo dopo tutti questi secoli, allora noi possiamo riscattare la nostra paga da questa foresta» replicava con voce burbera e affaticata, tra un colpo d’ascia e l’altro, a chi provava a persuaderlo dalla sua posizione.
Egli aveva sempre l’ascia in mano, nei boschi o nella piccola bottega dietro l’abitazione, e la portava anche in casa, appoggiandola accanto al camino di pietra. Non se ne separava mai, forse per via della sua esperienza nella Guerra dei due Marchi.
Il Marco del nord-ovest e quello del sud-est avevano stipulato una sofferente tregua dopo trentotto anni di lotte sanguinarie tra le due signorie, durante i quali il disordine e la depravazione avevano solcato le terre, insieme a fame e carestia. Tutto ciò che era rimasto immutato in quegli anni era la nebbia che aleggiava sulle acque del Fiumeferrigno e l’oscura luminosità di quei luoghi proibiti, che avevano protetto sempre il suo villaggio.
Amber aveva osservato così, durante un’incursione nel bosco insieme a suo padre, i Cancelli di Vite per la prima volta. Aveva visto il Colle Canuto e l’oscuro tronco dell’Albero di Manth: le sue foglie erano fiocchi di neve che il gelo non riusciva mai a trasformare in ghiaccio, batuffoli di niveo cotone che ornavano a mo’ di cespuglio i grandi rami del gigantesco fusto. E, abbarbicate su un fianco del colle, c’erano le rovine della chiesa, una struttura a pianta quadrata di cui si riusciva a scorgere solo l’alto campanile, con la loggia e il grande orologio sulla facciata frontale. Le nebbie li nascondevano bene, ma ella aveva intravisto il piccolo pontile di legno e il sentiero che portava alla costruzione abbandonata: in qualche tempo remoto, qualcuno aveva vissuto al di là dei Cancelli di Vite, e non solo i Vaganti, ma uomini con un’anima e la forza per modellare la pietra.
Appena aveva provato a raccontare al padre ciò che aveva visto, egli le aveva intimato di non farne mai parola con nessuno, e d’allora si era rifiutato di portarla nuovamente con sé per i boschi.
Restare a casa con la madre era una tortura per Amber: la vita di una donna del focolare non faceva per lei. Non sopportava sua madre e le sue saggezze femminili, non tollerava tutti i nodi che faceva ai suoi capelli e la costrizione di doverli sempre tenere legati.
«Una donna non lascia mai che i suoi capelli giochino con gli spifferi maligni del cielo» era solita ammonirla. Ad Amber, però, piaceva sentire il vento tra i capelli, le pareva che esso si divertisse a sussurrarle parole segrete, così come faceva con le chiome degli alberi. Per un attimo, Amber si sentiva come loro: parte di un potere più grande e immenso, si sentiva libera.
Ma non era quel divieto l’unica catena che la opprimeva. In guerra, raccontava il padre durante i suoi momenti malinconici davanti alle fiamme, chino sulle sue gambe e con la pipa in bocca, il freddo uccideva tanto quanto la lama di una spada. Il fuoco, però, non era mai riuscito a intiepidire i piedi della bambina, che restavano gelati anche sotto le coltri di pelle conciate nel suo letto.
«Il sangue non ti si è ancora riscaldato» la prendeva in giro la madre. «Vedrai, quando sarai donna e condividerai il giaciglio con tuo marito il fuoco brucerà anche nei tuoi piccoli piedini.»
Al che Amber afferrava la mantellina e correva fuori all’aperto per scappare da quelle fatali parole, fin quando il viso non le si colorava di porpora e le mani arrossavano per il freddo; e non accadeva molto facilmente. L’aria pungente dell’inverno non l’aveva mai abbattuta, così come nessuno dei ragazzi che gareggiavano alle Buche.
Amber aveva sempre frequentato quei luoghi, da quando li aveva scoperti seguendo uno dei figli del ferraio, la famiglia del quale viveva di fianco alla sua casa. All’inizio i ragazzi non ne avevano voluto sapere di lasciarla partecipare. Quando ella aveva insinuato che avevano solo paura, aveva iniziato a prenderle, ma non era un dolore sporco quello che provava e lei trovava sempre la forza di rialzarsi. All’età di dodici anni nessuno più era capace a metterla sotto, per quanto in molti bramassero di riuscirci. Non certo per la sua forza, quanto per la sua agilità, Amber svicolava sempre dal loro raggio d’azione e saltava come un cerbiatto, fin quando il suo avversario non doveva fermarsi per l’affanno. Allora i suoi colpi erano lesti e lo sfidante di turno finiva puntualmente al tappeto.
Un giorno, costretta in piedi sul gradino del portico perché giunta in ritardo, ascoltava la vecchia raccontare della Porta mentre filava la lana, il cigolio dell’arcolaio messo in funzione dai piedi infagottati nel pesante tosone lavorato grezzamente.
«Ehi, ragazzina!» le sussurro all’orecchio il vento.
Amber si voltò per incontrare il grigio ferrigno di due lastre di ghiaccio che la fissavano ridenti e gorgoglianti di lapilli di vita.
«Dicono che combatti. Alle Buche, con gli altri ragazzi» le parlò in quel frizzante sussurro.
Il ragazzo era più grande di lei, si apprestava a varcare la soglia della virilità. Lo aveva visto altre volte con i giovani cadetti dei campi, dove d’estate coltivavano la terra e d’inverno maneggiavano il ferro per allenarsi alla guerra; lo aveva notato perché anche lei voleva entrare nei campi e lui era uno dei migliori. La sua pelle albina era arrossata dal freddo, le sue gote avevano già lasciato il posto a un viso più affilato e non più imberbe; il biondo cenere dei suoi capelli ricadeva come una cascata sulla sua fronte, la chioma arruffata dalle raffiche di vento. La bocca e il mento erano coperti da una pesante sciarpa.
«Due ore prima del tramonto, oggi» le soffiò sul viso, e se ne andò, senza darle modo di replicare.
Amber si presentò, un po’ per orgoglio e un po’ perché non aveva scelta: tutti, tranne la vecchia che iniziava ad avere problemi d’udito, avevano seguito lo scambio di battute. Invero avevano solo visto il giovane parlarle, ma i suoi amici dovevano aver fatto circolare la voce. Prima dell’orario concordato, le Buche erano attorniate dall’intera prole del villaggio; persino le ragazze si erano conquistate un paio di posti in prima fila per godersi lo spettacolo.
Il ragazzo era già nella Buca, si teneva le mani strette davanti al corpo, rigido nella sua postura, quasi incosciente del pubblico che confabulava sopra e tutt’intorno a lui. Amber si fece strada tra i ragazzini ridacchianti e le ragazze che civettavano con le loro voci stridule per attirare l’attenzione dei giovani uomini, e si lasciò scivolare sul pendio innevato; si alzò e si posizionò di fronte al giovane, lo sguardo torvo che lo scrutava. Il giovane era alto e il suo corpo mostrava un fascio di muscoli tesi e pronti all’azione; portava solo una casacca smanicata, incurante del freddo. Ella si tolse la mantella e fece scivolare il maglione di lana sul bianco terreno, per non dimostrarsi da meno. Sentiva il fiato dell’inverno solleticare la sua nuca, i capelli strettamente raccolti sopra la testa.
«Cosa lasci alla Buca?» gli chiese.
Quello era il rito prima di ogni incontro: ognuno puntava qualcosa, che il vincitore portava con sé.
«Scegli ciò che più vuoi. Se vinci, sarà tuo» rispose con un sorriso sulle labbra.
Amber si accigliò, ma non si fece intimidire. «Voglio entrare nei campi.»
Tutti intorno a loro risero, divertiti, ma il giovane annuì, serio in volto.
«E tu cosa vuoi?» gli domandò, già in guardia.
«Se vinco, lo saprai.»
Amber si morse l’interno di una guancia, la sicurezza del suo avversario la irritava: il biondino aveva su di sé due anni di allenamento nei campi, i ragazzi della sua età non combattevano più nelle Buche, considerate roba per infanti; la roba seria, quella che imparavano loro, era un’altra cosa. Ella lo sapeva, ma non avrebbe permesso alla suggestione nei confronti di quei luoghi d’irretire il suo orgoglio. E poi, si disse, lei aveva l’agilità dalla sua, essere sottovalutata era un vantaggio.
Qualcuno lanciò loro due bastoni, che afferrarono a mezz’aria. Il ragazzo si posizionò, il bastone orizzontale dinanzi al suo petto, le braccia che lo reggevano tese nel saluto tipico dei guerrieri. Ma quelle erano le Buche, sorrise lei. Attaccò senza remore e puntò subito alle gambe dell’avversario; quello fu lesto a obliquare la sua arma, per fermare il colpo. Amber ruotò, danzando sulla neve senza incontrare ostacoli, l’ampia tunica che si apriva intorno a lei come una corta gonna, e tentò un tondo dal lato opposto; anche questo, però, venne deviato.
I due si studiarono in silenzio. Il giovane non sorrideva più da un pezzo, concentrato nel perseguire il suo obiettivo. Amber si accorse, con una punta d’inquietudine, che egli non la stava affatto sottovalutando, trattandola come un rivale alla sua pari. Fu il turno di lui di attaccare: iniziò con un controllato gioco di gambe, che la ragazza riuscì a neutralizzare grazie alla sua abilità. La neve e il gelo non erano mai stati suoi nemici, ma il giovane aveva la tempra per resistere anch’egli alle avversità presentate da quei due elementi.
Il pubblico aveva smesso di ridere e adesso seguiva l’incontro in silenzio, ipnotizzato dalla maestria dei due contendenti. La ragazza stava dimostrando di saper tener testa al giovane uomo, mostrando capacità e bellezza selvaggia.
Il ragazzo sembrò mettere un piede in fallo, nella sorpresa generale, e Amber ne approfittò per affondare il bastone verso il suo petto, certa ormai della sua vittoria; ma egli lasciò andare la sua arma e bloccò a mani nude il colpo. Per un attimo i due si immobilizzarono, due nuvole di condensa che offuscarono i loro visi. Egli si concesse un sorriso, prima di riprovare con il gioco di gambe. Amber restò concentrata, non mollando la presa sul bastone. L’altro si piegò, arrestò di colpo i piedi e lanciò una manciata di neve negli occhi della ragazza. Quella voltò il capo, per difendersi, e in quell’istante una gamba la colpì dietro il ginocchio, atterrandola. Amber si ritrovò ad ansimare, sovrastata dalla figura del giovane ragazzo, il bastone premuto sul suo ventre.
«Sono Hasse» si presentò, arridendole.
Le tese una mano e, prima che lei potesse rifiutarsi, catturò il suo braccio e la tirò su, mentre la folla applaudiva e urlava, ammaliata e soddisfatta dall’incontro.
«Il tuo è stato un gesto vile» lo accusò, rossa in volto.
«Hai ragione, lo riconosco» ribatté pacato, «ma non potevo permettermi di perdere.» Fece un passo verso di lei. «Non dimenticare il mio nome. Tornerò a riscuotere il mio premio.»
E si diresse verso i suoi amici, che lo accolsero nella cerchia con pacche e sguardi ridenti d’intesa.
«Amber!» la chiamò una ragazza. «Tuo padre!»
Imprecando e maledicendo la sua stupidità, la ragazza si tirò fuori dalla Buca e corse verso casa, il maglione infilato a metà e la mantellina dimenticata chissà dove. Con la coda dell’occhio vide suo padre impegnato in una fitta conversazione con un uomo; ringraziando per la sua fortuna, lo superò e corse verso casa. Appena superato l’uscio, l’aspettò la ramanzina della madre, la quale, disgustata dal suo aspetto scarmigliato, la minacciò di mandarla a letto senza cena.
«Dove sei stata? Sembri aver avuto un incontro ravvicinato con un orso bianco» le tamburellò il petto con il mestolo di legno, una mano sul fianco. «Sempre in giro a rincorrere i ragazzi, vero? Quante volte ti devo dire che non puoi più comportarti come una scapestrata? Non sei più una bambina, la casa è il tuo luogo.»
«Non intendo rattrappire davanti a un arcolaio, china dagli acciacchi e dalla monotonia della mia vita, come la vecchia del villaggio o…» Tacque, abbassando il capo.
La madre si aggiustò lo scialle e irrigidì la mascella, come faceva ogni volta che la figlia esuberava con la sua voglia di manie di stranezze e pensieri osceni.
«C’è dignità nel portare un pasto caldo a tavola e mantenere in ordine la casa. Quando sarai donna, lo capirai.»
Amber sbuffò, spazientita, e la conversazione cadde nel silenzio. Al rumore del fuoco scoppiettante si unì il tramestio degli utensili da cucina; la pentola con la minestra finì sul fuoco e infine le due femmine si sedettero intorno al tavolo, ognuna guardando in una direzione diversa.
La porta si aprì con uno slancio e suo padre entrò, accompagnato da una tormenta di neve e da un rigido vento che minacciò di spegnere le fiamme del camino. Si tolse di dosso il lungo mantello, si spolverò il grosso della neve e lanciò sul tavolo la mantellina della figlia. Amber saltò in piedi; la madre le lanciò un’occhiata.
«Che hai combinato stavolta?» si esasperò, e si lasciò scappare un sospiro dalle labbra strette.
Marito e figlia la ignorarono.
Il padre sganciò l’ascia dalla cintola e la sbatté sul tavolo, facendole sobbalzare. «Hai fatto ridere l’intero villaggio di me! Tutti sanno che mia figlia non è in grado di tenere in mano un ago e addosso una gonna.»
La madre si portò una mano alla bocca, poi alzò anche l’altra con cui si coprì il viso, nascondendo il volto imporporato dalla vergogna.
«Mi sono comportata con onore» obiettò, gli occhi sgranati.
Il padre non era un uomo violento, ma esigeva rispetto, ed ella non lo aveva mai visto tanto incollerito. «E a quanto pare» continuò, «tutti tranne me sapevano che ti rendevi ridicola alle Buche contro i ragazzi.»
«Marmocchi! Li ho battuti tutti!» disse, poi si morse il labbro, la cocente sconfitta che le balenò alla mente.
L’uomo afferrò l’ascia e la piantò sul tavolo; quello scricchiolò, minacciando di spezzarsi, ma resse il colpo della lama.
«Ohhhh» piagnucolò la madre, lasciandosi cadere su una sedia. «È una disgrazia.»
«Zitta, tu!» l’apostrofò il marito, insensibile alle pene della moglie. Tornò a rivolgersi alla figlia: «Nessuno di quei marmocchi chiederà più la tua mano, adesso» ringhiò. Strinse le mani con forza intorno alla spalliera di una sedia. «Ed io non posso permettermi di rifiutare alcuna proposta di matrimonio.»
«Bene! Perché io…» si entusiasmò la ragazza.
«Chi l’ha chiesta?» s’intromise la madre, facendo capolino da dietro le lunghe dita, con un barlume di speranza.
Amber non capì: il padre aveva detto…Il sangue le si raggelò sulle guance, capendo solo in quel momento le implicazioni di quelle parole. Anche lei ebbe bisogno di sedersi, ma si limitò ad aggrapparsi al bordo del tavolo.
«Il figlio minore del maestro d’ascia» borbottò, la rabbia che covava da ogni sua sillaba.
La madre tornò a rinfilarsi il viso dietro le mani e a piegare il capo per nasconderlo tra gli strati della sua gonna. «Oh…» si lamentò e disse qualcosa che non riuscirono a capire, soffocata dai palmi e dalla stoffa.
Amber non aveva idea di chi fosse, ma non le serviva saperlo. Aveva sentito parlare del maestro d’ascia e della sua famiglia, nell’ultimo periodo erano diventati famosi nel villaggio, e non certo per onore o rispetto: le donne sghignazzavano nel parlare della moglie del maestro d’ascia e facevano lo scongiuro quando passava uno dei suoi figli. L’uomo aveva una bella casa un po’ isolata alla periferia del villaggio, il suo lavoro rendeva bene; ma egli era via per molto tempo e voci maligne circolavano sul suo conto. Feronia non era una località portuale, l’uomo veniva da una cittadina più grande sita sulla costa di Serjung e aveva sposato una donna del villaggio, da cui aveva avuto cinque figli. Si diceva però che egli avesse altre mogli sparse per il Marco e che, durante i suoi lunghi viaggi, passasse di volta in volta da ognuna di esse. Il figlio maggiore, poi, era stato beccato più volte a molestare delle fanciulle e da un paio di anni si era trasferito in un villaggio vicino.
«Puoi rifiutare, non è necessario…»
«Hai portato il malocchio» gridò la madre, isterica. «La catastrofe si è abbattuta su questa casa.»
«Smettila!» le urlò con le lacrime agli occhi. Era la sua vita, si rabbuiò, che stava andando in frantumi.
«Non ho scelta, e neanche tu ce l’hai» la minacciò il padre. «Ho già accettato. Il ragazzo pagherà la tua dote a prezzo pieno.»
Amber boccheggiò, inviperita: stava per essere venduta come merce al macello. «Non intendo sottomettermi a nessun uomo.»
Lo schiaffo la raggiunse in pieno volto, mandandola stesa sul pavimento. La madre urlò, saltando sulla sedia. Ella si tenne la guancia sfregiata e guardò in cagnesco il padre che la sovrastava, pronto a percuoterla di nuovo.
«Ha accettato di attendere fino al giorno del tuo compleanno. La prossima settimana il ragazzo verrà a prenderti.»
«La prossima settimana?» strillò la madre, terrorizzata. «Il corredo…non c’è abbastanza tempo.»
Il marito la guardò con uno sguardo di commiserazione. «Ha detto che non servirà.»
Le due donne piansero, ma solo i lamenti della madre riecheggiarono nella stanza.
 
 
Feronia era un piccolo villaggio con una grande tradizione alle spalle. Il Rito dell’Accoglienza, per esempio, si svolgeva sempre nella grande piazza, dove il padre consegnava la figlia nelle mani del suo consorte; i due si scambiavano alcune parole cerimoniose, poi il marito conduceva la sposa verso la loro casa, che sarebbe stata battezzata dal capo del villaggio.
Il giorno del suo quindicesimo compleanno, Amber fu condotta dal padre verso il centro del villaggio. La madre le aveva donato il suo abito, visto che non era stato possibile confezionargliene uno su misura; così, ella si ritrovò trascinata per strada, il petto che si sollevava e abbassava ansimante, il fiato corto e il viso sbiancato. Aveva gli occhi asciutti, ma le mani piangevano la sua paura e il suo rifiuto. Gli occhi di tutti erano puntati su di lei, eppure era la rabbia covata del padre che infiammava la sua pelle: sapeva che, dopo quel giorno, egli non avrebbe più avuto niente a che fare con lei.
La folla era riunita in ogni angolo dello spiazzo centrale del villaggio e al suo arrivo si aprì, formando un piccolo corridoio che le permise di guadagnarsi il centro della piazza. Amber si rifiutò di sollevare il capo e lasciò che il rituale si svolgesse, indisturbato. Il cuore copriva le parole del capo villaggio, persino la voce di suo padre si perse nel suo boccheggiare in cerca d’aria.
«Vincolo la mia vita alla sua, sotto l’ombra delle Porte di Nanàrm. Che il grande Manth sia testimone!» proferì la voce del suo futuro marito, giurando amore di fronte a morte e pericolo, sotto la protezione misteriosa del grande padre della foresta che tutti temevano e rispettavano.
Amber sgranò gli occhi.
«Accetta la sua vita e dona la tua. Riconosci quest’uomo?» le chiese il capo villaggio.
Ella alzò gli occhi e li puntò in quelli glaciali di lui. «Hasse» sospirò in una candida nuvola.
«Il grande Manth accoglie i suoi figli e accetta la vostra unione!» vociò il capo villaggio, scuotendola dal suo torpore.
La gente del villaggio acclamò, il rumore sovrastò qualunque altro suono. Amber vide l’ombra di un vecchio staccarsi da un angolo, alle spalle di Hasse, e allontanarsi. Il resto del rito fu un capogiro di colori e sensazioni contrastanti. Qualcuno, probabilmente suo marito, la prese sotto braccio e la guidò verso il limitare del villaggio. La casa era stata costruita sul confine nord, tra le nevi dei campi. Da lì la foresta copriva tutto il panorama a est. Il capo villaggio diede la benedizioni, poi Amber fu condotta sulla soglia e la porta finalmente si richiuse sugli sguardi curiosi della ressa.
Le fiamme del camino illuminarono il suo viso e la riscossero dal torpore. «Che cosa vuoi?»
Hasse le si avvicinò. «Il mio premio. Ricordi? Ho vinto!»
Amber aveva ripreso ad ansimare. «Prima mi umili e poi m’incateni?»
Egli fece una smorfia, scontento delle sue parole. «Umiliarti? Ho rischiato di farmi battere da te davanti a tutti.»
«E avrei vinto se…»
«Lo so» la interruppe. La sua mano si alzò per portarle una ciocca ribelle dietro all’orecchio. Sussurrò con un sorriso sbieco: «Ma ti ho già detto che non mi potevo permettere di perdere. Ti do la rivincita, vuoi?»
Il sorriso si allargò mentre le bloccava entrambi i polsi e la costringeva a indietreggiare. La condusse nella camera matrimoniale e la spinse sopra al letto. Amber si ritrasse d’istinto.
«Scappi?» mormorò.
Ella replicò con un’occhiataccia. Non riusciva a parlare, non riusciva neanche a pensare. Il suo cuore pompava tanto di quel sangue nelle sue vene che la vista le si annebbiò. Calde lacrime scivolarono sul suo viso e bagnarono le sue labbra dischiuse, in affanno. Hasse la sovrastò e catturò la sua bocca in un bacio intenso, aspirando il suo profumo e bevendo la sua rabbia. Poi si allontanò un po’ da lei, lasciando che riprendesse fiato.
«Ho sposato la ragazza più forte e ribelle. Non vorrai arrenderti proprio ora?» la schernì serio e concentrato. Il suo sguardo scese verso la sua gola e poi ancora più giù verso il suo seno. La sfiorò con una mano. «Adesso che voglio una donna a scaldarmi il letto.»
La sua mano risalì nuovamente e catturò il nastro che teneva legati i suoi capelli. Una cascata d’argento veleggiò per un attimo sotto il raggio della luna, per ricadere sul suo corpo. I suoi lunghi capelli furono liberati, si sparsero, chiarissimi, sopra il cuscino e la coltre di pelli. Lentamente, ma con movimenti decisi, Hasse slacciò il suo corpetto e le fece scivolare di dosso gli strati del vestito. Restò ad ammirare le sue curve, coperte solo dalla leggera sottoveste, che poco nascondeva alla vista e nulla all’immaginazione: la pelle, color dell’alabastro, riluceva di candore e rabbrividiva sotto il tocco leggero delle sue dita; la curva del labbro inferiore si staccava leggermente da quella superiore, tremante, mentre le guance carnose si coloravano di un timido rossore. Gli occhi grigi gridavano per la rabbia e la confusione, e si serrarono quando la lingua di lui cominciò a esplorare l’incavo del suo collo. I peli delle sue braccia drizzarono per la pelle d’oca mentre le sue labbra scoprivano i suoi seni e si impossessavano del loro calore.
«Ti arrendi?» le boccheggiò in un orecchio, prima di morderglielo.
Amber fu attraversata da un brivido e istintivamente si aggrappò alle braccia di lui, serrando gli occhi. Anche la sottoveste finì sul pavimento ed ella sentì il corpo di lui aderire al suo, nudo.
«Guardami!» Le baciò l’angolo della bocca. «Chiedo la tua mano» pronunciò nuovamente le parole iniziali del rito, rivolgendole a lei stavolta e non a suo padre. Le stava chiedendo il permesso di averla, le stava dando la libertà di sceglierlo.
Amber aprì gli occhi, ormai anelava vistosamente.
«Mi riconosci?» le arrise.
«Hasse» lo chiamò, accettandolo dentro di lei.
 
 
Il vecchio ricomparve pochi giorni dopo, al limitare della foresta. Il nero mantello era di lana sottile lavorata finemente, e il grande cappuccio oscurava i lineamenti del suo viso. L’uomo comparve pochi istanti tra due grossi tronchi, poi sparì, un fantasma scacciato dalle raffiche di vento.
La vita di Amber cambiò in modo drastico e sorprendente: se da un lato Hasse le donava il suo spazio, dall’altro la sua vita fu indissolubilmente legata alla casa, all’estremo nord di Feronia. I campi restarono preclusi a lei, ma il marito si divertiva a incrociare i bastoni nell’orto alle spalle dell’abitazione, la terra sommersa da strati di neve tra cui sbucavano per lo più piantine selvatiche e fiorellini di bucaneve.
Ella scoprì così l’amore di un uomo e la felicità nel servirgli un pasto caldo e nel riscaldargli il letto nelle lunghe notti invernali. E se le parole della madre cominciavano ad avere un senso, Amber non riusciva comunque a capire cos’era quel buco nero che risucchiava la sua anima, alla sommità dello stomaco. A volte il dolore era talmente forte da piegarla in due, da strappale il senno e la serenità che i sorrisi di Hasse le donavano.
Il vecchio tornò diverse volte: la sua figura si staccava sempre più dalla foresta, per poi essere inghiottita dai suoi recessi all’improvviso. Suo marito lavorava come aiutante dal fabbro del villaggio e continuava a servire i campi di addestramento. Il Marco aveva conosciuto sempre la guerra e il sapore dolceamaro della pace lasciava la lingua e le mani insoddisfatte. Così gli uomini continuavano a solcare i campi d’inverno, maneggiando i bastoni e sognando il sapore del ferro.
Il giorno del solstizio d’inverno le case venivano sbarrate, gli usci chiusi e le finestre inchiodate con delle assi. La gente evitava di uscire e la notte la passavano abbracciati accanto al fuoco, attendendo l’arrivo del nuovo giorno. Si diceva che quello era il giorno dei Vaganti: tutte le anime fatte prigioniere dai Cancelli di Vite venivano mandate a girovagare per il villaggio, portando il richiamo del Colle Canuto tra i sentieri più freddi, chiamando a raccolta i cuori dei vivi più incauti.
Amber stava scavando tra i cumuli di neve fresca, per racimolare un po’ di erbe aromatiche: Hasse sarebbe rincasato solo al tramonto, aveva tempo per cucinare un pezzo di carne comprata quella mattina al villaggio. Odorò il rosmarino e, tenendo la gonna colma di spezie ben alzata, si tirò in piedi, allegra come sempre in quella ricorrenza. Non sapeva spiegarselo, ma in quel giorno, da quando aveva memoria, il suo cuore sembrava tamburellare allo stesso ritmo della foresta. Sua madre le aveva sempre detto che sognava a occhi aperti, ma lei era sicura di poter vedere la forma di una stella aghiforme in ogni fiocco di neve; sentire la sinfonia che il vento suonava tra le foglie e percepire una voce che di donna che le raccontava una storia. Con quel profumo di effimera libertà conosciuta sul viso, si prestò a rientrare in casa: se si sbrigava, poteva anche fare una passeggiata al limite della foresta, di nascosto.
Il suo cuore perse un colpo, le sue mani si gelarono e le erbe finirono sul candore soffice del terreno.
Gli occhi grigi rilucevano sotto il mantello e la chioma adamantina sfuggiva in ciocche ribelle dal nodo improvvisato sulla sua nuca. Il vecchio che sbucava dal folto del bosco altri non era che una donna, che adesso si trovava a pochi centimetri da lei, la ferinità del suo sguardo che sbiancò le sue gote.
«Mi riconosci?» chiese la vecchia in un sussurro.
Amber non ebbe dubbi. «Nanàrm» e quella parola colmò la distanza tra loro con un’eco vincolante, che sembrò vibrare nel suo petto fino al suo spirito.
La vecchia allungò una mano e la pose sul suo ventre. Il gelo si propagò alle sue ossa e raggiunse il suo cuore. «Presto» annunciò.
Cristalli di ghiaccio iniziarono a cadere dal cielo e una tormenta improvvisa si abbatté sul villaggio. Amber si coprì il viso e quando poté nuovamente guardare, la vecchia era sparita.
 
 
«Hai mai visto i Cancelli?» domandò a bruciapelo, la posata sospesa a mezz’aria.
Hasse si accigliò. «No, ovviamente. I racconti della vecchia del villaggio bastano per popolare la mia immaginazione. Non ho bisogno di vederli con i miei occhi.»
«Ma non ti sei mai chiesto a cosa servono? Cosa nascondono?»
Hasse si prese il suo tempo per mandar giù un altro boccone. «Mio padre, una volta, mi ha raccontato che Feronia era un piccolo insediamento, un avamposto strategico del Marco del sud-est. Secondo le dicerie del suo villaggio natio, la guerra tra i due Marchi ha preso inizio proprio da questo: il Marco del nord-ovest invase Feronia e ne deturpò la foresta. Hai presente il Fiumeferrigno?» Amber annuì a labbra semichiuse. «Dicono che fosse l’unico accesso a quelle terre prima che venisse creata la Porta.» Anche lui si rifiutò di pronunciare il nome del luogo. Rabbrividì. «Quei luoghi non hanno nulla da offrire. Stanne alla larga» abbassò nuovamente il capo sul suo piatto e riprese a mangiare.
Però i nostri riti invocano la benedizione di Manth, pensò, ma anche lei si chiuse nel silenzio.
Quella notte la luna imbiancava il mondo. I lunghi capelli di Amber, sciolti sui cuscini, brillavano come una ragnatela intrisa di rugiada. I suoi occhi contemplavano la neve e la cima dei pini che si intravvedevano dalla finestra. Hasse la teneva stretta a sé nel sonno, ma il suo calore non riusciva a sciogliere le vene di ghiaccio che si stavano impossessando del suo cuore.
L’indomani Amber non attese il ritorno della vecchia: si strinse nel lungo mantello blu notte e oltrepassò senza esitazione la prima linea di alberi. La foresta era incatenata alla sua stessa ombra, il sottobosco scricchiolava di vita e di morte sotto i suoi piedi, e le creature che ne popolavano i recessi cantavano la loro melodia solo per lei. Ella vagò senza una meta precisa, il suo istinto la condusse alle radure dove suo padre era solito approvvigionarsi. Da lì, fu semplice ritrovare il percorso che conduceva ai Cancelli. Da piccola non se n’era accorta, adesso però il tappeto di foglie sembrava attendere solo lei, il vento che sollevava gli aghi d’abete e i fiocchi di neve, facendoli veleggiare in avanti, guidandola lungo il suo cammino.
I Cancelli di Vite si stagliarono dinanzi ai suoi occhi, le loro sbarre che si perdevano tra le alte fronde degli alberi, laddove l’occhio non poteva più distinguerne le fogge. Amber ispirò il soffio gelido dell’inverno, liberando la condensa dalle sue labbra socchiuse, e fece un passo avanti, e poi un altro, e un altro ancora, finché la Porta non rappresentò tutto il suo mondo. Alla sua destra il Fiumeferrigno scorreva placido, tant’era che vicino le sponde le sue acque erano ricoperte da un sottile strato di ghiaccio.
Amber spostò lo sguardo sul confine della foresta e scoprì che nessuna mano poteva aver eretto quella barriera tra Feronia e l’albero di Manth: le sbarre verticali erano gli alberi e i ghirigori che scorrevano tra di essi gli intrecci dei rami; grigi e rigidi, quasi fatti di pietra, non lasciavano spazio al forestiero né speranza nel cuore dei pellegrini. C’era magia in quel luogo, ma l’uomo, chissà da quanto e chissà perché, ne era escluso.
La figura di Nanàrm si scorgeva china tra le radici del grande albero, abbandonata sulla neve che cadeva copiosa sul Colle Canuto. Preoccupata, Amber mandò all’aria la sua meraviglia e il timore crescente, e corse verso i Cancelli per prestarle soccorso.
Un freddo tramortente si riversò sulla sua anima quando le sue mani toccarono i tralicci di legno elaborato. Per quanto freddo fosse quel contatto, c’era vita nella Porta, poteva sentirla scorrere tra le sbarre di legno. Per un attimo, il suo animo fu investito dalla forza prorompente di tutta la foresta; quel tocco fece scorrere dentro di lei i flussi di energia che percuotevano l’intero sottosuolo, potente, immenso. Ella indietreggiò, impaurita, e respirò il dolore di quel luogo e dei suoi ultimi difensori. Se Nanàrm aveva bisogno di aiuto, lei non era in grado di offrigliene. E poi, si disse, quella donna era vissuta centinaia d’anni; assurdo, forse, ma se così era, sarebbe sopravvissuta anche senza il suo intervento.
Senza accorgersene, corse via. E non vi fece ritorno.
 
 
La vecchia tesseva la lana davanti alla baracca, come sempre. I suoi occhi ormai erano velati da una patina biancastra che la privava dei colori del mondo.
Amber si strinse lo scialle al petto, l’involucro del pane appena sfornato che le bruciava sotto il braccio. Le si avvicinò con passo incerto.
Titubante, le disse: «Vecchia» come tutti la chiamavano, «raccontami della Porta.»
«La figlia del falegname?» L’anziana donna sollevò le sopracciglia, unico gesto a indicare la sua attenzione. «Sono anni che non siedi più ai miei piedi.»
«Mi sono sposata» annunciò con tono freddo.
«Ah!» commentò, e non aggiunse altro.
«Cosa sai dei Cancelli di Vite?»
«Non pronunciare quel nome» gracchiò. Ormai la sua voce non riusciva a superare l’intensità di un sussurro. «Hai dimenticato?»
«Ricordo tutto quello che mi raccontavi. Mi chiedevo solo se c’è qualcosa che tu abbia scordato di aggiungere ai tuoi racconti» la buttò lì. «Qualcosa su Nanàrm…»
«Una ladra!» si arrabbiò, e per un attimo il suo tono si alzò di un’ottava. «Ruba vite, strappa persone ai propri cari.»
«Come? Non dovrebbe essere morta?» la incalzò.
«I servi del male non conoscono vita. Sono morti, come i Vaganti, e quindi non possono morire.»
Amber sospirò, poi chiese ancora, intestardita: «Hai detto che ruba vite. Come?»
«Le strappa dalla terra e le trascina lungo il Fiumeferrigno» s’incupì. Le parole inciampavano sulla sua lingua, quasi come se esitassero a venir fuori.
La giovane donna si avvicinò ancora e, come era solita far da bambina, si sedette ai piedi della vecchia. «La vita di chi ha rubato l’ultima volta?»
«Ashji» pianse tra i denti, come fosse un lamento struggente. «La mia cara sorella» acuì il tono, dondolandosi sulla sedia.
L’arcolaio era dimenticato, la ruota aveva finito di girare. Il vento s’insinuava tra le assi e faceva scricchiolare il legno e gli usci. Il pavimento si piegò sotto il loro peso, stanco dei ricordi dell’anziana donna, o forse aggravato dalla bramosità di sapere della giovane.
«Giocavamo nella foresta, ad Ashji piaceva la pace che respirava tra gli alberi. Tra il verde dei pini e il bianco del suolo lei sembrava acquisire nuova vita. Ci siamo spinte troppo vicine alla Porta, io ho tentato di convincerla a tornare indietro, ma lei continuava a dire che voleva mostrarmi le rovine. Io non le vedevo, lei era preda di un sogno o di un sortilegio. Maledetta Nanàrm» piagnucolò. «Il Fiumeferrigno la catturò e i Cancelli si sono aperti per lasciarla entrare. Ma non hanno fatto passare me.»
Lacrime scorsero lungo le sue guance incavate e piene di rughe. Il cuore di Amber diede un colpo, ma non per pietà: Ashji aveva visto le rovine della chiesa!
«Ho vista mia sorella, o ciò che ne restava, arrampicarsi fuori dall’acqua, sul Colle Canuto, e venir inghiottita dalla neve. È una Vagante, morta, prigioniera della Porta e di quella ladra. Nanàrm l’aspettava sotto le fronde innevate di Manth, sedeva o forse dormiva. Era lei a mandare quelle visioni a mia sorella, lo so.»
Amber pensava, ma non riusciva a mettere in ordine le sue idee. C’era qualcosa che aveva risvegliato il suo interesse, finalmente; l’attimo dopo, però, le era sfuggito.
Una mano le ghermì il polso: la donna si era protesa e aveva stretto forte, fino a farle male. «Non andare nella foresta, figlia del falegname, quella non è una donna: è il male. La sua vita è vincolata ai Cancelli, ma le sue mani fanno presa su tutti gli alberi del bosco. Quel luogo è maledetto!»
La lasciò andare, spossata. Amber si alzò e, senza una parola di congedò, si allontanò dalla baracca e dalla vecchia.
Non si è neanche accorta di aver pronunciato il loro nome, pensò mentre rincasava.
Hasse l’attendeva sull’uscio della casa. La barba incolta e il volto spaventato, si alzò appena la vide e le corse incontro.
«Dove sei stata? Ho temuto che…»
«Mi sono intrattenuta con vecchi amici, al villaggio» lo rincuorò. Si liberò dalla sua presa ed entrò in casa. «Preparo subito la cena.»
«Hai fatto visita ai tuoi genitori?» le domandò.
«Se anche volessi, loro disconoscono di avere mai avuto una figlia» rispose con un po’ troppa durezza.
«Forse accoglierebbero volentieri la notizia di un nipote» suggerì, sedendosi a capotavola.
«Peccato che non aspetti nessun figlio.»
«Già.» La sua voce si spense.
Amber si rattristò. Amava Hasse, la sua vita al suo fianco era migliorata, ma mancava ancora qualcosa. Forse l’assenza di un figlio aveva negato loro la completa felicità; suo marito non glielo faceva pesare, ma vedeva l’amarezza nei suoi occhi ogni qualvolta lo sorprendeva con lo sguardo perso sul suo corpo o in balia delle fiamme del camino.
Quei due anni assieme erano stati intervallati da diverse tormente: i Marchi avevano riaperto le ostilità e incursioni di piccoli drappelli ufficiosi avevano razziato le greggi e rovinato i raccolti da ambedue le parti; nell’aria si respirava l’odore della guerra. Hasse non ne era felice. Il suo obbligo nei confronti del paese lo costringeva a prenderne parte, ma questo voleva dire lasciare la casa e sua moglie senza protezione.
«So difendermi» lo rassicurava.
«Un bastone non può fermare una lama affilata» le ribatteva sempre, guardingo.
Alla fine Hasse fu costretto a partire, insieme ai più forti tra gli uomini di Feronia; tra questi c’era anche suo padre. Amber incrociò il suo sguardo mentre ella, insieme alle altre donne del villaggio, salutava i suoi cari; e avrebbe giurato di aver notato un sorriso soddisfatto sulle sue labbra, nel vederla in salute.
Gli uomini partirono e Feronia rimase preda dell’inverno. I bambini abbandonarono le Buche e le donne strinsero la cinghia, facendo il lavoro duro nei campi e occupandosi del bestiame, privandosi dei lavori di manutenzione o costrette a chiedere aiuto ai villaggi limitrofi.
Amber si chiuse nella solitudine della sua casa, alla periferia nord del villaggio. La sua unica compagnia erano gli alberi e le piccole erbe che crescevano nell’orto. Non si separava mai dal bastone né dall’ascia con cui Hasse tagliava la legna durante i rigidi inverni. Come suo padre, se la trascinò ovunque, lungo le passeggiate nel bosco e nei campi abbandonati. Non si addentrò più fino ai Cancelli, la sofferenza provata era troppo grande perché lei fosse in grado di reggerla da sola.
La vecchia del villaggio morì prima del solstizio. La sua figura fu faticosamente seppellita dalle sue vicine e salutata dai bambini con boccioli di bucaneve. Al confine del cimitero, ricomparve la figura incappucciata della vecchia donna della foresta. Amber la seguì con lo sguardo per tutto il tempo della cerimonia, poi la rincorse fino alla prima fila di alberi.
«Nanàrm!» la chiamò. Impedita dalla neve, urlò più forte: «Ashji!»
La vecchia si voltò e i suoi occhi furono lance di diamante che trafissero il suo cuore. «Presto» sussurrò al vento, che portò il messaggio alle sue orecchie, e sparì nei recessi della boscaglia.
 
 
Il Marco del sud-est sfondò le file dei loro difensori e penetrò nei territori del Marco del nord-ovest. Feronia si trovava proprio davanti la loro strada, sentinella misteriosa di un reame ignoto tra i due regni. Al tramonto del solstizio d’inverno, l’esercito invasore sbaragliò le ultime difese e attaccò il villaggio da sud.
Amber fu svegliata dai rumori alla porta, le urla che ancora non riuscivano a raggiungere il confine nord con gli alberi.
Aprì e sua madre cadde ai suoi piedi, spaventata. «Attaccano, i nostri uomini sono morti, siamo perdute» cantilenò, in preda al panico.
Amber sollevò lo sguardo per vedere il rosso del fuoco bruciare la neve e le case più a valle. Con uno strattone, tirò la madre in piedi e, afferrato il bastone, la trascinò via dalla soglia. In silenzio, quasi in un sogno, discesero il pendio e si avvicinarono alla foresta. Le urla dei bambini giungevano fino agli alberi, straziando le sue orecchie e ferendo a morte il suo cuore; ma non si voltò. Ella continuò ad avanzare nell’oscurità, i sensi della donna al suo fianco irretiti dalla paura e dal trauma. Ritrovò la strada, che nel suo cuore era visibile anche tra le tenebre; la neve danzava intorno a lei e la proteggeva dal male. Raggiunsero la radura e un raggio di luna solcò il cielo limpido sopra di loro; la notte stava sorridendo, accogliendole nel suo abbraccio eterno.
La luce però illuminò le fronde e il sottobosco, e la madre sembrò finalmente accorgersi del luogo in cui si stava muovendo.
Urlò.
«Madre, dobbiamo avanzare! I Cancelli ci proteggeranno!» affermò, sicura delle sue parole. I Cancelli di Vite l’avrebbero protetta, questa volta ella sapeva come passare.
«No…no…NO!» scosse la testa, in preda alla follia.
La sua mano si liberò in modo convulso dalla sua stretta e la donna cadde a terra, affondando nella neve alta.
«Dobbiamo avanzare ancora un po’…»
La donna ormai strillava senza ritegno, impazzita. Il suo sguardo era fisso alle sue spalle, spalancato sulla figura che andava staccandosi dallo sfondo legnoso.
Ashji si liberò dell’oscurità e affiancò la giovane donna. «Il momento è giunto» disse solo.
Amber si voltò a guardarla, finalmente scorgendo nel suo viso i tratti così simili alla vecchia del villaggio. «Il Colle mi sta chiamando, lo sento.»
«Manth canta solo per te. Ma sarà la sua ultima melodia se tu non risponderai. Manth ha bisogno che qualcuno parli con lui, sempre.»
«Io…» esitò.
Un rumore vacillante alle sue spalle la distrasse. Si girò e vide sua madre tentare scompostamente di rialzarsi e fuggire fuori da quell’intrico di rami e tronchi.
«Madre!» la chiamò, facendo un passo verso di lei.
Il tocco gelido di Ashji la tramortì sul posto. «Non puoi salvarla da se stessa. Ma puoi ancora salvarla dalla morte.»
Ashji tornò verso gli alberi e, ancora in uno stato confusionale, Amber la seguì un po’ più dietro.
Camminarono senza fretta tra gli alti alberi, i fusti sempre più dritti e immensi, fino a raggiungere la grande Porta. Una barca le attendeva sulla vicina sponda del Fiumeferrigno.
Ashji gliela indicò. «Può condurre una sola guardiana per volta, ed è un viaggio senza ritorno.»
Amber ritirò la sua mano. «Non posso. Hasse, la mia casa…» Deglutì, spaventata. «Non posso abbandonare la mia casa. Mio marito» s’interruppe, la verità l’assalì. «Mio marito è morto, non è vero?»
Ashji scosse la testa. «Uomini sopravvissuti allo scontro stanno facendo ritorno al villaggio. Giungeranno un’ora dopo l’alba, ma non arriveranno in tempo per salvare Feronia, o Manth.»
Amber era confusa. Senza rendersene conto, si allontanò dalla sponda e dalla piccola imbarcazione. «Hasse sta tornando» sussurrò, incerta su ciò che provava.
Le sue emozioni erano contrastanti, i suoi pensieri offuscati. Suo marito era vivo e stava tornando da lei. Se lei lo avesse aspettato, si sarebbero rivisti, avrebbero potuto vivere insieme. Amber si toccò il ventre: lei non avrebbe potuto dargli niente, però; il suo grembo era freddo, vuoto, incapace di generare vita.
«Manth è il padre della foresta, ma ha bisogno di una madre per poter esistere e nascere a nuova vita» le disse Ashji. «Io non sono più in grado di allevarlo, mio figlio è giunto vicino alla morte. Ma tu puoi creare un nuovo seme e rinvigorire il suo corpo, perché la foresta continui a vivere e a proteggere. Non c’è più tempo, Amber» la incalzò con il fiato corto. «Devi scegliere e lo devi fare da sola.»
Il corpo della vecchia scivolò sulla neve, stanco e provato. Amber le si inginocchiò accanto, tremante e in lacrime. «No…» boccheggiò.
Una mano fredda sfiorò il suo viso, raccogliendo l’ultimo barlume di calore del suo viso nel palmo. «Manth deve vivere. Io però ho bisogno di morire, adesso. Il momento è giunto.»
I suoi occhi si chiusero beati nell’oblio eterno e finalmente il suo corpo si rilassò, trovando la pace.
Con uno scricchiolio come di ceppi in fiamme, i rami che si allungavano e intrecciavano tra gli alberi si districarono e si ritirarono nell’oscurità, aprendo i Cancelli di Vite.
Amber guardò la vecchia, vide il biancore della neve tingere la sua pelle, trascinandola in luoghi in cui lei non poteva raggiungerla. Poi alzò lo sguardo e lo puntò verso il suo villaggio in agonia, dove sua madre era corsa incontro alla morte, e capì che neanche lì poteva andare. Non avrebbe più rivisto Hasse…
Si alzò e con passo cadenzato raggiunse l’imbarcazione e salì. Dando una spinta con il suo bastone, si allontanò dalla riva e la corrente del Fiumeferrigno la trascinò inesorabilmente verso il Cancelli di Vite. Manth attendeva, ritto sul Colle Canuto, il suono della sua voce simile a quello di un nido d’uccellini pigolanti. La barca superò la Porta e Amber finalmente vide l’altra parte del mondo.
 
 
Manth rideva, lo faceva spesso. A lei piaceva il suono della sua voce, potente e cristallino, come campanelli trillanti. Il vento le portava notizie del mondo, e così apprese che una tormenta si era abbattuta sul villaggio. Le donne si erano chiuse in casa e l’esercito invasore era stato sconfitto dalla forza della natura. Hasse e gli uomini giunsero un’ora dopo l’alba, uccidendo e scacciando gli ultimi nemici rimasti. Sua madre fu ritrovata viva ai confini della foresta, ma la sua mente aveva preso il sopravvento sulla sua volontà. Suo padre si prese cura di lei e Hasse l’aiutò. Quando riuscì a proferir parola, disse solo: «È una Vagante, Nanàrm l’ha presa.»
Amber vide attraverso gli occhi degli alberi della foresta Hasse osare avvicinarsi ai Cancelli, urlando il suo nome. Ma i suoi occhi non erano in grado di vedere le rovine della Chiesa e nemmeno lei.
Ella si era sbagliata, su molte cose: avrebbe avuto un figlio, sarebbe stata madre e avrebbe rivisto ancora molte volte Hasse. Ma lui non avrebbe potuto vedere lei.
Amber scoprì in quel dolore una dolcezza che l’accompagnò nei suoi lunghi anni di vita: durante i rigidi inverni la scaldava sotto le fronte del grande albero e nelle notti d’estate illuminava a festa i pendii del Colle Canuto. La magia dei Cancelli di Vite proteggeva la foresta e Feronia. E il suo ventre avrebbe accolto i figli dell’intero mondo. Le radici e i rami della Porta, che imprigionavano il suo corpo, sarebbero stati la libertà del suo spirito.


 

N.B.

Se siete curiosi di tenere d'occhio le novità su tutti i deliri originali che sforna questo account, vi informo che è finalmente disponibile la mia pagina d'autore su fb, potete trovarla cliccando sul bottoncino apposito nella mia pagina autore di EFP. Vi aspetto!^.^
   
 
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