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Autore: MadAka    05/11/2016    1 recensioni
“Il sovrano aveva impiegato due anni per sentirsi all’altezza del compito che il padre gli aveva prematuramente lasciato. Tuttavia, alla fine, l’erede di T’Chaka si stava dimostrando un ottimo re, così come un perfetto Pantera Nera.”
[Post Civil War. Sono presenti riferimenti ad altri film Marvel, in particolare AoU. Alcune cose possono essere tratte anche dai fumetti]
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Nuovo personaggio, Sam Wilson/Falcon, Steve Rogers, T'Challa/Black Panter
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta
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Abasi Ndomba era sempre stato un uomo tranquillo e profondamente soddisfatto del proprio lavoro. Per quanto a molti sarebbe potuto apparire monotono e noioso, certo non lo era per Abasi il quale si era sempre trovato a suo agio nell’ufficetto piccolo che aveva arredato a suo piacimento, in cui trascorreva ore della sua giornata a far scorrere gli occhi sui video dei monitor di sicurezza. Il deposito di munizioni di Omorate, uno dei più piccoli e relegati all’inizio della giungla che rivestiva il fiume Omo, proprio ai confini del Wakanda, era un posto tutto sommato tranquillo, in cui non era mai accaduto nulla di pericoloso o di inatteso. Le munizioni stoccate dalle case produttrici arrivavano in quel deposito una volta a settimana e nei sette giorni successivi venivano smistate in più casse e spedite nelle terre che le acquistavano. Tutto ciò avveniva sotto gli occhi vigili di Abasi che osservava la scena seduto alla sua scrivania, sui monitor 7, 8 e 9 che da sempre erano quelli collegati alla sala di smistamento. Parte di quelle munizioni erano riservate al regno del Wakanda, da cui provenivano venti dei cinquanta dipendenti di quel deposito e che, inoltre, si occupava della sorveglianza della zona.

Abasi era certo di essere di fronte a un’altra conclusione di giornata perfettamente normale. Erano quasi le dieci di sera e il suo turno era in procinto di concludersi. A breve avrebbe visto Salehe che gli avrebbe dato il cambio, e sarebbe tornato al suo alloggio per concedersi una cena e poi per immergersi nella lettura dell’ultimo romanzo da poco iniziato.

Fu mentre accarezzava quest’ultima prospettiva che qualcosa attirò la sua attenzione. Su uno dei monitor macchie scure e confuse cominciarono a comparire dal fitto della foresta; i volti coperti da passamontagna neri e grossi fucili stretti in mano. Abasi capì immediatamente quanto pericolo c’era in ciò che aveva appena visto. Senza pensarci due volte premette il pulsante rosso che aveva sopra la scrivania e la sirena d’emergenza si azionò, mettendo in allerta gli uomini della sicurezza del deposito. Tornò a controllare sul monitor e si accorse che gli uomini armati continuavano a uscire dalle fronde: dovevano essere almeno una ventina.

Un silenzio di ghiaccio anticipò il primo sparo. Abasi riuscì a sentirlo distintamente anche al secondo piano del deposito. Subito dopo altri spari seguirono il primo, divenendo sempre più numerosi e sovrapposti. Dagli schermi vide gli uomini con il passamontagna sparare ancora verso chi tentava di intervenire. Uno di loro estrasse una granata dalla cintura e la lanciò senza indugio verso l’ampio portone di lamiera. La deflagrazione fece tremare le pareti della struttura e fu seguita da altri spari e grida quando il gruppo di uomini fece irruzione con forza nella vasta sala del deposito, in cui la maggior parte degli operai tentava invano di mettersi al riparo dai detriti che ancora schizzavano come proiettili dopo l’esplosione. Abasi continuò a seguire terrorizzato ogni azione di quella notte che si era stravolta in pochi minuti, come se dai monitor stesse assistendo alla proiezione di un film terribilmente realistico. Era impietrito, spaventato come non si era mai sentito prima d’allora. Il suo cervello fu solamente in grado di dirgli di alzarsi e chiudere la porta dell’ufficio a chiave. Tornò a rivolgere gli occhi al monitor, sentendosi via via sempre più impietrito dalle scene che continuavano ad animare gli schermi. Gli addetti alla sicurezza si scontravano con le figure dal passamontagna; sparavano loro o si sfidavano in un corpo a corpo, ma non riuscivano ad avere la meglio. Uno dopo l’altro quelli che Abasi conosceva venivano uccisi tutti, fra grida di dolore, colpi di pistola e schizzi di sangue che imbrattavano i pavimenti.

Come risvegliato da un improvviso torpore Abasi si mosse rapido verso il telefono. Aveva l’orrore negli occhi e le grida dei suoi colleghi riecheggiavano nelle sue orecchie. Tentò di digitare il numero di telefono della polizia, ma le mani gli tremavano a tal punto da far fallire il primo tentativo. Tuttavia, quando tentò di digitare nuovamente la sequenza corretta, la serratura alle sue spalle scattò. In preda al panico si voltò verso l’ingresso, dove la porta si stava aprendo lentamente, mostrando dietro di essa due figure. Entrambe erano vestite di nero e indossavano anfibi sudici di fango e giubbotti antiproiettile. Solo uno dei due portava il passamontagna. Abasi riuscì a vedere il volto dell’uomo più vicino a lui, dai capelli brizzolati e scarmigliati, rasati ai lati, la barba di chi ha vissuto la giungla a lungo, il collo travisato da una cicatrice e occhi impenetrabili. Tuttavia fu il sorriso che aveva a far impietrire Abasi rendendolo incapace di reagire; nel sorriso di quell’uomo c’era una follia perversa, una distorsione allucinante in grado di far gelare il sangue.

L’uomo guardò negli occhi Abasi e il suo ghigno parve arricchirsi di ulteriore follia. «Mi dispiace dovertelo dire, amico. Temo che tu abbia visto troppo.»

Le parole che l’uomo pronunciò fecero subito capire ad Abasi che era segnato. Aspettò con sorprendente consapevolezza la pallottola che lo avrebbe ucciso, ma questa non arrivò mai.

Ancora sulla soglia, l’uomo con il passamontagna diede le spalle alla scena e si allontanò mentre l’altro, fattosi improvvisamente serio, sollevò la mano destra. Ad Abasi parve che l’arto avesse un colore innaturale, anche se non riuscì ad accertarsene in tempo. Un dolore come non ne aveva mai provato prima lo aggredì. Si sentì schiacciare da qualcosa che non era in grado di vedere ma che sentiva premere con ferocia contro il suo corpo. Non gli riuscì di gridare, né di pensare a un ultimo ricordo. Con la stessa rapidità con cui il dolore era arrivato se ne andò e Abasi non fu più in grado di provare nulla.

 

*

 

“… il comandante delle forze di polizia di Omorate non esclude alcuna pista. Le munizioni rubate all’interno del deposito erano pronte per essere stoccate negli stati che ne avevano fatto domanda. Con molta probabilità, secondo gli inquirenti, si sarebbe trattato di un attacco e di un furto su commissione, a opera di mercenari o possibili terroristi. Rimaniamo in collegamento…”

Il televisore continuava a proporre nuovi aggiornamenti riguardo l’attacco al deposito di Omorate della sera prima, mentre la luce del mattino entrava con forza dalle ampie finestre dell’ufficio personale del sovrano del Regno di Wakanda, annebbiando le immagini dello schermo tv. T'Challa sedeva alla scrivania, gli occhi che scorrevano sulle pagine di numerosi giornali e di altrettanti impegni annotati a penna su taccuini e agende. Sollevò lo sguardo solo quando sentì la porta aprirsi e il rumore di tacchi introdurre nella stanza la sua assistente. Quest’ultima raggiunse la scrivania, vi girò intorno e posò con leggerezza il caffè mattutino del sovrano – una miscela dei migliori caffè d’Africa da lui personalmente ideata; in quel gesto i lunghi capelli castani di lei scivolarono dalle sue spalle, per poi posarvisi nuovamente, ondulati e leggeri. La sua pelle bianca, europea, meravigliosamente dorata dal sole africano la faceva sembrare perennemente fuori luogo in Wakanda, se non fosse per l’incredibile sicurezza e la grazia con cui sembrava veleggiare fra i corridoi del palazzo e che lasciavano perfettamente intuire che, quella, era casa sua.

«Che cosa ne pensi Anisa?» domandò T'Challa, indicando con un rapido cenno il televisore, dove ancora il deposito di Omorate riempiva l’inquadratura. La donna non replicò e il sovrano riprese a parlare: «Cinquantadue dipendenti, tutti uccisi. Venti di loro erano wakandiani.»

T'Challa spense la tv, afferrò il suo caffè e andò alla finestra a osservare il cielo terso che sovrastava la capitale del suo regno, già viva di prima mattina.

«E non solo» riprese poi a dire. «Tre dei maggiori esperti al mondo di vibranio sono spariti e quattro giorni fa uno di loro è stato trovato morto sulle coste del lago Turkana. Una morte inspiegabile, la sua; aveva gli organi spappolati ma nessun segno di aggressione.»

Anisa rabbrividì appena all’idea. Aveva già letto del ritrovamento di quell’uomo sui giornali e anche allora la modalità della sua morte le avevano fatto impressione.

«Credi che ci siano dei collegamenti fra tutte queste cose?» chiese poi al sovrano.

T'Challa si voltò per vederla meglio in viso. I suoi occhi scuri puntarono decisi in quelli nocciola della donna che non si scompose, ma rimase immobile, le mani intrecciate in grembo, in attesa di una risposta.

«Sì, io penso che le cose siano collegate. Altrimenti non si può spiegare la scomparsa di tre uomini così simili fra loro per le conoscenze che possiedono e il furto di munizioni a sufficienza per rifornire un esercito. Le possibilità che queste cose non abbiano un nesso fra loro sono misere e le renderebbero coincidenze impensabili.»

Anisa rimase a guardare T'Challa mentre quest’ultimo sorseggiava un po’ del suo caffè; la pelle scura del sovrano era illuminata dalla luce che proveniva alle sue spalle e i contrasti che essa creava rendevano i lineamenti dell’uomo ancora più fieri e carismatici.

Lei aveva sempre nutrito profondo rispetto per T'Challa, fin da quando ne aveva memoria. A soli tredici anni, per via di alcuni stravolgimenti che le avevano compromesso un futuro sereno, Anisa aveva incontrato T’Chaka, l’allora sovrano del Regno di Wakanda, il quale aveva deciso di portarla con sé a palazzo e fare di lei la proprio figlia adottiva. Anisa e T'Challa erano cresciuti insieme, sigillando fra loro un legame di amicizia più forte e intenso di quello che caratterizzava i restanti figli del re. Quando T'Challa fu nominato sovrano, in seguito alla drammatica dipartita del padre, aveva espresso il desiderio di avere Anisa accanto e l’avevano nominata sua personale assistente. Mai si era pentito di quella scelta e mai la donna gliene aveva dato motivo.

T'Challa inspirò l’aroma della bevanda che stava sorseggiando e tornò a sedersi alla sua scrivania, sempre sotto lo sguardo di Anisa, che attese le successive parole del sovrano. Quest’ultimo spostò alcune carte del piano, scoprendo sotto di esse un’accurata cartina geografica delle zone limitrofe al Wakanda. Su di essa vi erano segni eseguiti con inchiostro rosso: cinque grandi X.

T'Challa alzò lo sguardo sulla donna, indicando con l’indice il primo dei cinque segni. «Kakuma. Un mese fa un piccolo villaggio ai confini della città è stato attaccato. Non hanno trovato alcun superstite, ma nemmeno un cadavere.»

Poi puntò in sequenza tre delle cinque croci, che salivano verso Omorate, come se fosse un percorso prestabilito. «Due aggressioni ad altrettante guardie, i cui corpi sono stati trovati pieni di ferite sospette e inspiegabili» disse, prima di soffermarsi sul terzo segno, quello in corrispondenza del lago Turkana. «Qui hanno ritrovato il cadavere di uno dei tre scienziati, quello di cui ti parlavo prima.»

Anisa annuì e T'Challa indicò l’ultima X rossa. «E infine il deposito di Omorate, ieri sera. Mi rifiuto di credere che siano coincidenze, che nessuna morte c’entri con la precedente.»

Sospirò, amareggiato da quanto aveva appena detto. «Inoltre se provi a seguire la scia…»

Lasciò la frase in sospeso, in attesa che a completarla fosse l’assistente. Lei dedusse immediatamente ciò che lui non aveva detto. «Pare quasi siano diretti qui» mormorò infine Anisa, sorpresa. Alzò lo sguardo su T'Challa e vide i profondi occhi scuri dell’uomo intenti a osservarla.

«È ciò che temo. Sospetto fortemente che presto possa succedere qualcosa anche da noi. E voglio evitarlo.»

Il sovrano parlò con voce ferma e sicura, senza interrompere il contatto visivo. Subito dopo, però, controllò l’orario sull’orologio che teneva al polso.

«Come pensi di fare?» domandò Anisa, ma non attese risposta; così come conosceva T'Challa conosceva anche i suoi modi di lavorare e tutte le tecnologie che aveva a disposizione. «Hai mandato delle Sentinelle?»

Le Sentinelle erano droni da terra, in grado di raccogliere informazioni di qualsiasi natura, fare riprese audio e video e registrare la presenza di forme di vita. Piccoli e veloci, lo scheletro in vibranio li rendeva pressoché indistruttibili.

T'Challa annuì alla domanda della donna, un sorriso compiaciuto a solcare il suo viso. Anisa non lo deludeva mai e la sua capacità di ragionare in fretta veniva a galla anche nelle piccole cose.

«I risultati dei loro rilevamenti dovrebbero arrivarmi a breve.»

L’uomo fece a malapena in tempo a finire la frase che qualcuno bussò alla porta. T'Challa diede l’autorizzazione a entrare e un giovane varcò la soglia della porta. Salutò i presenti nell’ufficio, portò il plico di carte stampate che teneva in mano fino alla scrivania e uscì con lo stesso passo con cui era entrato.

«Puntuali come sempre» sentenziò il sovrano.

Anisa guardò le carte. «Sono questi?» domandò, riferendosi ai rilevamenti delle Sentinelle.

T'Challa le rispose facendo segno di sì con la testa. Desiderava informare la propria assistente di come erano andate le cose, perciò subito dopo disse: «Ho saputo del furto al deposito questa notte, un paio d’ore dopo che esso era avvenuto. Quando ho visto che si trattava di Omorate ho pensato che fosse meglio indagare e ho mandato sei Sentinelle a fare rilevamenti nella zona.»

Divise accuratamente i fogli che aveva davanti in due pile identiche e, con un cenno della mano, indicò ad Anisa una delle sedie poste di fronte a lui, dietro le quali la donna si ostinava a stare ferma in piedi. Senza staccare gli occhi da T'Challa lei si sedette e il sovrano considerò quel gesto come il giusto pretesto per passare a lei uno dei due plichi di carte.

«Mi aiuti ad analizzare i risultati?» le chiese.

Anisa non replicò, ma afferrò il primo gruppo di fogli puntati insieme e cominciò a studiare tutta la serie di numeri, lettere e grafici che aveva faticosamente imparato a decifrare solo pochi mesi prima.

Quasi mezz’ora di silenzio e lettura dopo nessuno dei due aveva trovato qualcosa di cui insospettirsi nei dati che avevano letto fino a quel momento. Nelle aree scansionate dalle Sentinelle non c’erano stati movimenti che potevano far supporre alla presenza dell’uomo.

Anisa era ormai stufa di leggere tutti quei numeri quando notò un picco in uno dei grafici, in corrispondenza di una zona che, sulla carta, coincideva con una riva del fiume Omo.

«T'Challa.»

Il sovrano alzò in fretta il capo; anche lui era piuttosto annoiato dalla mancanza di anomalie dei suoi dati. Si fece serio quando vide lo sguardo incerto dell’assistente.

«Nell’area G29 c’è un incremento elettrico» disse lei, allungando a T'Challa le carte in questione. «Cosa c’è nel G29?» chiese poi, preoccupata.

Lui spostò in fretta le carte che coprivano la cartina che prima avevano studiato insieme e cercò il punto esatto; era proprio sulle sponde dell’Omo, nel folto della giungla che inverdiva le sponde del fiume, poco sopra il confine nord del Wakanda.

«Di cosa pensi si possa trattare?» domandò Anisa.

T'Challa capì dalla sua voce che anche lei trovava la cosa piuttosto sospetta. Fece mente locale, cercando di ricordare tutto ciò che sapeva del territorio. Alla fine ricordò: «Se non mi sbaglio c’è una centrale idroelettrica. Piccola e abbandonata da anni.»

«Forse non più così abbandonata.»

Il sovrano si disse d’accordo. Si alzò in piedi e tornò alla finestra, prendendo a giocare distrattamente con l’anello che portava all’anulare destro: uno spesso anello nero bordato d’argento.

«Voglio capire se è tutto in regola, oppure se in quella centrale c’è qualcosa che non deve esserci.»

Anisa controllò nuovamente la mappa appena T'Challa smise di parlare.

«Quella zona è terra etiope. Se vuoi mandare laggiù degli uomini per verificare che sia tutto in ordine dovrai chiedere il permesso al primo ministro etiope» gli fece notare.

Il sovrano non rispose subito; continuava a tormentare il proprio anello con le dita, sovrappensiero. Qualunque cosa stesse succedendo nelle terre che circondavano il suo regno, scoprirlo era suo compito. Le richieste politiche non avrebbero portato risultati immediati e il rischio di sentire di altre persone barbaramente uccise sarebbe aumentato mano a mano che lui avesse permesso al tempo di trascorrere. Non ne aveva alcuna intenzione. Se qualcuno stava minacciando la sua gente lui l’avrebbe scoperto, e in fretta.

Senza smettere di guardare la città che viveva oltre le mura del suo palazzo, T'Challa respirò a fondo.

«No» disse e Anisa osservò la figura del proprio sovrano con maggiore intensità.

«Non manderò alcun uomo a controllare. Questo è un lavoro per la Pantera.»

 

*

 

La giungla era un terreno spaventoso e impervio per chiunque. Anche in pieno giorno le fitte fronde, tenute insieme da liane, rami e tralci, risucchiavano la luce, proiettando solo nero in grado di assorbire ogni cosa. Nella profondità della foresta i suoni venivano attutiti; chi camminava sembrava circondato da ovatta, eppure anche il più minimo rumore si riusciva a sentire, solo che, in tal caso, o si era troppo vicini alla fonte, oppure era già troppo tardi. Per uno nato e cresciuto attorno a quella giungla orientarvisi all’interno era meno complicato e i suoni diventano più decifrabili e meno spaventosi.

Per Pantera Nera quegli alberi così uguali fra loro erano in realtà diversi e ciascuno tracciava un sentiero che un uomo dotato delle stesse capacità della Pantera era in grado di decifrare. T'Challa avanzava furtivo verso il cuore sempre più nero e vivo della giungla, alla ricerca di quell’arteria, l’Omo, sulle cui sponde avrebbe trovato ciò che cercava. Conosceva ogni verso e ogni abitudine delle creature che abitavano quelle terre, così come sapeva in che modo comportarsi per evitare di fare loro del male.

La luna era sorta da diverse ore quando T'Challa sentì i primi e flebili rumori della corrente del fiume Omo. Raggiunto l’argine la Pantera si guardò intorno e diversi metri più avanti vide il tenue bagliore di luci elettriche. Capì di non essersi sbagliato. L’edificio da cui proveniva la luce era la piccola centrale idroelettrica di cui si ricordava; avrebbe dovuto essere abbandonata da tempo, eppure non era così. T'Challa si avvicinò alla struttura, prestando sempre più attenzione a non fare rumore mano a mano che proseguiva verso la centrale. Quando si trovò nei suoi pressi si fermò e studiò l’area. C’era un uomo di vedetta, fermo accanto alla porta che con tutta probabilità usavano per entrare e uscire; portava un passamontagna nero calato sul volto e un mitra stretto fra entrambe le mani. Pantera Nera continuò a osservare l’edificio fino a notare ciò che cercava: una via d’accesso. Le finestre poste poco al di sotto del tetto erano per lo più rotte o frammentate e la grondaia che dalla copertura scendevano fino a terra era la scala perfetta per raggiungerle. Ignorò completamente l’uomo di guardia e, silenzioso come il felino di cui portava il nome, si accertò non vi fossero altre persone e raggiunse il tubo pluviale. Vi si arrampicò con rapidità e agilità, arrivando fio alle finestre mancanti. Diede una rapida occhiata all’interno e ringraziò di vedere le sue speranze concretizzarsi; sotto le finestre c’erano grossi condotti d’acciaio – il sistema di ventilazione – spessi e certamente resistenti, perfetti per permettergli di camminarvi sopra entrando così all’interno dell’edificio. Vi salì e guardò sotto di sé. La stanza era ampia, sgomberata quasi totalmente, fatta eccezione per le grosse turbine fissate al suolo che ancora troneggiavano in buona parte dello spazio; a un lato erano stati accatastati resti di lamiera, casse vuote, taniche di svariate dimensioni. Vicino al centro della sala una decina di grandi casse era sorvegliata da svariati uomini intenti a conversare fra loro convinti di essere al sicuro. Appena li vide, Pantera Nera si accucciò per evitare di correre il rischio di essere notato. Quasi subito nuove voci introdussero nella stanza altre sei persone. Quello che guidava il gruppo prese a parlare, il tono infastidito, indicando le grosse casse.

T'Challa sentì la rabbia montare dentro di sé quando riconobbe quell’uomo. I capelli brizzolati, la barba mal tenuta e quella cicatrice sul collo non potevano che dargli ragione. Era il bracconiere, lo sfruttatore che per anni aveva depredato le terre del suo Regno e che era sempre riuscito a farla franca: Ulysses Klaw.

Senza staccargli gli occhi di dosso T'Challa si costrinse a mantenere la calma e a continuare a studiare la scena. Klaw stava dicendo qualcosa ai suoi uomini, indicando insistentemente le casse che aveva davanti. Per colpa del vuoto che riempiva gran parte dell’edificio la sua voce rimbombava fra tetto e pareti, rendendo le parole difficili da decifrare. La Pantera cercò di concentrare l’attenzione sulle casse, tentando di carpire qualche informazione da qualcuna delle indicazioni riportate su di esse. Un timbro nero sbiadito, come se avessero tentato di cancellarlo, riportava la parola “Kelem” e T'Challa capì tutto. Dato che la città di Omorate era anche conosciuta come Kelem, quelle casse non potevano che essere le munizioni rubate dal deposito di Omorate.

Fu semplice collegare le cose. Ulysses Klaw non godeva certo di buona fama in quelle terre e i metodi spietati per ottenere ciò che voleva non erano né rari ne tantomeno nuovi quando si aveva a che fare con lui. Inoltre l’assoluta fissazione dell’uomo per il vibranio era nota al sovrano del Wakanda e ciò avrebbe anche potuto spiegare la scomparsa dei tre esperti del raro metallo.

Quasi certo di aver trovato i colpevoli che stava cercando, Pantera Nera soppesò l’ipotesi di attaccarli subito in quella vecchia centrale; in fin dei conti erano si e no una quindicina di persone e anche se erano armati di fucili e pistole la sua tuta con fibre di vibranio avrebbe resistito perfettamente. Tuttavia qualcosa attirò la sua attenzione: un veloce gesto nell’ombra, poi nuovamente buio. T'Challa focalizzò la sua attenzione in quel punto e vide due figure che prima non aveva notato. Entrambe erano massicce, la pelle scura dei popoli del Kenya, le braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi su Klaw. Non indossavano giubbotti antiproiettile come gli altri, ma tute mimetiche identiche a quelle di Klaw. La Pantera rimase a fissarli a lungo e la sua intenzione di agire all’istante fu fermata dal suo istinto. Qualcosa in lui gli diceva di non sottovalutare quegli uomini, che qualcosa in ciascuno di loro li rendeva forti come tutti gli altri presenti nella sala. L’istinto di T'Challa si era sbagliato una volta soltanto e in quella occasione la rabbia lo aveva completamente accecato. Ora che conosceva il nascondiglio di Klaw e dei suoi uomini sapeva dove trovarli e sarebbe tornato presto, così da fermarli prima che potessero diventare ancora più pericolosi. Tuttavia quella notte decise di dare ascolto al suo istinto e silenzioso, così come era entrato, scivolò fuori dalla centrale e si immerse nella notte.

 

 

 

 

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Come si usa dire: sono nuova nel fandom.

Sono appassionata del MCU ed è proprio da questo che ho preso spunti/ispirazioni/riferimenti per scrivere questa storia. Va anche detto, però, che alcuni dettagli li traggo anche dal mondo dei fumetti, perché mi piace arricchire di particolari e cercare di tenere ben salde fra loro le cose anche quando i film – per un motivo o per l’altro – non affrontano determinati argomenti o legami (vedi quello T'Challa – Klaw, che nei film non viene menzionato ma nei fumetti esiste da sempre).

Comunque mano a mano che la storia prosegue cercherò di spiegare le cose meglio che posso, tentando di evitare possibili spoiler.

Infine, perché una storia su T'Challa. Principalmente perché amo il suo personaggio e poi perché finalmente grazie anche al MCU l’ho potuto vedere al cinema. So che in Civil War si rende abbastanza antipatico, ma il T'Challa di cui vado pazza io è quello dei fumetti che confido “esca” in tutta la sua fiera meraviglia nel film dedicato a lui che già non vedo l’ora di vedere.

A ogni modo, spero che questo lavoro vi piaccia, almeno un po’. Non avendo mai scritto nulla del genere ci sono buone possibilità che abbia sbagliato tutto.

 

MadAka

 

  
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