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Autore: lubitina    06/11/2016    0 recensioni
La Terra brilla, blu, silenziosa e lontana, negli oblò delle città-pozzo lunari. Molto, moltissimo tempo addietro, l’ultimo essere umano ha camminato con gli Dei, calcato l’erba del Giardino. Nessuno, degli abitanti delle colonie del sistema solare, conosce le ragioni di quella diaspora; solo in pochi, se ne interessano ancora. All’improvviso, dalle sotterranee grotte del Satellite, ricche d’acqua antica, appare un bambino sporco, macilento, coperto di stracci, cui viene dato nome Prius. Il primo toccato dal TecnoDio. La sua storia si perse nella leggenda, ma non la sua opera: a lui si deve l’EarthSimulator, un mondo parallelo, una realtà virtuale in grado di restituire, a tutti i suoi viaggiatori, la capacità di camminare, di nuovo, sotto il cielo azzurro terrestre.
Anni dopo la geniale invenzione, G., mentre dorme, al sicuro, nella sua camera-della-vita, è al comando di un piccolo gruppo di disperati, nascosti nei boschi della fu Europa centrale. Loro sacra missione, suggellata con un patto di sangue, è comprendere le ragioni della Diaspora. Dal folto degli alberi, appare un uomo. Uno sconosciuto, i resti di una tuta ad alta tecnologia a coprire il corpo martoriato. Chi è?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Risultati immagini per jodorowsky incal
Salve! Innanzitutto grazie a coloro che leggono la mia storia; mi rendo conto che non si tratta di un capolavoro, ma è comunque gratificante sapere che qualcuno apprezza <3. L'immagine qua dopra è tratta dal mio fumetto preferito, l'Incal di Jodorowsky e Moebius, che è stata la primaria fonte di ispirazione per il mondo in cui la storia di G. si svolge. Questo è un capitolo un po' di transizione. Ad ogni modo, buona lettura :D 

G. non si aspettava di venir scollegata così bruscamente. Un attimo prima era immersa nella foresta boreale, ed ora era solamente una viaggiatrice, comodamente sdraiata nella sua camera-della-vita. Sospirò, e premette il pulsante di apertura dell’apparecchio, appositamente installato sotto l’indice destro dell’utente. Aria carica di vapore acqueo fuoriuscì dall’abitacolo, e G. avvertì sulla pelle il pizzicore del freddo che regnava nell’appartamento. Gettò un’occhiata al display del termostato: 14 gradi celsius.
Guardò l’ora. Non si sarebbe mai abituata a quella sensazione. Il tempo nell’E-sim scorreva diversamente: era proprio quello ciò che lo rendeva affiancabile alla vita lunare.
Si era invece abituata allo shock sensoriale. Veniva così definito, nel manuale d’uso della camera della vita, l’improvviso rientro nella realtà sensibile, ed il temporaneo eccesso di input di stimoli. Odori pungenti da far male, immagini nitide, freddo o caldo intensi. La sua era una camera della vita dal modello basilare, e non prevedeva una fase di pre-ritorno. Una volta, aveva sentito dire di un uomo che non era più stato in grado di distinguere, con precisione, la ruvidità degli oggetti. Che, insomma, aveva perso il senso del tatto. Se ne era accorto quando, al buio della notte, cercando a tastoni il dispenser dell’acqua, aveva finito per infilare la mano nel tubo pneumatico di collegamento. Rimettendoci l’arto. G. pregava ogni volta di ritornare alla Luna sana, nella sua interezza mentale e sensoriale.
G. uscì dall’abitacolo, tremando di freddo. Impostò il termostato a 25 gradi, sperando che avrebbe fatto in fretta.  Avvertiva distintamente le tante piccole protuberanze che si erano formate sulla sua pelle, per il freddo, e la pressione contro le gengive dei denti, ogni volta che le arcate sbattevano. In piccole ondate, il gelo correva dalle braccia alle gambe, esaurendosi alle caviglie. Nell’attraversare l’appartamento, dovette evitare tutti gli oggetti che, nel suo disordine, aveva disseminato in giro. Si appuntò, mentalmente, di dover assolutamente riordinare una volta tornata da lavoro.. A terra, in un angolo, vicino al frigorifero, c’era, in bella vista, eppure non l’aveva mai notata prima, quella collana di zaffiri artificiali che andava cercando da giorni. Raccolse dal letto una coperta, e se la drappeggiò addosso. Rimase accanto al calorifero per qualche istante, finché i brividi cessarono. Si stropicciò poi gli occhi con il dorso della mano, cercando disperatamente di svegliarsi del tutto. All’improvviso, avvertì un brontolio allo stomaco, che quella pancetta cotta sul falò non era stato in grado di saziare. Erano più di dodici ore che non mangiava, nella prima vita. Sulle punte, saltellò fino al frigorifero e lo aprì. La luce illuminò una serie formidabile di ortaggi, formaggi, frutta, dolci di vario genere (prevalentemente contenenti neo-cacao), e numerose bottiglie di syn-latte a lunga conservazione. Il latte bovino era un lusso che pochi potevano permettersi, ed i suoi buoni cibo non le permettevano di acquistarlo. Ancora, sghignazzò, al pensiero del nuovo progetto che aveva in cantiere a lavoro. Si versò una tazza di latte e prese un croissant dalla dispensa, inzuppandolo nel liquido candido, prestando attenzione a non farne cadere neppure una goccia. G. aveva sempre adorato mangiare. Appena ricevuto il primo stipendio del Laboratorio, non aveva badato a spese, e si era diretta, con la omni-carta serrata nella mano destra ed un gioioso sorriso stampato in volto, ai Grandi Magazzini Tranquillitatis. E lì, non aveva badato a spese. Acquistò perfino un nuovo freezer, non conscia che ciò avrebbe significato sacrificare il tavolo della cucina del suo infimo appartamento, per infilarci tutto il cibo che aveva acquistato. Ricordava ancora il sapore della farina di grano lievitata, “ottenuta con puri chicchi di Triticum vulgare originario coltivato nelle nostre serre” (ed, in piccolo, “coltivazione GM presso Cratere Plinius”), e l’aura mistica che il profumo del caffè donava alla casa, mescolato all’aroma del vero burro da latte bovino spalmato su fette di vero pane. Il croissant, dopo pochi morsi, era già terminato, e G. si ritrovò, sovrappensiero, a guardare la sua mano, ormai vuota: era rosa, abbastanza piccola, e con unghie ben curate anche se tenute corte, per via del suo Lavoro. Chissà che se ne sarà mai fatto dell’altra mano, quel tizio, pensò. Se non si ha coscienza del tatto, di ciò che si ha intorno, come si fa a essere consci di non fluttuare nel vuoto?  Orride immagini di portelli stagni e corpi coperti di veli le piombarono in mente. Scacciò il pensiero, ma si ripromise di riflettere su quel punto. Sul terrore del vuoto.
G. lanciò poi la tazza nel lavabo, centrandolo in pieno. Sorrise a se stessa, ed alla sua ottima mira. Beh, certo non come quella nell’E-sim.
G. sgattaiolò fino alla doccia, accendendo l’acqua al massimo. Sbuffò, quando si accorse di non aver neppure ricaricato l’acqua calda: gliene rimanevano solo dieci minuti al massimo getto. Come ogni mattina, G. fece la doccia, si lavò i denti, indossò l’uniforme (non mancò di notare che, anche in quel caso, aveva dimenticato qualcosa: la camicia non era stirata), si truccò leggermente, indossò le scarpe magnetiche. E come tutte le mattine in cui si risvegliava dall’esperienza E-sim, rimase per un po’ a fissare il proprio volto.
Non esistevano specchi nell’E-Sim. Pena, l’eliminazione dell’account neurale, il che, valeva a dire, che non esisteva in alcun modo la possibilità di tornare sul Pianeta. Mai più. Il preciso fingerprinting delle onde cerebrali del viaggiatore era registrato al momento dell’Incipit, ed era, ovviamente, impossibile da cambiare. L’aspetto del proprio avatar, era, dunque, visibile solo al momento della sua creazione: l’Incipit, infatti, consigliava di imprimere bene in mente i lineamenti, il corpo, lo sguardo che si erano scelti, perché quell’aspetto avrebbe potuto determinare fin troppe cose, nella seconda vita.
G. amava pensare di aver creato un avatar somigliante a se stessa da grande, quel giorno lontano anni. Credeva di esserci riuscita. Occhi azzurri, grandi, naso con qualche lentiggine, e neanche troppo grazioso, labbra carnose e bocca piccola. Pelle pallida, ma guance rosse, segno di salute. Impiegò più del solito per quelle cure mattutine, quel giorno.
Infine, diede un’ultima occhiata al suo appartamento. In quello stesso spazio angusto, troppo piccolo per tre persone, aveva vissuto per tutta la prima vita, e conosciuto l’Incipit. I suoi genitori le avevano dato tutto l’amore di cui erano stati capaci, compreso quel regalo, di cui, lei, aveva avuto tanto terrore, che ora campeggiava nel soggiorno, davanti allo schermo dell’omnivideo.
Aprì il portello ed uscì, ritrovandosi nel corridoio del condominio della città pozzo in cui abitava. Controllò l’ora, e, cazzo, era in ritardo: mancavano meno di venti minuti all’apertura del Laboratorio. Avrebbe dovuto prendere un taxi: la frequenza di transito della metropolitana, alla sua fermata, era troppo bassa per arrivare in tempo.
Digitò sull’omnitool (lo teneva al polso destro, come avveniva nella seconda vita) la richiesta, mentre entrava nell’ascensore pneumatico. Nell’abitacolo non c’era più gravità artificiale, e G. si dovette aggrappare, come tutte le mattine, alle sbarre fissate lungo il perimetro del parallelepipedo. Le pareti erano a specchio, e G. diede un’ultima controllata al suo aspetto. Giacca verde, gonna verde, calze verdi, camicia e scarpe col tacco bianche. Capelli tenuti lunghi, legati da un nastro di raso verde. Era quella, l’uniforme delle Ricercatrici.
In una ventina di secondi, l’ascensore giunse al 43 esimo livello della Città, ossia quello in cui terminavano le zone abitative ed iniziavano le zone di lavoro. G. sospirò, uscendo dall’abitacolo, e fu investita dall’odore dell’Umanità: centinaia, forse migliaia, di persone, transitavano lungo la Via Galilei, il lungo camminamento che, dagli ascensori delle zone abitative, connetteva al centri di lavoro. L’enorme corridoio si apriva poi in una gigantesca cavità, una grotta dal soffitto alto più di cinquecento metri, volontariamente lasciata spoglia, se non per le migliaia di persone che vi transitavano: piazza Leonardo da Vinci. Da lì si diramavano le metropolitane e le arterie dei Rami, come braccia delle antiche stelle marine, che conducevano alle sezioni funzionali della città pozzo. Dalla sua posizione, G. riusciva a scorgere, in lontananza, una soluzione di continuità nell’altrimenti infinita via metallica e multicolore.
G. attendeva il suo taxi, guardando sfilare, di fronte a lei, nelle corsie riservate ai pedoni, persone su persone, differentemente vestite e più o meno indaffarate e di corsa. Alcuni si lanciavano nelle scale per la metropolitana; altri (in genere severamente multati) azzardavano a togliersi le scarpe magnetiche e a svolazzare giù, dandosi la spinta contro le altre persone e profondendosi in mille “Scusi, vado di fretta”. In quella città pozzo abitava circa un milione e mezzo di umani, più un numero indefinito di androidi e ominidi di servizio, losche figure sotterranee a cui G. cercava di non pensare.
Accanto a lei venne a depositarsi, fluttuando delicata fino a terra, la bancarella in fibra di carbonio di un venditore di custodie di omni-tool. La donna, dietro al bancone, aveva un bel colorito blu acceso, un insano segno di intossicazione da Sali di argento, evidentemente molto diffusi nell’acqua della zona del Satellite da cui proveniva. Le custodiette di plastica, di mirabolanti colori e fogge, si abbinavano perfettamente all’incarnato cobalto. G. si avvicinò, e la donna le rivolse un bel sorriso di denti candidi su gengive violacee, cui G. rispose arricciando gli angoli delle labbra; indicò una custodia rosa acceso, coperta di brillantini, e tirò fuori dalla tasca i quattro crediti. Lasciò cadere le monete nella mano blu, protesa in avanti, della donna, che si inchinò leggermente, profondamente grata. Qualche buona azione non guasta mai.. o così almeno le avevano insegnato Mamma e Papà. Montò la custodia all’omnitool al polso destro, e notò con piacere il contrasto kitsch con l’uniforme verde, gongolando.
Passò qualche minuto. Un taxi le sfrecciò davanti, senza fermarsi. G. digrignò i denti e lanciò qualche improperio sottovoce. Si sentiva, improvvisamente, tesa e nervosa. Le immagini della notte passata sul Pianeta le erano rimaste impresse nella mente, soprattutto il volto di quell’uomo, del bel sconosciuto. La straniante sensazione di concretezza, al tatto, sulla sua pelle straziata. Era affascinante. Chissà come sarà la sua voce.. E la sua storia? Da dove viene? Chi l’avrà ridotto così? Alzò gli occhi al cielo, cercando di calmarsi e di controllarsi, ma il soffitto artificiale del Galilei non la aiutò: quel giorno il cielo era nuvoloso, plumbeo, feroce, e qualche lampo saettava tra le nuvole artificiali, stratificate in più ammassi scuri accavallati gli uni sugli altri. Quel cielo era stato creato per funzionare tramite un algoritmo basato sulle emozioni complessive provate dalle persone che lo percorrevano, le molecole volatili espulse e la frequenza degli impulsi nervosi, ed era, così, uno specchio del benessere dei Cittadini. G. l’aveva sempre odiato. Si sentiva spiata, da quel cielo falso a volte solare e sorridente, ed altre, buio e livido: detestava vedere quelle nubi così vicine, ma intoccabili, perché fatte d’illusione. Nelle notti più serene, quando tutti, nei piani inferiori, della città-pozzo, dormivano felici, il cielo era carico di stelle, puntini bianchi trapuntati su velluto nero. Conosceva di vista la persona che aveva progettato i biosensori implicati nel fenomeno, e rabbrividiva al solo pensiero di dover avere, prima o poi, con lui un altro colloquio. Un uomo, fin troppo anziano e rugoso, con occhietti gialli da felino che saettavano rapidi lungo il volto, il corpo, le mani, dell’interlocutore, e lo scrutavano, indagavano, formulavano ipotesi, ed, infine, giudicavano.
Un ultimo lampo saettò lungo il celo plumbeo, andandosi, apparentemente, ad esaurire contro un chiosco di syn-hotdog. L’ometto, incerata bianca unticcia sopra il pancione, intento a cuocere le sue salsicce, rimase totalmente indifferente all’aura di luce che lo illuminò per qualche istante.
Il taxi di G. arrivò mentre lei si slacciava le scarpe magnetiche e si preparava ad una corsa verso la Metropolitana. Caracollò fino alla portiera della vettura, e si lanciò dentro, sedendosi goffamente nel sedile posteriore. Il tassista, un uomo dalla pelle scura sui, forse, trent’anni, represse, fin troppo palesemente, una risatina.
-Andiamo di fretta stamattina, eh?,- cominciò, allegro, l’autista, con G. che sbruffava smanettando con i cinturini delle scarpe.
-Sì, ho fatto tardi. Mi porti al centro Biomedico del Ramo Pauling. Il più velocemente possibile. ,- E, G, lapidaria, disse il tutto senza la benché minima inflessione nella voce. O almeno ci provò.
-Ma come siamo severi! Subito, signorina!
L’uomo premette l’acceleratore ed il taxi si levò delicatamente dal pavimento di pietra lavica della Strada Galilei, e puntò diretto verso le nubi cupe sovrastanti. G. si era, ormai, abituata alla vista di cui si poteva godere dal finestrino. Di quelle nubi minacciose che non sembravano avvicinarsi né finire mai, e le persone, le insegne della Metropolitana, che diventavano sempre più piccole, come giocattoli coloratissimi. A volte G. si domandava se il mondo fosse davvero così piccolo, agli occhi di qualche gigante, come lo si vedeva dall’alto della corsia dei taxi, che puntavano verso nubi false e cieli inarrivabili.
Ed infine, quando ormai il taxi era giunto alla corsia di crociera, il traffico. Tanti, tantissimi, altri taxi di mille colori e forme, slanciate, squadrate, rotondeggianti, che si incolonnavano alle diverse uscite della strada Galilei, o che facevano a gara per inserirsi nel traffico aereo della piazza da Vinci. Incredibilmente, notò G., quel giorno non si era al collasso, e allungando un braccio fuori dal finestrino non sarebbe riuscita a toccare un’altra vettura. Il che, la rilassò. Forse, aveva ancora qualche chance di arrivare in orario in laboratorio, se avesse tagliato per la via più breve.
-Passi per la Piazza Grande. Usi la corsia di sorpasso.
L’uomo, invisibile a G. se non per gli occhi riflessi nel piccolo riquadro dello specchietto posteriore, sbuffò. –questo le costerà un supplemento. Credo lo sappia bene..
-Sì, lo so. Lo faccia.
-E va bene,-mormorò il tassista, schiacciando l’acceleratore e svoltando rapidamente a sinistra, sulla semivuota corsia di sorpasso. Questa, era, infatti, a pagamento. Al solo ingresso in essa, venivano automaticamente scalati crediti all’utente del taxi in base al tempo in cui vi si restava. Città parassita di merda, pensò G, guardando i centesimi di credito diventare unità sul tassametro rosso.
Rapidamente, col vento che entrava dal finestrino aperto ad accarezzarle la faccia ed a farle appiccicare i capelli svolazzanti al rossetto, avanzarono verso piazza da Vinci.
La vista di quell’enorme spazio aperto, a G. , che non era abituata alle Passeggiate, la lasciava ogni volta estasiata. La strada Galilei, che era pure comunque larga almeno cinquanta metri, si apriva in una gigantesca emisfera sotterranea: la corsia dei taxi si trovava circa cinquecento metri più in alto rispetto al livello del suolo, e, sporgendosi dal finestrino e guardando in alto, si potevano distinguere le differenti sfumature di grigio del granito lunare che componeva il soffitto della calotta. L’illusione del cielo della strada Galilei non era stata ancora installata nella piazza, e G. sperava con tutto il cuore che mai lo sarebbe stata. Enormi pilastri di roccia grezza si dipartivano da essa e raggiungevano il terreno, pronti a sorreggere il soffitto. Su di essi erano montati enormi schermi pubblicitari, che lanciavano muti slogan contenenti donne sorridenti pronte a promuovere il nuovo articolo di moda o il nuovo modello di camera della vita dell’Azienda. Fra tutti, spiccava il maxischermo che, a rotazione, mandava immagini provenienti dal nuovo aggiornamento dell’E-sim, che aveva implementato dei Fari posizionati nelle zone artiche: gelide lande desolate, perfettamente bianche, illuminate da un pallido e stanco sole giallo, ed, in lontananza, montagne ed ancore montagne aguzze spruzzate di neve ghiacciata, delicata come glassa. Ad un certo punto, il video zoomava su di un monte da cui fuoriusciva un denso fumo grigio, ed, ancora più vicino, zampillii di lava rossa ed arancione; sulle pendici di esso, arroccato ed indistruttibile, un Faro. Cilindrico, metallico, perfetto, con solo una porticina alla base a segnalarne l’utilizzo dedicato agli esseri umani. Montagne, ed ancora montagne, laggiù in Antartide, e lande pallide. Il mondo era davvero enorme, nell’E-sim.
-Sa, io a quella roba non ho mai acceduto. Un mio amico ha provato a farmi usare la sua camera della vita, ma io me ne frego di queste cazzate. Non ho intenzione di sprecare ore del mio prezioso sonno a soffrire più di quanto non faccia qua, sulla Luna.
Le parole dell’autista, dirette e chiare, riportarono G. sulla Luna, cancellando in un baleno le immagini di lande pallide e desolate. –Ad ognuno le sue idee,-ribatté G., senza molta convinzione. –Io lo trovo molto rilassante.
L’uomo fece spallucce, e svoltò a destra a prendere l’uscita verso il Ramo Pauling. Il tassametro segnava già 50 crediti. Incredibilmente, la via principale del Ramo era sgombra. Non è un buon segno, è tardi, pensò G. mentre sentiva il battito cardiaco accelerare e la pressione arteriosa colare a picco. Agitazione.
-Senta,-disse all’improvviso,-secondo lei, cos’è successo alla Culla?
Gli occhi dell’uomo si mossero, sul riquadro dello specchietto, a cercare l’interlocutrice. –Sa, non mi aspettavo una domanda del genere da lei, anche se, devo dire, in molti me la pongono. Probabilmente è uno dei migliori argomenti di conversazione con i tassisti, molto meglio dell’esaurimento di questo o quel giacimento di palladio o della dismissione di questo o quel reattore elio-3.. Ad ogni modo, ed è libera di non crederci, beninteso, io sono un Credente. Sono una persona abbastanza ordinaria,-e rise, di gusto, per qualche secondo,- e credo, fermamente, alla versione che i nostri avi ci hanno tramandato. Un bel giorno, insomma, gli Dei hanno deciso che era arrivato il momento che l’umanità se ne andasse, prima di fare danni irrimediabili al Giardino. E così, non hanno più camminato con la prima Umanità. Li hanno abbandonati, ma con ciò hanno dato loro fiducia per l’ultima volta: riuscirete a camminare senza di noi che reggiamo le vostre mani? Ora, che siete liberi, che cosa farete? Ed hanno visto quanto sarebbero potuti durare, senza di loro. Di lì a poco, guerre e malattie li hanno decimati. I sopravvissuti hanno racimolato le ultime tecnologie che gli Dei hanno lasciato sul pianeta prima di tornare alle stelle, e con esse sono fuggiti sul Satellite ed hanno fondato le città pozzo. Fine.
G. rimase in silenzio mentre l’uomo accostava davanti al centro Bio medico Pauling. Contò 65 crediti dal portafoglio e li porse all’uomo. Quello controllò e si infilò le banconote in tasca. G. scese dalla macchina, stranamente calma.  –Sta dimenticando una parte,-disse, infine, piano, guardando per la prima volta l’anonimo volto scuro del tassista, -Quella in cui il TecnoProfeta Prius predice il Loro ritorno.
G. si voltò senza attendere risposta. Non le serviva. Aveva conosciuto tanti Credenti, e tutti, nessuno escluso, le avevano raccontato quella versione. Il mondo è davvero piccolo, nella città pozzo.
  
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