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Autore: Youth_    06/11/2016    3 recensioni
La mente distrugge le nostre illusioni, ma il cuore le ricostruisce da capo.
Paul Rée
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Silver eyes

Ogni città ha una sua bellezza. Le sue distese di verde lussureggiante, i suoi marciapiedi accarezzati dalle foglie; le insegne dei suoi pub aperti ogni sera, circondati dall’aura delle luci psichedeliche; il profumo del pane appena sfornato dal panificio sotto casa, appena l’alba accarezza le pendici dei monti.

Ma ogni città ha anche i suoi lampioni mal funzionanti, le sue strade impervie, l’odore di terra bruciata, le macchine dimenticate nei parcheggi dietro il bingo, l’autogrill dal pavimento lercio.
Ogni città ha quel condominio protetto da un cancello arrugginito, marchiato dalle scritte sui muri, con le lettere sembrano piangere le sbavature della vernice spray, come ce l’aveva quella strada di Daegu di cui nessuno si ricorda mai il nome.

Era abitato da uomini e donne dalla veneranda età, che vivevano nel silenzio scandito dai fischi della moka del caffè, in attesa più o meno cosciente di quella domenica di marzo in cui qualche parente avrebbe portato loro qualche pasto caldo, spacciato per fatto in casa, recuperato dal take-away più vicino, con i ravioli secchi e la busta che sapeva ancora di riciclato.
Jeon Jungkook ci passava davanti, ogni giorno, da cinque anni a quella parte, nonostante per quattro di essi non si fosse mai accorto della sua esistenza; era la strada più tranquilla, dal suo appartamento nel quartiere alto, fino alla stazione, dove lo aspettava il treno che lo avrebbe condotto all’università.
Col cappuccio della felpa calato sulla testa, più o meno volontariamente, i suoi occhi correvano alla finestra del terzo piano dell’edificio. Era sempre semiaperta, con l’anta a ribalta che sembrava sul punto di cadere; ma era l’unica che fosse stata abbellita con delle tende bianche.
Così Jungkook si fermava, ogni mattina, ad osservare il profilo di un ragazzo chino su una scrivania, assopito. Di solito un braccio pendeva, l’altro era malamente appoggiato al legno, a coprire un quaderno, ed una singola penna. Cercava di indovinarne gli occhi, gli zigomi, il colore della pelle, il profumo dei capelli.
Dalla sua povera osservazione, aiutato dalla luce di un’abat-jour dimenticata al lato destro dello scrittoio, riusciva a vedere solo le sue labbra dischiuse, piegate in un sorriso sbilenco, il viso dai tratti morbidi, e la zazzera di capelli color lavanda.
Poi se ne andava, chiedendosi se avesse veramente visto ciò che credeva.
A volte, non tornava.

Kim Taehyung sapeva riconoscerlo, anche in mezzo alla nebbia del primo mattino, quando il sole non è ancora abbastanza misericordioso da dissipare le ambiguità che la notte trascina con sé. Conosceva il modo in cui i suoi capelli corvini gli cadevano sulla fronte, ancora umidi dalla doccia del mattino, o almeno così immaginava. Doveva fare sempre uno sforzo enorme, per mantenersi perfettamente immobile sotto lo sguardo inquisitorio di quel ragazzo anonimo. La presenza di quell’insulsa costante nella sua vita lo incuriosiva, più che insospettirlo.
Socchiudeva gli occhi, quando sentiva un suono distinto di scarponi militari affondare nelle buche dei marciapiedi, o negli specchi d’acqua regalati dalla pioggia, in quella strada dove non succedeva mai nulla, cercando di non farsi scoprire, perché quella relazione muta gli piaceva, dopotutto.
Dopo qualche minuto, il fantasma se ne andava, lasciando una punta d’amaro nella bocca secca del ragazzo, che non riusciva a trovare una risposta ai suoi dubbi su quella presenza.
Non aveva mai provato neanche ad affacciarsi dalla finestra, per vedere quel corpo esile svoltare alla prima curva a sinistra, verso la stazione.

Jeon Jungkook prendeva il treno delle sei e mezza.
I suoi compagni di corso, che conoscevano la sua routine, non potevano non considerarlo uno sciocco, poiché avrebbe potuto dormire di più, piuttosto che arrivare all’università con due ore di anticipo. A rafforzare le loro lamentele circa il pessimo umore del ragazzo prima di una buona dose di caffè, Namjoon non perdeva mai l’occasione di commentare i cerchi violacei che gli affossavano gli occhi, punzecchiandolo sulla sua scarsa abilità nell’uso dei cosmetici.
Jungkook, per tutta risposta, si sarebbe avviato verso il giardino più vicino, preferendo finire la sua ciambella in compagnia dei piccioni, scrutando avidamente i passanti, senza ammettere nemmeno a se stesso che sperava di riconoscere tra loro quella disordinata chioma lilla, quel sorriso dolce che infestava occasionalmente i suoi pensieri.
Poi, puntualmente, sentendosi in colpa per aver lasciato gli amici nel bar così di malo modo, tornava sui suoi passi, rinvigorito dalla caffeina, per poi ricompensare con un pranzo a sue spese.

Kim Taehyung odiava la stazione.
Lo ribadì con particolare enfasi quella mattina alle sette e mezza, quando il suo coinquilino Park Jimin gli consigliò di affrettarsi, per prendere il treno delle otto insieme a lui e arrivare sul nuovo posto di lavoro in perfetto orario.
«Ci vado da solo» rispose l’altro, irremovibile, mentre sciacquava i piatti sotto il lavello: «Non ti preoccupare per me»
Jimin, ovviamente, sbuffò; si mise gli auricolari nelle orecchie, lamentandosi di come la colazione cucinata del ragazzo gli fosse indigesta (nonostante non si facesse problemi a lasciare solo le briciole delle frittelle), e uscì con la sua ventiquattrore.
Taehyung occupava il bagno per un’ora ogni mattina, nonostante ne uscisse sempre parecchio trasandato; tardando tra un pensiero e l’altro, l’acqua del rubinetto scorreva indisturbata mentre si faceva passare la saponetta tra le mani, o mentre distribuiva troppo dentifricio sullo spazzolino.
Pensava, tra le tante cose, ai sogni che trascriveva su quel buffo quaderno recuperato da una cartolibreria nel centro, dalla copertina color blu notte. Era un’abitudine che si protraeva ormai da tre mesi, e si stupiva di come ne stesse fiorendo una storia intrigante o, come aveva detto Jimin, “materiale da pubblicazione”.
Ciononostante, le sue fantasie vennero interrotte da una visione diventata ormai ripetitiva; il pallido ricordo dello sguardo del ragazzo del marciapiede. Non lo scacciò, bensì si cullò in quella incertezza, trovandovi un ingenuo conforto, associato alla speranza di dare un nome, a quel viso.
Poi uscì, arraffando una camicia, un paio di jeans bucati, e quelle scarpe da ginnastica che risalivano ai tempi del liceo. Si ficcò un cappello in testa, per coprire le orecchie dal gelo della prima mattina, e fedele alla sua presa di posizione, scese al parcheggio, per riacchiappare la sua vecchia bici, legata all’inferriata da un catenaccio.
Pedalò per le strade della città, fino al centro, dove lo aspettavano solo i rimproveri del suo ritardo, una scopa e i corridoi di un’università.

Il corso finiva a mezzogiorno, ma sembrava durasse un’eternità. Jungkook aveva deciso che, piuttosto che ascoltare, avrebbe sbuffato, convinto del fatto che il tempo, in questo modo, sarebbe passato più velocemente.
Namjoon lo osservava ridendo, scribacchiando su un foglio battute poco lusinghiere nei confronti della studentessa seduta in prima fila; le passava ad Hoseok, che inevitabilmente si beccava un rimprovero per eccessiva rumorosità; Yoongi, dal canto suo, cercava di sottrarle alle mani dei curiosi, dicendo che le considerava orribili, nonostante le conservasse nell’astuccio.
Jungkook diede un’occhiata all’orologio; ancora dieci minuti.

«Può cominciare da qui»
Kim Taehyung arricciò il naso, mentre si arrotolava le maniche della tuta da lavoro, gentilmente offertagli dalla signora che lo aveva guidato fino a quel punto, la terzo piano della struttura.
«Devo pulire tutto il corridoio?»
«Anche le finestre. Appena ha finito passerà ai bagni»
L’allettante proposta aumentò decisamente il buonumore del ragazzo, che aveva dovuto subire una sfuriata dal direttore dell’università (un uomo dall’improbabile colore dei capelli e dalle labbra bluastre, che lo aveva messo in imbarazzo di fronte a tutto il personale) per il suo cronico ritardo.
«Veda di non tardare così tanto la prossima volta, la prego» ribadì la segretaria, come se avesse indovinato i suoi pensieri.
«Beh, quaranta minuti non sono così gravi, no?» ribatté quello, sfoggiando il suo sorriso quadrato.
La signora arrossì, liquidando la domanda in fretta e avviandosi verso il piano inferiore.
Taehyung scrollò le spalle, deciso a non farci troppo caso.
Presto avrebbe smesso di doversi accaparrare un lavoretto per mantenersi. Si ripeteva ogni giorno, positivamente, che per una volta stava facendo la cosa giusta, che quella piccola creazione che lo aspettava sulla scrivania di casa sua sarebbe stata la sua fortuna.

Un sonoro scalpiccio interruppe il corso dei suoi pensieri.
Era appena scoccato mezzogiorno; gli studenti, reduci da una lezione di letteratura straniera, si affrettarono ad uscire dall’aula, lanciando urla di gioia all’allettante prospettiva del pranzo.
Taehyung chinò il capo, vergognosamente, sperando quasi di non vederli, nei loro bei completi, con i libri sottobraccio, il sorriso di chi ha ancora tutto il mondo in mano. Si concentrò, piuttosto, su una macchia di caffè che infestava il pavimento.



Jeon Jungkook avrebbe attraversato quei corridoi mille volte, altrettante quante Kim Taehyung li avrebbe ripuliti. Il primo sarebbe stato circondato dai suoi amici, dagli schiamazzi, e se ne sarebbe fregato di quella figura anonima in divisa azzurrina con lo straccio in mano, inciampando sulla paletta e ridacchiando quando quello si precipitava a raccogliere di nuovo i cumoli di polvere.
Il secondo sarebbe stato chino verso terra, a schivare gruppi di ragazzini insolenti, che avevano avuto una fortuna in più rispetto a lui, e i suoi occhi non sarebbero mai andati più in là dello sporco che incrostava le mattonelle.
Eppure erano gli stessi che si sarebbero desiderati, quella sera, a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, senza sapere nulla di loro, fermi nella reciproca inesistenza, eppure attratti da quello stesso nulla; il primo in piedi, da dietro il cancello, il secondo fingendosi addormentato su una sedia troppo piccola.
Ci incontreremo? E se sì, forse, un giorno, ci ameremo?



Note “dell’autrice”

Ebbene sì, sono tornata. Mi discosto dalle mie amate serie tv e dai miei libri per pubblicare il mio primo tentativo di one-shot a tema kpop, passione nata quest’estate e della quale non riesco più a liberarmi.
So che questa storia, che dovrebbe essere una VKook, si basa su una pura illusione, ma sono un’amante di questo genere, quindi spero che piaccia anche a voi.
Il titolo, Silver eyes, viene dalla canzone “Silver”, dei The Neighbourhood, che ormai da quasi due anni occupano segretamente gran parte delle mie playlists.
Ultima nota, ma non per questo meno importante: queste righe sono tutte dedicate alla mia compagnia di (dis)avventure Dasha, per la quale ho scritto molto più di quanto mi accinga a pubblicare qui, sfortunata vittima delle mie storie tanto promesse, e quasi sempre, mai ultimate.
사랑해! 
 
   
 
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