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Autore: Chiales    06/11/2016    1 recensioni
"‘Fa’ come se fossi a casa tua’
Era un modo di dire che, in quella situazione, irritava non poco Masaki.
Se fosse stato a casa sua avrebbe avuto con sé i suoi genitori, nella sua stanza, senza dover avere a che fare con sconosciuti che fingevano di essere gentili.
Quella non era casa sua e non lo sarebbe mai stata"
Masaki Kariya non sapeva che di lì a poco si sarebbe dovuto ricredere.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bryce Whitingale/Suzuno Fuusuke, Claude Beacons/Nagumo Haruya, Jordan/Ryuuji, Kariya Masaki, Xavier/Hiroto
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Taiyou ga kagayakimasu
~太陽が輝きます~

 

Masaki aprì la portiera e, senza neanche alzare lo sguardo, scese dall’auto scura.
La pioggia batteva pesantemente sul suo corpicino, ma il seienne non sentiva nulla.
Davanti ai suoi occhi continuavano a passare le stesse immagini: i volti contorti dalla disperazione dei genitori, consapevoli del fatto che la loro situazione era senza speranza.

Masaki era piccolo, ma non era stupido, aveva capito che qualcosa non andava dal giorno in cui il padre era tornato dal lavoro con il viso talmente pallido da non sembrare in grado di reggersi in piedi. Sua madre era corsa subito a chiedergli che cosa fosse successo e l’uomo, senza dire nulla, l’aveva portata in cucina e aveva chiuso la porta dietro le loro spalle, in modo che il figlio non potesse sentire nulla.
Questa precauzione, tuttavia, si rivelò del tutto vana.
Pochi secondi dopo, infatti, l’urlo della donna squarciò il silenzio tombale che si era creato nella casa. Non sembrava arrabbiata, piuttosto incredula.
Masaki non sapeva esattamente cos’era successo, tutto quello che aveva capito era che per dei problemi lui avrebbe dovuto andare via dalla sua casa.
Il turchese aveva pianto, aveva urlato, aveva pregato con tutte le sue forze i genitori di non mandarlo via, aveva detto che avrebbe fatto il bravo, che non avrebbe più fatto capricci. La mamma di Masaki lo aveva abbracciato dicendogli che non era colpa sua e che gli avrebbe sempre voluto bene, ma che non poteva restare con i genitori.

L’uomo che lo aveva condotto fino a lì lo coprì con il proprio ombrello e gli fece cenno di camminare.
Dalla parte opposta della strada si trovava un edificio costruito su più piani.
Davanti si poteva vedere l’insegna “Ohisama En”.
‘Giardino del sole, eh?’ pensò Masaki con ironia osservando le gocce di pioggia che si infrangevano sul suolo.

Una volta arrivati davanti alla porta d’ingresso, l’uomo suonò il campanello e, dopo qualche secondo sull’uscio apparve una donna dai lunghi capelli corvini.
“Questo è Masaki Kariya” disse l’uomo.
La donna spostò il suo sguardo verso il ragazzino, che continuava imperterrito a fissare il pavimento.
“Capisco” replicò lei “Grazie per averlo portato, mi prenderò cura di lui”
“Grazie, Signorina Kira”
La donna aprì un poco la porta e fece segno a Masaki di entrare.
Il ragazzo, consapevole di non avere altra scelta, si avvicinò alla corvina.
L’uomo, dopo un ultimo inchino, fece ritorno alla macchina, mentre la Signorina Kira chiuse la porta.

All’interno l’edificio era accogliente, caldo e illuminato, ma questo non bastò per convincere Masaki.
“Dai, vieni”
La donna lo condusse dall’ingresso alla sala da pranzo, una stanza in stile tradizionale giapponese da cui si poteva accedere al giardino.
“Io sono Hitomiko Kira” si presentò lei.
All’assenza di risposta da parte del seienne, la corvina chiese “Vuoi del tè?”
Il turchese scosse la testa. Alla Signorina Kira non importava, pensò Masaki, era gentile solo perché era il suo lavoro.
“D’accordo. Vuoi qualcosa da mangiare?”
Di nuovo il bambino diede una risposta negativa.
La donna, allora, lo invitò a sedersi di fronte al tavolino che era posizionato in mezzo alla stanza.
Masaki, però, non si mosse.
“Sei stanco?”
Il bambino ci pensò per qualche secondo, per poi annuire.
Aveva passato tutto il giorno prima a fare le valigie e ad ascoltare i genitori ripetergli più e più volte che sarebbe andato in un bel posto, dove avrebbe potuto fare amicizia con tanti altri bambini.
Masaki aveva notato che nessuno dei due aveva detto quando avrebbe potuto tornare a casa.
“Vieni, ti mostro la tua stanza”
La donna tornò nell’ingresso e salì due rampe di scale, seguita a ruota da Masaki.
“Allora, al primo piano ci sono le stanze delle ragazze, mentre al secondo quelle dei ragazzi” spiegò la corvina.
“Su questo piano ci sono due bagni lì in fondo” continuò indicando la fine del corridoio su cui affacciavano varie porte.
“Oltre alla sala da pranzo, che hai già visto, ci sono un salotto con televisione e vari tipi di console. Fuori c’è anche un grande giardino dove puoi giocare con gli altri bambini”
Masaki non era mai stato una persona particolarmente socievole e la prospettiva di confrontarsi con ragazzini della sua età non gli sembrava molto allettante.
“Questa è la tua stanza. Dovrai condividerla con un altro ragazzo”
‘Grandioso’ pensò il bambino mentre Hitomiko lo portava verso la sua camera.

Una volta entrati, Masaki si guardò intorno per analizzare la stanza.
Era abbastanza spaziosa per due persone; aveva due letti adiacenti a muri opposti e, in mezzo, una finestra. La particolarità era che la camera sembrava divisa in due: mentre una parte era piena di oggetti sparsi sul letto e aveva l’aspetto di una camera appartenente a un bambino, l’altra era completamente vuota.
“Quello è il tuo letto” disse Hitomiko indicando verso il lato spoglio della stanza.
Le sue valigie, che erano state portate via quella mattina, erano state posate ai piedi del letto.
“Ora Taro è a scuola, ma sta’ tranquillo, è molto simpatico. Diventerete subito amici. Fa’ come se fossi a casa tua” detto questo, la donna uscì.
‘Fa’ come se fossi a casa tua’
Era un modo di dire che, in quella situazione, irritava non poco Masaki.
Se fosse stato a casa sua avrebbe avuto con sé i suoi genitori, nella sua stanza, senza dover avere a che fare con sconosciuti che fingevano di essere gentili.
Quella non era casa sua e non lo sarebbe mai stata.
 
*

Dopo un sei mesi all’Ohisama En, Masaki poteva ritenersi fortunato.
Certo, non era il bambino più popolare dell’orfanotrofio e raramente passava del tempo con i suoi coetanei, ma questo non importava. Per la prima volta, infatti, aveva trovato qualcuno che, come lui, amava il calcio.
E non erano solo due o tre, ma una trentina di adolescenti, le cui età andavano dai tredici ai diciassette anni.
rano molto più grandi e più bravi di lui, ma erano sempre disposti a lasciare che Masaki giocasse con loro e gli davano molti consigli per migliorare.

Particolarmente attenti al progresso delle sue abilità calcistiche erano quattro ragazzi, i leader del gruppo: Nagumo, Suzuno, Midorikawa e Hiroto. All’inizio il turchese aveva trovato fastidiose le attenzioni con cui il quartetto, specialmente Hiroto, lo ricopriva, ma, con il passare dei mesi, Masaki aveva iniziato a pensare che, forse, avrebbe potuto fidarsi dei i ragazzi più grandi.

 
*

A sette anni, alla fine del primo anno all’Ohisama En, Masaki si sentiva ferito.
Hiroto era uno sporco bugiardo. Gli aveva promesso di non abbandonarlo mai, ma quello stupido traditore aveva deciso di trasferirsi a Tokyo e studiare in un’università di cui Masaki non si ricordava il nome. Non che gli importasse più di tanto. L’ultima volta in cui si era sentito così era quando i genitori lo avevano lasciato lì per poi andarsene e non farsi più vivi. Non aveva mai pensato che proprio Hiroto, quello che era come un fratellone, gli avrebbe mentito.
Il rosso telefonava quotidianamente e spesso chiamava usando Skype, ma il bambino si era sempre rifiutato di sentirlo, nonostante le insistenze degli altri adolescenti e della signorina Kira.

Durante la prima visita di Hiroto, avvenuta circa due mesi dopo la sua partenza, il settenne decise di ignorarlo, preferendo sgattaiolare fuori senza farsi notare e andare in un campetto vicino, dove si mise a giocare a calcio tentando di dimenticarsi di quel traditore con i suoi stupidi capelli rossi e il suo stupido sorriso gentile con cui era riuscito a ingannare Masaki prima di pugnalarlo alle spalle.
Dopo un paio d’ore Hiroto lo trovò e, prima che il bambino potesse protestare, il rosso abbracciò Masaki, che, in un primo momento tentò di divincolarsi. Il più grande lo strinse a sé ancora più forte, dicendo al turchese che gli era mancato e che sarebbe sempre tornato. A quelle parole Masaki sentì la sua rabbia svanire e gli occhi riempirsi di lacrime.
Malgrado non volesse mettersi a frignare davanti Hiroto, il turchese cominciò a piangere, esprimendo sia quanto gli fosse mancato il rosso, sia quanto fosse felice del suo ritorno. Hiroto non disse nulla, limitandosi a tenerlo stretto a sé. Masaki sapeva che lui e Hiroto non erano imparentati, ma, in quel momento, sentì di provare per il rosso un affetto persino più forte di quello una volta sentito per i genitori.

 
*

Un anno dopo Hiroto, anche Midorikawa aveva deciso di andare a Tokyo a studiare. Masaki stava davvero cominciando ad odiare quella città. Che cos’aveva Tokyo di così speciale? Solo perché era la capitale del Giappone, aveva alcune delle migliori università ed era una città ricca di possibilità lavorative, allora tutti si trasferivano lì.

Il turchese reagì meglio rispetto all’anno precedente, sapendo che il verde non sarebbe scomparso per sempre, ma questo non significava che non fosse triste. Midorikawa era allegro e divertente. Poteva risultare un po’ strano quando citava dei modi di dire non sempre inerenti alla situazione, ma riusciva sempre a tirare su il morale di Masaki quando si sentiva triste. Era un ragazzo molto duro con se stesso e spesso si sottovalutava, ma dava sempre il suo meglio e lavorava sodo in ogni aspetto della vita, dal calcio allo studio.
Se Hiroto era un modello a cui aspirare, Midorikawa era più vicino a lui, qualcuno a cui non aveva paura di chiedere aiuto e che capiva tutte le sue insicurezze.

Prima di andare all’aeroporto, Midorikawa aveva dato un forte abbraccio a Masaki, promettendogli di chiamarlo spesso e chiedendogli di tenere d’occhio Nagumo e Suzuno, che sicuramente si sarebbero messi nei guai senza alcun tipo di supervisione. Il turchese annuì prima di staccarsi dal verde. Questa volta non fece scene, ma decise che sarebbe stato forte e avrebbe rispettato l’impegno preso con Midorikawa.

 
*

Durante il quarto natale passato all’Ohisama En, poco prima del decimo compleanno di Masaki, Hiroto e Midorikawa tornarono da Tokyo per la prima volta da mesi. I due giovani adulti, pieni di impegni, ormai si facevano sentire più raramente rispetto ai primi tempi e Masaki non vedeva l’ora di vederli dopo tanto tempo.
Fosse stata una persona più spontanea, li avrebbe placcati prima ancora che potessero entrare dalla porta. Decise, invece, di aspettare che facessero il loro ingresso nella sala da pranzo prima di abbracciarli.

La gioia provata nel rivedere i due, tuttavia, subì un duro colpo durante il cenone di natale, quando Nagumo e Suzuno annunciarono che si sarebbero trasferiti. Masaki non poteva di essere scioccato, in fondo avevano entrambi ventun anni e desideravano essere indipendenti. Dopo essersi diplomati, Suzuno aveva iniziato a frequentare un’università vicina e a lavorare part-time, mentre Nagumo era diventato il coach della squadra di calcio della scuola elementare di Masaki, a cui aveva costretto, o, come aveva detto lui, caldamente consigliato al turchese di unirsi.

Avevano uno stipendio, quindi anche la possibilità di mantenersi. E non era nemmeno una sorpresa che avessero deciso di andare a vivere insieme. I due erano come una vecchia coppia sposata: litigavano per ogni piccola cosa e non erano mai d’accordo, ma non avrebbero potuto stare l’uno senza l’altro. Erano rumorosi, fastidiosi e irritanti, ma senza di loro l’orfanotrofio sarebbe sicuramente diventato più noioso.

Inoltre, dopo la partenza di Hiroto e di Midorikawa, il turchese aveva formato un rapporto molto stretto con i due.
Lui e Nagumo amavano fare scherzi agli altri orfani, spesso beccandosi le lunghe ramanzine di Hitomiko. Nonostante ciò, durante gli allenamenti il rosso era serio e non ammetteva che qualcuno battesse la fiacca. Masaki non aveva un trattamento di favore, anzi, Nagumo sembrava pretendere da lui più che dagli altri.

Suzuno era più calmo dell’altro e spesso agiva come coscienza del turchese. Usava la testa e, al contrario di Nagumo, valutava le conseguenze delle sue azioni, perciò spesso il bambino era andato da lui per chiedere dei consigli.
Il duo si divertiva anche a raccontargli alcuni episodi avvenuti alcuni anni prima, quando gli orfani si facevano passare per alieni. A quanto Masaki aveva capito, loro due erano i capitani di due squadre che, dopo aver perso, si erano unite.

“La Chaos era la migliore!” diceva spesso Nagumo.
“Ma non era quella di Hiroto la squadra migliore?” aveva osato chiedere una volta il bambino, visto che i due avevano detto che la Genesis era considerata l’elité.
“Non farmi ridere! Questo solo perché Hiroto non ci ha fatto finire quella partita” aveva replicato il rosso, evidentemente offeso dall’insinuazione che Hiroto potesse essere più bravo di lui.
“Se non ci avesse interrotti avremmo distrutto la Raimon” aveva aggiunto Suzuno.
‘E’ la prima volta che sono d’accordo’ aveva pensato Masaki.

Il secondo argomento preferito del ragazzino era il FFI. Suzuno e Nagumo avevano partecipato come rappresentanti della squadra coreana, e, dopo la vittoria del Giappone, avevano continuato a seguire il torneo, silenziosamente tifando per Hiroto e Midorikawa.
Al pensiero che quei momenti sarebbero presto finiti, il turchese diventò subito triste.

“Non fare quella faccia! Mica andiamo in Africa” disse Nagumo, notando lo sguardo sconsolato del ragazzino.
“Prenderemo un appartamento a meno di mezz’ora da qui e se avrai bisogno potrai venire quando vorrai. E dovrai ancora sopportare questo idiota durante gli allenamenti” aggiunse Suzuno.
“Chi sarebbe l’idiota?!”

E quello fu l’inizio di uno degli ennesimi battibecchi di fronte a cui tutti i residenti dell’Ohisama En, ormai abituati, si misero a ridere.
Tutti tranne Masaki: il bambino sentiva che la differenza tra lui e gli orfani più grandi continuava a crescere e non sapeva come colmare quella sensazione di abbandono, presente da quando i genitori si erano liberati di lui.

 
*

Dopo parecchi anni, Masaki si era ormai abituato alla vita nell’Ohisama En.
Dopo il turchese, erano arrivati molti altri orfani e alcuni dei più piccoli, dopo averlo visto palleggiare, gli avevano chiesto di insegnar loro a giocare a calcio.
Kariya, inizialmente, aveva esitato, non essendo un amante dei bambini più piccoli, ma, spinto un po’ dal desiderio di diffondere l’amore per il calcio, un po’ dalla terrificante prospettiva di avere un gruppetto di bimbetti seguirlo ovunque e pregarlo con le loro vocine stridule, il ragazzino aveva acconsentito.

Hiroto disse di essere molto fiero di lui e che sapeva che Masaki avrebbe fatto un ottimo lavoro come allenatore. Questo aumentò ulteriormente la determinazione del turchese.

Allenare gli orfani più giovani all’inizio era stato frustrante e irritante, ma il ragazzino non poteva non sentirsi orgoglioso nel vedere uno dei bimbi riuscire a portare un pallone in porta e lanciargli un sorrisone abbagliante.

 
*

Masaki aveva da poco cominciato le scuole medie quando Hitomiko, un sabato pomeriggio, lo prese da parte, dicendo di avere un annuncio importante.
La donna iniziò spiegando che Hiroto aveva ereditato la ditta di suo padre, la cui sede era in una città nella zona di Tokyo che aveva il nome più ridicolo che Masaki avesse mai sentito, Inazuma Machi. Dopo quella lunga premessa, in cui la donna si premurò anche di puntualizzare che Inazuma era una cittadina tranquilla e meno caotica della zona centrale di Tokyo, il turchese le chiese schiettamente di arrivare al punto.

“Se vuoi, potresti andare a vivere con lui”
Lì per lì il ragazzino rimase ammutolito, incapace di dare una risposta.
“Non devi darmi una risposta subito. Pensaci un po’ su e poi dimmi”

E Masaki ci pensò su. Eccome se ci pensò su.
Accettare la proposta significava poter vivere con l’unica figura di riferimento su cui sapeva di poter contare incondizionatamente (Hitomiko aveva un intero orfanotrofio a cui badare, Nagumo era un bambinone, Suzuno cercava di non farsi mai coinvolgere e Midorikawa era troppo insicuro).

D’altro canto, avrebbe dovuto lasciare tutto quello che si era faticosamente costruito negli ultimi sei anni, in particolare il rapporto con i piccolini dell’orfanotrofio.

Da un punto di vista materialista, andando ad abitare con il rosso Masaki avrebbe potuto avere, finalmente, una camera tutta sua e quella cosa che ormai sembrava un miraggio lontano, privacy.

Per le settimane successive tutto quello che Masaki aveva nella testa erano i pro e i contro di un’eventuale convivenza con Hiroto.
Il dodicenne non provò nemmeno a chiedere il parere del rosso, sapendo che tutto quello che avrebbe ottenuto sarebbe stato ‘l’importante è che tu faccia quello che desideri’.

Aveva bisogno di qualcuno che gli avrebbe detto la verità sempre e comunque. Fuusuke Suzuno era la persona perfetta.
Dopo essere uscito dall’università, Suzuno aveva cominciato ad occuparsi della parte amministrativa e finanziaria dell’orfanotrofio aiutato da Nagumo, che continuava ad allenare alcune piccole squadre di calcio locali.

Pur essendo stanco e sudato, dopo un duro allenamento Masaki andò dritto verso la casa dei due per cercare di chiarirsi le idee.
“Cosa non vorresti perdere?” gli chiese Suzuno.
“Niente”
“Questo l’ho capito. Il punto è: chi avresti più fatica a lasciare? La scuola e l’orfanotrofio o Hiroto?”
In realtà lasciare la scuola non era un problema: era iniziata da poco e Masaki non si era ancora fatto dei veri amici. Con i suoi compagni di squadra aveva un rapporto civile, ma non amichevole.
“Giusto per fartelo sapere, se resti qui non credo rivedrai Hiroto molto spesso”
Masaki girò di scatto la testa verso Suzuno e chiese spiegazioni.
“Hiroto è il presidente della Fondazione Kira, questo significa tante faccende noiose da sbrigare e poco tempo per chiamare, figurati venire qui”

A Masaki sembrava di non avere più aria nei polmoni. Non sapeva cosa dire, non sapeva cosa pensare.
Il pensiero di non rivedere più Hiroto lo riportò indietro di cinque anni, quando il rosso era partito per Tokyo, e poi di un altro ancora, quando i coniugi Kariya avevano rinunciato a crescere il loro unico figlio.
Era un sentimento di abbandono e solitudine che il turchese conosceva bene, ma che non voleva provare più.
Mai più.

 
*

Un mese e mezzo dopo quel fatidico sabato pomeriggio, Masaki e Hiroto avevano finito di svuotare tutti gli scatoloni e sistemare tutto nel nuovo appartamento del rosso.

Prima di partire Hitomiko aveva organizzato una festicciola di addio per il turchese, durante la quale la squadretta di orfani si era messa a piangere, abbracciando Masaki e chiedendogli di non andare.
Il dodicenne, disgustato dal muco che i mocciosi avevano lasciato su tutti i suoi vestiti, aveva tentato di allontanarli da sé, ma quelli non ne avevano voluto sapere di staccarsi.
Alla fine, con l’aiuto di Hitomiko, Masaki era riuscito a riprendere possesso del suo corpo, ma i bimbi avevano continuato a piangere.

“Tranquilli, chiamerò tutti i giorni” aveva detto, sperando di placarli.
I bambini non gli erano sembrati totalmente convinti, ma avevano annuito comunque.
In realtà anche il turchese era triste di lasciarli, ma, un po’ per orgoglio, un po’ perché, per una volta, voleva essere lui quello forte, non aveva detto nulla.

Ma ormai era ad Inazuma Machi, con Hiroto, e sentiva, guardando il sole splendere nel cielo, che, da lì in poi, le cose sarebbero andate per il verso giusto.





 
   
 
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