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Autore: flama87    06/11/2016    2 recensioni
Ogni trecentosessantacinque anni, il Dio Sole sceglie una donna mortale da sposare e la indica ai fedeli con il suo Stemma. Quando il tempo è giunto, gli abitanti del regno di Lactea sono obbligati a consegnarla all'Ordine, il quale permetterà alla Dama Bianca di convolare a nozze con la divinità.
Eppure della Ventiquattresima Sposa non vi è alcuna traccia, il tempo del Viaggio di Nozze è oramai vicino. Impauriti davanti all'idea d'infrangere l'antica alleanza e non volendo incorrere nelle ire divine, il Sovrano di Gennaio e il Sommo Cardinale d'Agosto daranno il via a una caccia agli eretici sanguinosa e cruenta.
E se fosse la Sposa a non voler essere trovata?
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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1.1 Tarda lode
 
Padre Undine alzò lentamente gli occhi dalla lettera e sospirò. A pochi passi da lui stava il giovane Aulix, che ben poco comprendeva del profondo significato in quel comune gesto; poiché non vi lesse, nel sommesso alitare della noia, l'apatia che annebbiava gli stimoli del sacerdote. Un sospiro né di dispiacere e nemmeno di sorpresa. "L'ennesimo sogno che si perde a causa delle eresie", volle dire. La sua era divenuta oramai una neanche così velata indolenza, poiché il martirio era divenuto da molte danze una costumanza; era la consuetudine di un popolo messo alla gogna, per colpe che spesso non aveva. Sicché, così tanti erano stati i Riti del Riposo che padre Undine aveva dovuto officiare, che ne perse già da giovane il conto. Quella lettera che stringeva poi tra le mani, originale nel suo contenuto ma al tempo stesso simile a tutte le altre, non faceva che aggravare in lui quel senso di totale disinteresse per la vicenda.

Nel mentre, Aulix, sì frastornato, non smise di volgersi con lo sguardo al sacerdote. Poiché questi non aveva letto ad alta voce il contenuto della lettera, il giovane si riscoprì intento a indagarne l'aspetto: il sacerdote era probabilmente desto da ben sessantacinque danze, alto nella media, pur avendo il corpo tozzo, forse aggravato dagli acciacchi; la lunga barba e lo sguardo torvo gli conferivano un alone di saggezza e venerabilità; i capelli bianchi erano coperti da un pileolo bianco a sette spicchi, in simbolica rappresentazione del dio Sole. Sulle spalle indossava la tipica mozzetta nera, come la notte, di chi officiava il Rito del Riposo. Il contrasto tra il pileolo e la mozzetta era quasi certamente voluto e studiato, poiché trasmetteva in Aulix tutto lo splendore del divino Sole che irradia la sua luce nel buio della notte. Ad accompagnare le membra stanche del sacerdote, infine, stava in una mano il bastone del pastore: un lungo manufatto di legno, finemente lavorato, con all'estremità superiore un meraviglioso lapislazzuli. Il colore blu intenso della gemma, unito magistralmente alle inclusioni di pirite, suscitavano in chiunque vi posasse lo sguardo la sensazione di ammirare la Grande Casa del Cosmo.

Frattanto, con superficiale rapidità, quasi avesse i rintocchi contati, Undine ripiegò la lettera e la consegnò ad una delle due guardie, che con lui erano giunte al capezzale di sua eccellenza Mizar. Le ultime volontà del nobiluomo scivolarono nel buio di una borsa in cuoio, mescolandosi tra tante altre scartoffie. "Chissà quanto sogni spenti stanno lì rintanati", si chiese Aulix, senza realizzare pienamente la tragicità di quella sua preoccupazione; lo sgomento per l'accaduto ancora lo frastornava, come se avesse subito un duro colpo di maglio alla nuca e si fosse ripreso molto più tardi, col dolore alla testa che gli si stringeva alle tempie, lasciandolo più intontito che immobile. Il perché e il come ancora gli sfuggivano tra le dita della comprensione.

A padre Undine non parve interessare quel disorientamento, tanto che, quasi senza preoccuparsene, tentò di scuoterlo dal suo silenzio.

«Sei tu Aulix?»

«Io...»

Le difficoltà che il giovane incontrò nel rispondere esortarono il sacerdote a ritentare, con più decisione.

«Sono costernato di dover imporre fretta ma il tempo stringe. Sforzati» fece, gravando con la voce e ripetendo la domanda affinché l'altro si scuotesse dal suo torpore: «Sei tu Aulix?»

«Sì, sono io».

«Puoi dunque assicurare con certezza, giurando di non mentire, che costui, qui presente, era Mizar Merak?»

Per la seconda volta, Aulix non riuscì a rispondere. Non subito, almeno. Si era girato verso le spoglie del suo padrone, cosa che aveva evitato fino a poc'anzi; e lo vide che stava ancora riverso, non più desto, nella sua vasca. Da lungo tempo tormentato da una misteriosa malattia, e perseguitato da sgradito prurito ovunque si recasse, padron Mizar aveva tentato di lenire i fastidi e i dolori immergendosi sempre più frequentemente nell'acqua tiepida. Non trovò mai il sollievo che cercava. Tuttavia, nella sua ingrata sorte, il divieto di lasciare i propri alloggi, che gli era piovuto addosso negli ultimi tempi, lo aveva esentato dai continui viaggi, durante i quali la sofferenza per quel male pruriginoso, che soleva sorprenderlo in qualsivoglia occasione e luogo, era divenuta insostenibile. Con il tempo aveva prolungato la sua permanenza nella vasca, tanto da non uscirne per interi rintocchi, fino a che non vi aveva perfino esalato l'ultimo dei suoi respiri. Così ora era disteso nelle acque raffreddate e rossastre, con la mano destra che scendeva oltre il bordo e verso il basso, stringendo ancora con tenacia una penna d'oca. L'altra mano era invece lì dove il sacerdote aveva trovato la lettera: su di un mobile di legno che fiancheggiava la vasca, usato come appoggio per il calamaio; lo stesso era stato rovesciato quando era stato preso il foglio. Nessuna goccia sfiorò la lettera, bensì gocciolò sul pavimento disegnando una imprecisa costellazione. I chiari e vistosi segni di taglio sui polsi, e il coltello insanguinato in terra, non lasciavano dubbi su cosa avesse cagionato l'assopimento di sua eccellenza Mizar.

«Devo inviare una lettera a mio padre, potresti portarmi l'occorrente per scrivere?» aveva chiesto ad Aulix verso i tardi rintocchi della lode. Il servo gli aveva diligentemente consegnato il necessario, più una tovaglia verde che coprisse l'asse di legno usato come scrittoio di fortuna. Si maledì per aver obbedito.

«Per tutte le Idi di Bronzo!», gridò lo sguattero Gregor, probabilmente più preoccupato della sua sorte, piuttosto che per la sorte del suo signore. Si liberò quindi in una fuga forsennata, mentre ancora imprecava.

Undine tossì, per incalzarlo.

«Si. Confermo e giuro di riconoscere il qui presente Mizar Merak».

Il sacerdote volle poi farsi indicare dove si fosse diretto Gregor e Aulix si sentì di tradirlo, ma dovette acconsentire:

«Sarà certamente in giardino, sul piccolo altare eretto in ricordo di sua madre Giuditte». "Tanto buona quanto sfortunata".

Undine fece cenno ai soldati di non dimenticare che il giovane schiavo doveva seguirli presso la Grande Cattedrale, una volta terminato il Rito. Aulix poté solo immaginare cosa ne sarebbe stato di lui: figlio di una schiava, assopitasi per farlo destare, Gregor aveva ben poco valore per la società. Il figlio irregolare di una schiava, anche di una che subisce violenza, era poco meno di un oggetto; nessuna libertà gli si poteva restituire, agli occhi intransigenti della legge.

«Abbiate a mente, Aulix, che se le vostre parole contengono menzogna; se avete testimoniato il falso; se costui non è messer Mizar; se per qualsiasi ragione doveste trovarvi in difetto, pur avendo giurato davanti al divino, sarete severamente punito».

«Non v'è menzogna nelle mie parole», ribatté con sicurezza.

Undine bofonchiò qualcosa. Un soldato prese nota. L'altro allentò la presa che teneva sull'elsa. Aulix li guardò, senza comprendere. Quelle vecchie regole dell'Ordine sfuggivano alla sua comprensione. Ebbe ricordo delle spiegazioni del suo signore, eppure ogni sua parola gli parve mischiata in dosaggi irragionevoli: non poté mettere a fuoco le nozioni tramandategli, per cui non capì cosa stessero facendo. Si domandò, al fine delle sue tribolazioni, a cosa servisse la sua testimonianza, se il corpo del suo padrone era lì, davanti a loro. Il dubbio però fu presto soverchiato dal crescente astio che provava per il sacerdote e la sua scorta: "padron Mizar non è un nobile di campagna, ozioso ed opuleto! Dovrebbero portargli rispetto!".

«Sapete dirmi da quanti rintocchi è assopito?» continuò Undine.

Aulix non seppe rispondere immediatamente. L'ipotesi che avesse tardato ad avvisare l'Ordine, meritandosi dunque gli sguardi torvi dei presenti, lo raggelò.

«Siete consapevole che ritardare il Rito del Riposo è considerata una grave mancanza? L'Ordine non ammette ignoranza» tuonò un soldato.

Il giovane però, nonostante la confusione, fu scaltro e lesto a rispondere; si cavò dagli impicci così: «Siete stati avvisati immediatamente. Ciò non toglie che io abbia scoperto il suo stato in ritardo, questo lo ammetto».

«Non pare comunque essersi assopito da molto, a giudicare dalla temperatura del corpo» aggiunse l'altro soldato, che frattanto si era apprestato a sfiorare le spoglie del nobile.

«Vogliate perdonare la mia insistenza. L'Ordine non transige, né il Divino per suo mezzo» affrettò Undine.

Parlando del divino, il Sole era ormai prossimo ad innalzarsi verso il punto più alto del suo trono, in cielo. Aulix fu meravigliato della rapidità con cui i rintocchi della lode erano trascorsi.

«Avete detto di non averlo scoperto subito in questo stato, come mai?» imbeccò un soldato.

Aulix incalzò rapido. «Il mio signore era solito cadere in falsa dormita, ancor più da quando era costretto a trovare ristoro nella sua vasca. Perfino con il divino al massimo bagliore. In queste ultime Idi era riuscito a fingersi nel sonno anche nei rintocchi più assolati: per questo non ho avuto motivo di dubitare che stesse fingendo il sonno, interrompendo la sua scrittura; inoltre aveva chiesto di non essere disturbato!» Eppure, a metà del suo discorso, si sentì come se stesse giustificandosi a se stesso, non all'Ordine. «Come sempre, questi sono i rintocchi in cui il mio padrone è solito pranzare. Ho bussato e l'ho chiamato ma, non ottenendo risposta, dopo continui tentativi, sono entrato con la forza per scoprire così il misfatto».

Undine fu incuriosito dall'accaduto: le vicende che nascevano quando un uomo sceglieva di assopirsi erano forse l'unico brivido di novità che gli restava, nella consuetudine dei suoi compiti liturgici. Perché l'unico fattore che cambiava per ogni Rito erano soltanto le parole dei testimoni, di chi aveva per primo trovato l'assopito e doveva raccontarne l'accaduto. Così, quando lo ritenne necessario, disse: «Abbiamo esaurito questo primo compito, ora procediamo rapidamente con il Rito».

Aulix si sentì sollevato. Fu come se il sacerdote lo avesse esentato da un lungo ed estenuante interrogatorio. D'altronde, quante volte si era vociferato di schiavi, che irretiti e incattiviti, s'erano sporcati del sangue del proprio padrone? "Ah la libertà, fa fare agli uomini cose tremende!"

L'opera sacra che Undine di lì a poco si apprestò ad operare attirò a se ogni attenzione: sistemò prima l'incenso, che passò a spargere con l'incensiere per tutta la stanza; ad ogni oscillazione, sprazzi dorati come piccole stelle sprigionavano dall'utensile e si spargevano assieme al fumo. Ben presto l'energia sacra del sacerdote si avviluppò attorno ai presenti, creando come una cappa mistica. I due soldati presero le spoglie di sua eccellenza Mizar, lo coprirono con un velo bianco e lo depositarono in terra, con le mani congiunte sullo sterno. Adagiato l'incensiere a lato, Undine si accovacciò e porgendo la mano sulla fronte del sopito, recitò:

«In nome di sua maestà Sovrano di Gennaio e con il potere conferitomi dall'Ordine, in qualità di sacerdote di Luglio, invoco il nome del divino Sole; splenda un raggio di luce in questo momento di tenebra; che rischiari il buio e dilegui il male; che il sogno di quest'uomo si elevi tra le stelle e giunga infine alla Sera, ove dimora la pace».

Aulix ammirava il Rito per la prima volta, restando incantato dalla precisione con cui il sacerdote eseguiva ogni gesto, che si conclusero con un canto. Non vi erano parole, eppure il motivetto rappresentava bene la tempesta di sensazioni che il giovane sentiva dentro: da un lato il dolore della perdita dell'amico, dall'altra la speranza che il più gradevole dei suoi viaggi stesse per iniziare. Ed una strana energia pervase la voce del sacerdote, come se, in quelle note, una arcana magia stesse animandosi tutt'attorno.

Terminato il canto, seguitò un gesto solenne: Undine dapprima disegnò il simbolo del Sole sulla propria fronte, quindi impose il palmo della mano sul petto del sopito e, come d'incanto, il simbolo da lui disegnato apparve, in un bagliore dorato, lì dove la mano premeva.
Che il cerchio danzante del Sole si completi;

e così le sue calde spire.

I raggi di questo incantesimo splendano su di me.

L'arte del Rito è qui dispiegata intorno a noi.

L'arte del Rito che dona la pace.

Noi che dalla notte veniamo e alla notte torneremo:

a te sempre domandiamo di condurci verso la Sera.

Veglia su di noi.

Queste ultime parole fecero inabissare il simbolo lucente nel corpo di sua eccellenza Mizar, che di colpo prese un colorito più roseo e parve brillare di una fioca luce propria. Frattanto, i soldati presero a completare i loro ultimi compiti: assicurarsi che il Rito avesse avuto successo. Non prima di aver ripetuto "veglia su di noi", in coro. Completato il Rito, Undine parve improvvisamente volersi dileguare. Divenne ancora più frettoloso nel fare, arraffone nel modo di parlare; era visibilmente smanioso di andar via. Aulix si sentì ancor più incollerito da quel suo modo di fare.

"Un uomo buono come padron Mizar non dovrebbe necessitare il lavoro sciatto e svogliato di questo sacerdote! Meriterebbe di giungere alla Sera subito, ne è sempre stato degno!" pensò, trattenendosi dal gridarlo anche ai presenti.

Nella marea dei suoi pensieri concitati, il sacerdote lo sorprese: «Con il potere conferitomi dal Sovrano di Gennaio, in rispetto alle ultime volontà del tuo padrone, io ti dichiaro un uomo libero».

Si avvicinò quindi al giovane e si fece consegnare dai soldati le chiavi universali, con cui era possibile liberare ogni schiavo dai bracciali del possesso: quegli ornamenti in ferro nero che indicavano l'appartenenza di uno schiavo ad un padrone. La chiave girò due volte in una piccola fessura, facendo scattare un meccanismo che aprì in due parti i bracciali. Aulix li guardò tintinnare sul pavimento, ammirando lo svanire del suo nome che da sempre era inciso a lato del bracciale sinistro. Quella scritta magica serviva a riconoscere uno schiavo, qualora fosse scappato, così da ricondurlo dal padrone; o a risarcirlo, se questi fosse stato assopito per qualsivoglia motivo. Aulix tuttavia non si sentì felice. Gli anni suoi più belli li aveva vissuti al servizio di sua eccellenza Mizar, mentre ora, improvvisamente, lo spettro dell'ignoto e della libertà bussavano crudelmente alla sua porta. "Cosa teme di più un uomo se non l'incertezza del domani?"

«Con il potere conferitomi dall'Ordine, elevo la richiesta di abiura richiesta da quest'uomo alle alte cariche e, se il divino vorrà, egli sarà liberato da ogni accusa. Il mio compito termina qui».

Sua eccellenza Mizar era conosciuto in virtù della sua fama come grande studioso. Aveva partecipato a numerosi banchetti e incontri di studio; aveva tenuto prestigiose lezioni nelle più famose cattedre del regno. Aulix lo aveva sempre fedelmente seguito ovunque, anche nel buio delle sue ultime danze. Mai aveva creduto alle accuse che avevano indirizzato al suo padrone, né sapeva chi potesse averlo sbugiardato agli ufficiali dell'Insonnia. "Fu un giorno qualunque che i soldati si presentarono armati alla magione, lo prelevarono di forza nonostante la sua salute cagionevole, e lo riportarono qualche suono più avanti in condizioni pietose: ferito e visibilmente provato. Vittima di torture". Da quel momento tutto era precipitato. Il suo padrone era stato lentamente e progressivamente relegato nella sua magione, non più desiderato tanto nelle facoltà di studio che nei circoli della nobiltà. Finanche le bocche affamate e i mendicanti non gradivano la sua elemosina. Alcuni schiavi segretamente ingiuriavano il proprio servigio preso di lui, come fosse una maledizione da cui non si potesse sfuggire.

«Chissà quale follia lo avrà portato a gettare via il suo prestigio con così sciatta volontà!» bisbigliò un soldato.

«Povero sogno caduto nel disordine», gli fece eco l'altro.

Aulix restò immobile. "Come osano!" La collera di prima trovò nuovo vigore, eppure rimase congelato sul suo posto. Benché non sopportasse l'idea che si parlasse così male del suo padrone, come si fa con un vile o un assassino, fu ben consapevole che poco valore aveva il suo giorno per intentare una qualche discussione con un esponente dell'Ordine e la sua scorta armata. Avrebbe avuto più speranze di successo nuotando in un mare di fiamme. Così improvvisamente realizzò cosa fosse quel senso di impotenza che doveva aver travolto il suo signore. Quella sensazione di ineluttabilità che aveva pervaso ogni suo gesto e parola: "del suo dramma solo ora sono consapevole". Eppur ci aveva provato. Oh se ci aveva provato! Ma non era riuscito ad afferrare appieno il male che aveva divorato il suo padrone, trasformandolo da un uomo pieno di vita ad un'ombra lamentosa.

In quel preciso momento, Aulix non aveva potuto fare a meno di frenare il sopraggiungere, con rinnovato affetto e immensa malinconia, del primo ricordo che serbava di sua eccellenza Mizar: quando, in compagnia di sua sorella, lo scovò nel mercato degli schiavi. Rammentava con vivido fervore che il giovane nobile discese dalla carrozza afflitto in volto. Era originariamente diretto ad un galà ma aveva ordinato al cocchiere di fermarsi, quando aveva intravisto un volto fin troppo fanciullesco nella sfilata di uomini seminudi, esposti al caldo sole di quel Settimo Nuovo dell'Ide d'Oro. L'odore di sudore elevato dagli schiavi doveva aver pizzicato il suo naso, poiché la giovane Hilda aveva prontamente elevato un fazzoletto a difesa del volto; e Mizar, invece, si diresse fulmineamente verso il suo obiettivo. Giunse al cospetto del mercante e subito si fece consegnare i documenti di Aulix, commentando:

«Questo documento riporta come data del primo mattino la danza solare numero 9'126, precisamente il terzo primo quarto dell'ultima Ide. È la data giusta?»

L'uomo trasalì. Erano ben trecentosessantacinque danze che era in vigore il divieto di compravendita di donne e bambini, così come di uomini che avessero superato le quaranta danze solari. Il caso di Aulix era anche più particolare: nonostante avesse a malapena quindici danze, e il limite imposto dalla legge era a diciotto, era stato venduto con documenti falsi e riportavano, dunque, una data errata. Mizar, che conosceva bene questa pratica illegale, volle indagare.

«Ma certo che lo è!» rispose il mercante.

«Non rammento di aver rivolto a voi questa domanda. Aulix è il tuo nome, giusto? Quante danze hai visto fino ad oggi?»

Lo schiavo fu sorpreso ma rispose rapidamente «Quindici danze, vostra eccellenza».

«Quindici danze!» Il mercante deglutì rumorosamente; Mizar incalzò: «Messere avete idea del reato che state commettendo?»

«Vostra eccellenza, non vorrete dar più peso a lui che a me?»

«In altre circostanze no. I miei occhi, tuttavia, sono più scaltri della vostra lingua biforcuta. Questo giovane a malapena possiede la peluria di un uomo, bensì è più che visibilmente un fanciullo che sta sul finire del suo mezzodì».

«Potrei aver commesso un errore nell'acquistare questo schiavo ma non ne ero consapevole: sono stato truffato!» arrancò l'uomo.

«Voi sapete che sua eccellenza il fu Sovrano di Gennaio, Armeth Sal'olmar, indisse il divieto di vendita degli schiavi sotto quest'età per volere della Sposa di quel periodo, vero?»

Il mercante aveva capito dove Mizar volesse andare a parare, «S-sì».

«Allora ricorderete sicuramente che è ritenuto atto contro l'Ordine vendere uno schiavo giovane come lui, dico bene?»

«Come anche per voi comperarlo!» sbottò il malandrino.

Il giovane Mizar non parve preoccuparsi. «La legge mi consente di prendere in custodia questo giovane e di poterlo ospitare nella mia tenuta, salvo poi acquistarlo a metà del suo prezzo quando vedrà la diciottesima danza».

«E voi siete disposto a ciò? Per una merce scadente? Un buono a nulla?» fu sorpreso il mercante: tale atto illecito era ben presente nel regno poiché, nonostante il divieto e le possibilità concesse ai nobili, nessuno aveva mai avuto interesse nel sottrarre un giovane schiavo alla bocca vorace del mercato.

«Badate messere che la differenza tra voi e lui è molto esigua. La sfortuna di quel giovane è il ritrovarsi dal lato sbagliato della pedana, ma potreste finirci in futuro se continuate a incalzarmi in questa discussione e a costringermi ad informare le guardie dei vostri imbrogli. Vogliamo testare la sorte? Chissà a chi daranno ragione le armi, se a un gentiluomo di Settembre oppure a voi».

Si poteva vedere sul volto di quell'uomo l'umiliazione che risaliva lungo la sua schiena. Sbuffò rumorosamente, si sfregò i baffi neri e fece sconfitto: «Ebbene messere, avete il vostro nuovo giocattolo. Ora sareste così gentile da restituirmi quel documento?»

«Non posso».

«Come scusi?»

«Devo conservare questo foglio come garanzia, assicurandomi che lei non provi a sottrarmi il giovane. Ad esempio, assoldando qualche brigante di fortuna, come spesso accade. Cosa che le sconsiglio comunque: la famiglia Mizar non è tra le più facoltose è vero ma è molto legata all'arma miliare. Vi militano molti valorosi soldati della nostra casata. Il nostro vanto, il mio illustre fratello, è perfino capitano della seconda guardia reale di sua maestà».

Il mercante grugnì.

«Vi auguro buona giornata. Vieni Aulix, seguimi».

Il giovane fu scosso dai suoi ricordi, ritornando alla triste realtà. "I miei giorni felici assieme al padrone sono terminati". Aveva adesso la libertà di recarsi ovunque desiderasse, eppure, dentro di sé, desiderava rimanere esattamente dov'era. Una lacrima solcò il suo volto al pensiero. Il sacerdote, notando la commozione del giovane, fece cenno ai soldati di ritornare sui propri passi. Aulix alzò lo sguardo e gli parve ora che i contorni di questi uomini fossero diventati tanto imprecisi da rassomigliare a personaggi secondari di una storia, quelli che sono facili da dimenticare poiché anonimi.

"Quanto vorrei dar loro un pugno sul naso!", pensò.

«Il nostro lavoro qui è finito», fece Undine. Dal suo tono di voce parve quasi esausto per il rito compiuto, come se avesse prosciugato una qualche energia residua presente presso di lui. Prima di congedarsi del tutto, i soldati si fecero accompagnare dove Gregor si era rintanato. A malincuore Aulix obbedì, sentendosi un traditore mentre trascinavano via il ragazzetto. Ricevette anche un sonoro ceffone, affinché smettesse di berciare e dimenarsi. Ciò nonostante, Gregor avrebbe avuto certo vita migliore come accolito dell'Ordine. Chissà che non arrivasse perfino a farsi un nome: l'unica prerogativa di un membro del culto era la sua fede. Sempre che Gregor ne trovasse dentro di sé. Intanto, fu caricato goffamente in spalla. "Come un sacco di patate". No, almeno i sacchi di patate non erano così sgradevoli.

«Si dimenano tutti. La vita nell'Ordine è spaventosa, a quanto pare». La guardai che lo teneva ben fermo scoppiò in una risata maligna ma breve.

«È allergico al latte» rivelò Aulix. "Che almeno non lo avvelenino". «Gli causa gravi problemi».

«Se ti cruccia il suo destino», fece Undine, «sappi che per cinque danze mangerà pane integrale, berrà acqua del santo ruscello e vedrà la carne nei giorni di festa soltanto».

"Una dieta forzata forse è anche peggio per il suo gracile corpo" «Sono sicuro che imparerà ad apprezzare l'opportunità che gli state offrendo».

Non era un mistero che Aulix mal sopportasse Gregor. Il sentimento era anche reciproco, dal momento che avevano due visioni distinte di sua eccellenza Mizar: il primo lo aveva in grande affetto ed amicizia; il secondo lo dileggiava di nascosto e lo malediva ancor più segretamente. Di conseguenza, uno non sopportava il carattere dispotico dell'altro, e l'altro additava a lacchè dei nobili l'odiato compagno di servitù. Erano perfino venuti alle mani, sovente. Sua eccellenza aveva sempre tempestivamente provveduto a rimetterli in riga, spesso, se necessario, punendo entrambi severamente. Se nutriva grande amicizia per Aulix, verso Gregor nascondeva grave pietà; e non potendo tuttavia soppesare i suoi due servi in maniera diversa, si costringeva a trattarli in eguale modo.

Nel frattempo, il drappello dell'Ordine stava sgusciando via in un cadenzato silenzio. Aulix li seguì, appoggiando lo sguardo sulle grosse spalle del sacerdote. Era in evidente difficoltà nello scendere la lunga e larga rampa di scale. Afflitto da qualche dolore alle ossa, Undine pianificava ogni passo, sotto lo sguardo annoiato dei suoi due cavalieri. "Ad un uomo di questa età non dovrebbero concedere il riposo?".

Il tintinnare ritmico delle guardie corazzate era l'unica sinfonia che accompagnò il gruppo, facendo dispetto al mesto silenzio che, come gravato da una qualche oscura e famelica pena, parve appollaiato sulle spalle di Undine. Ombre imprecise del passato e le danze impietose avevano reso meno lucente il divino simbolo del Sole che svettava sulla sua mantellina.

Aulix fu sorpreso di vederlo voltarsi, così di colpo. "Cosa vorrà adesso?"

«Ora sei un uomo libero, il che comporta che potrai decidere liberamente cosa fare. Ti rammento che è facile, di questi tempi, cadere schiavo nuovamente. Sei giovane e forse ancora non conosci bene la cattiveria di molti uomini. Ti consiglio di recarti al cospetto di ser Alcor e domandargli ospitalità. Il nobile, per quanto impegnato, potrebbe certamente acconsentire. Oppure, qualora fosse necessario, le porte dell'Ordine sono sempre aperte. Che il divino vegli su di te».

Aulix non rispose. Certo, fu stranito dall'improvviso interesse dell'uomo, eppure non era certo sul da farsi, né fino a che punto le parole di uno sconosciuto potessero essergli di un qualche aiuto. Salutò quindi con gli odori dovuti la delegazione e attese che il divino onorasse i patti: all'imbrunire del cielo sarebbero giunti, puntuali, le Orme Bianche ad occuparsi del rito funebre.

1.2 Inizio dei vespri.

Quando giunsero, Aulix fu sorpreso nello scoprirli così piccoli e minuti. Avevano indosso delle toghe bianche e nascondevano i volti in grandi cappucci. Non superavano di qualche tacca un bambino di dieci danze, ma mostravano l'andatura certa e precisa di un qualsiasi uomo adulto. Non rivolsero ad Aulix nessun saluto, virando con brusca maleducazione direttamente verso le spoglie di sua eccellenza Mizar. Come fantasmi percorrevano l'androne principale senza fare rumore, così che, assieme allo sguardo dei mezzi busti a decorazione delle scale, creavano un ambiente quasi spettrale.

Molte erano le voci che correvano dietro le Orme Bianche. Aulix aveva udito racconti variegati: vivevano sottoterra; scavavano instancabili numerose gallerie e cunicoli; nessuno sapeva da dove sbucassero; chiunque aveva provato a cercare l'ingresso delle catacombe non era mai tornato; custodivano i resti di coloro assopitisi da danze immemori; nascondevano qualche grande segreto, poiché l'Ordine teneva in gran considerazione e cura la loro esistenza; erano spesso accusati di piccoli furti, ma nessuno era mai riuscito a dimostrarlo. Le Orme Bianche avevano compiti assai semplici: pulire il corpo dell'assopito; vestirlo con tonache rituali; recitare in circolo antiche e perdute nenie; disegnare rune antiche sul corpo dell'assopito usando gessi fosforescenti; issare una reliquia sacra -un osso umano- affinché brillasse momentaneamente.

Aulix si sentì quasi tradito. "Tutto qui?" pensò, mentre issavano il corpo di sua eccellenza Mizar su una barella di stoffa e legno. Tuttavia, non appena un raggio di Luna colpì le rune disegnate sul corpo del nobile, esse s'illuminarono d'argento e presero a vorticare, come impazzite, fino a cambiare aspetto. Adesso i resti di Mizar erano marchiati con scritte argentee, che riprendevano i passi del Culto del Tramonto e, quasi certamente, servivano a rassicurare il sogno dell'assopito alla Sera. L'indomani, alle prime luci del divino, Aulix avrebbe notato dappertutto tracce di gesso; piedi che erano andati ovunque e mani che avevano frugato in ogni parte. "Così derubano davvero le case che visitano!" e, a giudicare dalle orme lasciate, non avrebbe avuto dubbi sul perché del loro nome! In quel frangente, però, il giovane non si curò dei piccoli cleptomani, poiché presero solo piccoli oggetti, per lo più vettovaglie, mentre eseguivano l'ultima veglia. Il suo sguardo fu inoltre ancorato alla figura del padrone, trasportato lentamente via. Li seguì in un silenzio religioso finché non fu sull'uscio della villa. Qui, come rapito, alzò lo sguardo e vide la Grande Casa del Cosmo in tutta la sua bellezza; come tante gemme su di un panno nero, gli Dei più grandi e quelli più piccoli splendevano maestosi.

Quell'attimo traditore gli fece perdere di vista le Orme Bianche. Erano svanite chissà dove, portandosi via anche sua eccellenza Mizar. "Dove lo porteranno? Avranno cura delle sue spoglie? Quanto avrei voluto potergli dare un più giusto saluto". Assieme alla tristezza, si fecero largo nel suo animo quei pensieri che, gravanti dal rimpianto, metterono in discussione il suo operato. Poté solo augurarsi che il suo signore giungesse infine nella Sera, oltre le porte della Notte, dove i Sogni degli uomini sono destinati alla felicità eterna e ad ammirare la Grande Casa.

La stanchezza infine lo sorprese. La vista della Grande Casa era eccessiva per molti uomini, per quanto stupenda. L'occhio poteva vagare senza fine, perdendosi nelle remote stanze degli dei. L'uomo però non era abituato a vagare così a lungo, né così lontano. Per questo, a lungo andare, bisognava distogliere lo sguardo dalla Grande Casa e riposare. Aulix faceva certo una singolare eccezione: poteva ammirare la Grande Casa più a lungo di chiunque, e vedere ben più lontano, nelle sue profonde stanze, di chicchessia. Sovente, era certo di sentire un canto provenire dai raggi lucenti del divino. Ma durante i Patti, quando il divino lasciava intravedere agli uomini la Grande Casa, Aulix spesso non avvertiva più il canto del Sole ma un altro, che per quanto faticasse a riconoscere, gli era da sempre parso familiare; e credeva che sovente gli parlasse, sebbene non capisse cosa gli stesse dicendo. Per questo amava guardare la Grande Casa: era convinto che vi fosse un qualche dio solitario, lassù, in cerca di compagnia. "Un pianto malinconico, più che un canto".

Ritornò infine nelle sue piccole stanze. Il silenzio lo accolse e accrebbe il suo malessere. Tuttavia, nelle coperte trovò un sufficiente riparo dal gelo dell'Ultima Ide. Si sistemò per bene, lasciando che le palpebre si chiudessero. Pesavano come macigni.

«Buonanotte, mio signore».

Scivolò nel falso dormire e il sonno che ne ebbe fu carico di nostalgia. 
   
 
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