Anime & Manga > Naruto
Ricorda la storia  |      
Autore: Silvar tales    08/11/2016    2 recensioni
Hidan si buttò sul primo letto che vide senza nemmeno togliersi le scarpe, e si mise a russare.
Deidara si tolse la giacca di pelle e si sciolse i capelli, Sasori si chiuse in bagno e Yahiko iniziò a spogliarsi, togliendosi i jeans e la camicia e indossando un paio di vecchi e scoloriti pantaloncini da beach volley assieme a una maglietta larghissima di Halo 5.
«Se vinciamo la prossima partita, siamo in finale. Se vinciamo la finale c’è caso che saliamo in C2», bofonchiò, sdraiandosi sopra le coperte e scompigliandosi i capelli arancioni.
«Grazie per avermi messo ansia alle quattro di mattino, capitano», ribatté ironico Deidara.

[Partecipante alla challenge "Le situazioni di lui & lei" indetta da Starhunter] [#11 il loro primo bacio]
Genere: Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Akasuna no Sasori, Deidara, Hidan, Yahiko | Coppie: Sasori/Deidara
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Sasori & Deidara - The Great Revival'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Match point
[
#11 il loro primo bacio]


Deidara adorava come le sue nuove adidas energy volley boost scricchiolavano sul pavimento plasticoso del campo da gioco. Adorava sentire la pelle umida di sudore, e già pregustava il dopopartita in cui si sarebbe lavato via tutto quel lerciume di dosso sotto una piacevole doccia ghiacciata.
Tuttavia, quel lerciume stava alquanto bene, ora, sui muscolacci delle spalle, delle cosce e dei polpacci, lasciati scoperti dai larghi pantaloncini bianchi e dall’ampia canottiera rossa. Lo rendeva più sexy e guerrigliero, tipo uno di quei feroci vichinghi che combattevano sempre in prima linea, con la faccia sporca di pittura, terra e sangue, l’ascia in mano e i denti digrignati.
In effetti, anche lui combatteva in prima linea.
Deidara, numero cinque, giocava sotto rete e si sentiva come Ivan Zaytsev. No, anzi, lui si sentiva parecchio più bravo di Ivan Zaytsev, anche se giocava in serie D e molto probabilmente la maglia della Nazionale l’avrebbe indossata solo nei suoi sogni più erotici.
Giocava nella Tarima Team, detta la TITTI, squadra esordiente di pallavolo maschile under 20, e in quel preciso istante stavano giocando l’ottavo di finale contro la Shiro Fantasy, una squadretta scialba e depressa di una cittadina di cinquantamila abitanti sperduta tra le colline e le campagne.
Mancavano due punti alla vittoria, il tabellone luminoso segnava 23 a 10, l’arbitro mostrava segni di impazienza, guardava continuamente l’orologio e sbuffava. Il pubblico, sebbene composto per lo più da mamme, papà, nonni, zie e cugini di terzo grado, era in uno stato di febbricitante suspense.
Ormai la partita era agli sgoccioli, e lui vi avrebbe posto fine.

Deidara si tormentò le dita fasciate, nervoso ed euforico al tempo stesso. Era il turno del numero otto di andare alla battuta, e Deidara diventò ancora più nervoso. Non che Sasori non fosse bravo, anzi, doveva ammettere che era un battitore eccezionale almeno quanto lui era uno schiacciatore eccezionale. Era proprio questo il problema.
Erano arrivati fin lì soltanto per merito suo, dei suoi muri puntuali e delle sue schiacciate mirabolanti, non voleva certo rischiare che quel nanerottolo gli rubasse gli ultimi due punti, e la gloria con essi.
Sasori sembrava così sicuro di sé, mentre con un sorrisetto da stronzo palleggiava in attesa del fischio dell’arbitro.
Finalmente l’arbitro soffiò nel fischietto, con l’entusiasmo di un condannato a morte, e Deidara si piegò con le mani sulle ginocchia, lasciandosi scappare un lungo sospiro. Lanciò una mezza occhiata ad Hidan, il ragazzo affetto da un leggero albinismo (e da altre cose parecchio più strane) che al suo fianco giocava nel ruolo di palleggiatore: quest’ultimo si fece il segno della croce al contrario, poi congiunse le mani in preghiera e chiuse gli occhi.
Deidara rivolse allora un’occhiataccia a Sasori, mentre contava i secondi.
Cinque, sei, sette.
Sasori aspettava sempre l’ultimo momento per lanciare, e anche stavolta non fece eccezione.
Otto.
La palla venne schiaffata nella metà campo avversaria con tale violenza che Deidara provò tanta pena per il braccio del povero ricettore (grazie al cielo non giocava in quel ruolo), il quale tuttavia riuscì a mantenerla in gioco, con un salvataggio da oscar (la battuta di Sasori era stata davvero tanto precisa e potente).
Deidara pregustava già il dolce soffio della gloria sulla sua pelle sudata. Gli avversari attaccarono con una schiacciata così timida che Yahiko, il loro difensore dagli assurdi capelli arancioni, non ebbe alcun tentennamento nella ricezione. Servì Hidan rimpallando con un bagher deciso, Hidan alzò con un docile palleggio e la mano santa di Deidara Iwa si coordinò perfettamente con il colpo di frusta del polso e il salto in alto delle gambe.
Questa volta era imprendibile. Più potente della battuta di Sasori, indirizzata precisamente nell’angolo destro del campo, sull’incrocio delle linee.
Deidara schiaffò il cinque a Hidan e ghignò strafottente all’indirizzo di Sasori. Si picchiettò il pollice sul petto e sillabò un l’ultimo punto è mio.
Sasori alzò gli occhi al cielo, ma evidentemente decise di accontentarlo perché la battuta successiva fu meno potente del solito, e molto più parabolica.
Così i contadini della Shiro Fantasy – come Deidara molto simpaticamente li definiva - non ebbero alcuna difficoltà nella ricezione, e Deidara poté chiudere la partita con un ultimo muro, accaparrandosi tutta quanta la gloria.
Un po’ come Achille quando sbarca per primo sulle spiagge di Troia, lasciandosi alle spalle tutta quanta la flotta greca. Almeno, così faceva Brad Pitt in Troy, lui mica l’aveva letta l’Odissea. O era l’Iliade?
Di qualunque poema vecchio come matusalemme si trattasse, a Deidara ora non importava un accidente, troppo occupato a godersi gli applausi dei suoi sostenitori e i fischi del tifo avversario.
Corse verso le tribune saltando agilmente la recinzione, e dopo un veloce ciao mamma fece l’occhiolino a una ragazza minuta, con i capelli nerissimi, il trucco pesante e lo sguardo inquietante. Aida, sorella minore di Hidan.
Fortuna che Hidan era un tipo poco sveglio, ma in ogni caso era meglio non venisse a sapere quali pompini strepitosi la sua dolce sorellina gli facesse dopo quasi ogni partita.

Deidara entrò negli spogliatoi venti minuti dopo i suoi compagni di squadra. La maggior parte di loro erano già sotto la doccia, e dai bagni si sentiva la voce sguaiata di Hidan che cantava welcome to the black parade.
Sasori era ancora in divisa, seduto sulle panche di legno, impegnato a messaggiare con chissà chi. Talvolta si passava la mano destra tra i capelli umidicci, scompigliandoli. Era un gesto che ripeteva spesso.
Deidara rise senza un apparente motivo, si tolse la canottiera e insieme i pantaloncini, le ginocchiere, le mutande, le calze e le scarpe. Appallottolò tutto quanto e lanciò quell’informe groviglio di vestiti sulla panca.
«Se puoi evitare di sbattermelo in faccia, sto bene lo stesso», osservò ironico Sasori.
«Non si sa mai ti venga voglia di succhiarmelo, in tal caso fai pure».
«Fai schifo», replicò il battitore, facendo una faccia disgustata. Ripose lo smartphone in una tasca interna del borsone, poi si tolse le scarpe, infilò le infradito e si diresse verso le docce con un asciugamano in spalla e in mano un bagnoschiuma scrub ai sali del mar morto.

Per festeggiare la quarta vittoria della stagione, la TITTI al completo decise di far baldoria facendo il giro di tutti i pub della città. Solamente Itachi, il solito guastafeste, era rimasto nella stanza d’albergo in stato vegetativo, con la scusa di dover recuperare le forze.
«Per me si ammazza di seghe fino alle sei del mattino», aveva detto Deidara con un sorriso da furbetto in faccia. Hidan era scoppiato a ridere, mentre Yahiko e Sasori li avevano guardati malissimo. Kakuzu si era limitato a sbuffare e a nascondere la faccia nel colletto della sua giacca.
Deidara non era mai riuscito ad andare d’accordo con Itachi Uchiha, il loro centrale. La rivalità tra loro aveva origini sconosciute, forse iniziava quel giorno in cui Itachi aveva servito l’attacco a Hidan invece che alzare la palla a Deidara, o forse iniziava quel giorno in cui Deidara era inciampato nel borsone di Itachi, rovesciandone a terra tutto il contenuto e scheggiandogli il vetro dell’iphone nuovo di zecca. La verità era che si odiavano a pelle, senza un motivo preciso.
Verso le due del mattino, nessuno sapeva come erano finiti in un lugubre locale di periferia che aveva tutti gli stereotipi di un night club malfamato. Posto accanto alla ferrovia, con l’insegna luminosa mezza fulminata, gente equivoca fuori dalla porta, e all’interno musica degna di un rave party. Ma la barista aveva le tette di fuori e l’alcol era a buon prezzo, quindi per Deidara non potevano capitare in un posto migliore.

Rientrarono in albergo alle tre e mezza del mattino, con Hidan che cantava a squarciagola una versione stonatissima e storpiatissima di we are the champions, appeso al braccio di Deidara. Si erano chiusi in ascensore, guadagnandosi occhiate assassine da parte del portinaio, e avevano raggiunto il secondo piano. Kakuzu aveva biascicato un buonanotte e si era diretto verso la stanza di Itachi, mentre gli altri quattro avevano raggiunto la camera numero 213. Una doppia spacciata per quadrupla, cui erano stati aggiunti due letti – o meglio, due brandine da carcerato – sotto la finestra.
Hidan si buttò sul primo letto che vide senza nemmeno togliersi le scarpe, e si mise a russare. Deidara si tolse la giacca di pelle e si sciolse i capelli, Sasori si chiuse in bagno e Yahiko iniziò a spogliarsi, togliendosi i jeans e la camicia e indossando un paio di vecchi e scoloriti pantaloncini da beach volley assieme a una maglietta larghissima con sopra Master Chief di Halo 5.
«Se vinciamo la prossima partita, siamo in finale. Se vinciamo la finale c’è caso che saliamo in C2», bofonchiò, sdraiandosi sopra le coperte e scompigliandosi i capelli arancioni – erano davvero tanto arancioni. Deidara non riusciva proprio a capire con che coraggio certe persone rovinassero i propri capelli con tinture, decolorazioni e fissanti vari. Lui non usava nemmeno la piastra, per paura di rovinare i suoi bellissimi capelli biondi.
«Grazie per avermi messo ansia alle quattro di mattino, capitano», ribatté ironico Deidara, trattenendo uno sbadiglio. Non aveva bevuto così tanto da essere ubriaco, ma nemmeno così poco da essere del tutto tranquillo. Sentiva una gran stanchezza gravargli sulle ossa, e al tempo stesso una voglia impellente di spaccare qualcosa.
«Sasori, esci da quel fottuto bagno? Devo pisciare», disse, buttandosi di peso contro la porta. Il tono era quello di uno che voleva attaccar briga senza motivo.
«Esco quando mi pare».
Yahiko alzò gli occhi al cielo, maledicendo Sasori per aver deciso alle quattro del mattino di rispondere alle provocazioni di un Deidara ubriaco, invece che limitarsi ad accontentarlo come aveva fatto con il match point della partita.
«Ragazzi, andate a letto, domani il primo allenamento è alle nove».
La porta del bagno si aprì di colpo, e ne uscì un Sasori con solo i boxer addosso, i capelli arruffati e la faccia rossa.
«Non preoccuparti capitano, puoi fare tutti gli allenamenti che ti pare, ma non arriveremo mai in C2, mai e poi mai», sbottò Sasori, e anche il suo tono era quello di uno che voleva attaccar briga.
Superò Deidara con una spallata e si diresse verso il proprio letto, iniziando a trafficare con lo smartphone fingendo di voler puntare la sveglia.
Ovviamente Deidara non lasciò cadere lì la provocazione. Sarebbe stato più probabile vedere il presidente degli Stati Uniti e il presidente della Russia dichiararsi amore eterno in diretta mondiale, piuttosto che vedere Deidara lasciar cadere nel nulla una provocazione.
«Parla per te, io arriverò anche oltre», ribatté a denti stretti.
«E lo vuoi sapere perché non ci arriveremo mai? Per colpa tua Deidara, perché sei un cazzo di moccioso viziato e arrogante. Perché credi di essere migliore di noi…»
«Io sono migliore di voi».
«Non abbiamo vinto solo grazie a te! È la squadra che ha vinto!»
«Ragazzi, andate a letto, dico sul serio… siete stanchi e avete bevuto troppo tutti e due», intervenne Yahiko, alzandosi dal letto e frapponendosi tra i due litiganti. Hidan invece si girò dall’altra parte, grugnì infastidito e nascose la testa sotto il cuscino. «Noi siamo una buona squadra, dobbiamo solo cercare di andare d’accordo», continuò il capitano, illudendosi di poter spegnere un incendio con un bicchiere d’acqua.
«E indovina per colpa di chi non andiamo d’accordo?»
«La tua è tutta invidia», ribatté Deidara, scoppiando a ridere in faccia a Sasori.
A quel punto, Yahiko dovette prendere Sasori di peso e spingerlo sul letto per evitare che alzasse le mani su Deidara. Non osava immaginare cosa sarebbe accaduto dopo.
«Siete dei coglioni, tutti e due. Sono le quattro e io voglio dormire, o volete davvero che chiami il mister, come per i bambini dell’asilo? O forse dovrei chiamare tua madre perché ti venga a prendere, Deidara?»
«Non è un problema mio», risolse il ragazzo biondo, scrollando le spalle e trascinandosi verso il bagno, contento di averla avuta vinta. «È lui che mi ha provocato».


*




Deidara non poteva crederci. Ma era solo un modo di dire, perché in realtà ne era sempre stato certo.
Era in finale.
L’umore della sua squadra non poteva essere più teso, ma a lui non importava un accidenti perché, diamine, stava giocando la sua finale di stagione in una palestra di ultima generazione con le pareti di vetro, il pavimento lucido come uno specchio, e gli arbitri con lo sguardo severo e intransigente.
Gli spalti non erano eccessivamente capienti, tuttavia erano gremiti di gente, anche se tra gli spettatori non c’erano né sua madre, né – con grande rammarico di Deidara – la sorella di Hidan. La città in cui giocavano era un po’ fuori mano, e sua madre non se l’era sentita di affrontare da sola il lungo viaggio in autostrada. Diciamo pure che aveva preferito starsene a casa davanti al camino a ingozzarsi di the e biscotti e a spettegolare con le sue amiche. Poco male, finché parlavano di quanto lui fosse bello, bravo e intelligente la cosa non gli dispiaceva affatto.
In compenso, tra la marmaglia di parenti assatanati e di sfegatati della pallavolo che affollava la tribuna, Deidara aveva notato un paio di tizi vestiti in modo un po’ troppo elegante per essere dei comuni tifosi domenicali. Sapeva che spesso, alle partite importanti come quella, erano presenti manager di club serie B o addirittura serie A, in cerca di nuovi talenti, e quei due avevano tutta l’aria di esserlo.
Lui dopotutto aveva diciott’anni, era proprio il momento giusto per compiere il tanto agognato salto di qualità.
Deidara sorrise, mentre come di consueto si fasciava le dita, si stringeva le ginocchiere e si sistemava i capelli in modo che non gli finissero davanti agli occhi.
Avrebbe dato il massimo.

Non avrebbe mai creduto di poter accumulare così tanta tensione in corpo. Erano passati quattro set, ne avevano vinti due e persi altri due.
Era stata loro concessa una breve pausa prima del famigerato tie-break, l’ultimo set, quello decisivo. Aveva bevuto la giusta quantità di acqua e amminoacidi, si era buttato un asciugamano sulle spalle per assorbire il sudore e aveva fatto un minuto di stretching.
Hidan si era seduto su una delle panche a bordo campo e stava sgranocchiando una barretta di cereali energetica, lo sguardo perso nel vuoto, come se versasse in uno stato buddistico di imperturbabilità e niente e nessuno al mondo potesse disturbarlo dalla sua contemplazione del nulla assoluto. Più probabilmente perché Hidan era troppo scemo e troppo menefreghista per provare una sensazione complicata come l’ansia.
Sasori e Yahiko stavano ascoltando attentamente gli altisonanti discorsi motivazionali del loro mister. Infine, Itachi e Kakuzu erano scomparsi negli spogliatoi.
Quando gli arbitri avevano deciso che la pausa era durata fin troppo, Deidara aveva fatto un’ultima corsetta sul posto, poi si era fiondato sotto rete, come se quello fosse l’unico posto al mondo dove si sentisse veramente a suo agio. Aveva indugiato con lo sguardo verso le tribune, felice di vedere che i due manager non se n’erano andati, anzi, sembravano parecchio interessati alla partita, e tra una chiacchiera e l’altra osservavano attentamente ogni giocatore in campo, come fossero degli animaletti particolarmente carini chiusi dentro al recinto di un parco faunistico.
Deidara cercò di svuotare la mente, mentre il fischio dell’arbitro dava inizio all’ultimo set.

Fu un vero e proprio testa a testa, una di quelle battaglie troppo equilibrate in cui non rimane nessuno vivo.
Il tabellone luminoso segnava 14 a 15, la TITTI era in vantaggio. Un vantaggio piccino piccino che dava la stessa sicurezza di un casco da moto slacciato.
Tuttavia, se avessero guadagnato il prossimo punto, avrebbero vinto. Avrebbero vinto, e Deidara non osava pensare cosa avrebbe significato vincere. Né osava pensare cosa avrebbe significato non vincere. Cercò di concentrarsi sulla sua mano preferita, le sue gambe, il pallone e nient’altro. Di solito gli riusciva facile.
Hidan gli alzò la palla secondo il loro schema abituale, Deidara si preparò a saltare e a spedire il pallone nel punto più scoperto del campo avversario. Ma qualcosa andò storto.
Forse aveva calcolato male i tempi, forse aveva saltato in modo troppo brusco e si era leggermente stirato il muscolo del polpaccio. Fatto sta che colpì la palla con la parte più morbida del palmo destro, e non riuscì a infondere abbastanza forza nell’attacco, né riuscì a direzionare bene la schiacciata. Cosicché ne risultò un attacco timido, debole e centrale, fin troppo facile da ricevere.
Deidara si morse le labbra mentre vedeva come al rallentatore la squadra avversaria recuperare la palla, eseguire due passaggi perfetti e sfondare le loro difese. Aveva tentato un muro, ma si era lasciato ingannare dalle loro finte e non era servito a nulla. La loro schiacciata, quella sì, era stata talmente potente e ben direzionata che Yahiko non aveva nemmeno visto la palla arrivare.
E ora erano 15 pari.
Il mister aveva cercato di spronarli urlando loro qualcosa che Deidara non aveva sentito. In compenso, aveva visto Hidan farsi nuovamente il segno della croce al contrario, e quello non era affatto un buon segno.
Alla battuta avversa ora c’era un ragazzone alto e lentigginoso che era entrato da poco in campo. Aveva una cascata di riccioli biondi che gli cadeva davanti agli occhi, e Deidara sperò che questo gli impedisse di tirare bene. Non aveva più tanta fiducia nella loro difesa, visto il modo in cui Yahiko si era fatto sfuggire la palla nell’azione precedente.
L’arbitro soffiò nel fischietto, e il ragazzo biondo alzò la palla per battere in salto.
Ebbene, quel ragazzo forse non aveva la precisione di Sasori, ma le sue battute erano sicuramente più potenti. Lo schiocco secco del colpo di frusta risuonò elegantemente nel silenzio della palestra, e la palla giunse con una violenza e una velocità inaudite sulle braccia di Yahiko, che tuttavia non riuscì a tenerla in campo. Il pallone finì sugli spalti, inutilmente rincorso da Itachi.
Avevano guadagnato un altro punto. Deidara non poteva credere che stesse accadendo davvero.
«Maaaaatch point!» disse uno degli arbitri, prima del fatidico fischio. Il battitore dai riccioli biondi rimase indifferente, freddo e calmo come se si trovasse in spiaggia e stesse giocando con i suoi amichetti a palla avvelenata.
Eseguì un’altra schiacciata, imperfetta ma travolgente come un’onda anomala. E stavolta Yahiko si tramutò in Gesù Cristo e compì il miracolo. Si tuffò deciso a pugno chiuso, e recuperò la palla prima che toccasse terra. Non solo, riuscì a farle compiere una parabola comoda comoda per servire Hidan.
Hidan mantenne il sangue freddo e alzò la palla a Deidara.
Deidara saltò, alzò la sua mano preferita, e colpì.
La palla cozzò contro la banda superiore della rete e non riuscì ad oltrepassarla. Venne sbalzata all'indietro verso la loro metà campo, per poi rimbalzare inerme a terra e rotolare placidamente verso il fondo della palestra, sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti.
L’arbitro fischiò per tre volte e dichiarò conclusa la partita.
17 a 15.
Avevano perso.

Era entrato negli spogliatoi prima dei suoi compagni di squadra, che fingevano di congratularsi con gli avversari e si sorbivano la ramanzina post-partita del mister.
Una ramanzina che in teoria sarebbe spettata anche a Deidara, peccato che lui l’avesse mandato silenziosamente a fare in culo prima che potesse iniziare a rimproverarlo, e aveva lasciato il campo da gioco prima che chiunque altro potesse dirgli qualsiasi cosa, cercando disperatamente di ignorare i due tizi in abiti eleganti che andavano a parlare con il ricciolone biondo e lo schiacciatore della squadra avversaria.
Era entrato negli spogliatoi sbattendosi la porta alle spalle, buttando malamente per terra le poche cose che aveva portato a bordo campo, la bottiglietta di acqua e integratori, l’asciugamano, la felpa con i colori della sua squadra.
Si sedette sulla prima panca che aveva trovato libera dai borsoni, abbandonò il viso tra le mani e pianse.
Tutta la tensione che gli innervava il corpo ora era stata sostituita dalla rabbia, dalla rabbia e dalla dura consapevolezza del suo fallimento. Un fallimento di quelli clamorosi, uno di quelli che bruciano, bruciano tanto anche a distanza di giorni. Ma no, di mesi, anni.
Uno di quelli che ti fanno capire che la maglia della Nazionale non la indosserai mai, e te lo fa capire con la stessa delicatezza di un auto che va a sbattere contro un muro ai cento all’ora.
Proprio in quel momento, la porta dello spogliatoio si aprì ed entrò, tra tutte le persone che potevano entrare, cazzo, Sasori.
Deidara tirò su con il naso e si passò il dorso della mano sugli occhi. Si chinò fingendo di volersi slacciare le scarpe, cosicché i suoi lunghi capelli caddero a nascondergli il viso.
Sasori venne a sedersi accanto a lui, senza emettere un fiato, senza un motivo apparente.
Anche Deidara non osò parlare, nemmeno per sbottare messaggi semplici, telegrafici e assolutamente ostili del tipo che vuoi?, vattene via, perché sapeva che non sarebbe riuscito a tenere la voce ferma.
«Hai intenzione di allacciartele o slacciartele quelle scarpe?» disse Sasori, vedendo l’altro in difficoltà con i lacci. Le mani gli tremavano.
In tutta risposta, Deidara se le sfilò di forza, anche se i cordoni non erano slacciati del tutto, e le lanciò dall’altra parte della stanza.
Così facendo, mise bene in mostra il suo viso arrossato, i suoi occhi liquidi e le tracce fresche delle lacrime. Tuttavia, Sasori non disse niente.
Deidara proprio non capiva. Non capiva perché gli era venuto appresso, non capiva perché non coglieva l’occasione per sfotterlo fino alla morte. Avevano perso la finale per colpa sua, ed ora lui se ne stava lì, a piangere negli spogliatoi, peggio di un bambino a cui avevano scarabocchiato il diario che correva subito a dirlo alla maestra. Era la dimostrazione di tutto ciò che Sasori aveva sempre sostenuto su di lui: che era un cazzo di moccioso viziato e arrogante, e che credeva di essere migliore di tutti gli altri senza esserlo davvero.
Rimasero in silenzio per pochi secondi ancora. Secondi pesanti e ingombranti che sembravano non passare mai. Sasori se ne stava lì, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani intrecciate, come se dovesse dire qualcosa di molto importante e non trovasse le parole per dirlo. Qualunque cosa avesse detto, sapeva benissimo che a Deidara non sarebbe mai importato.

Sasori alzò lo sguardo e lo diresse dritto negli occhi celesti di Deidara. Deidara non si alzò, non scappò via, non lo mandò a quel paese. Poteva dire e fare un milione di cose, poteva mollargli un pugno in faccia, poteva alzarsi e insultarlo, poteva contarsi i peli delle gambe, poteva continuare a fingere di slacciarsi le scarpe anche se le aveva già tolte.
E invece scelse di restare lì, a farsi baciare da Sasori.
Quello non era un bacio, era un errore di corrispondenza tra corpo e cervello, era il paradosso di un loop temporale, era come la relatività e la meccanica quantistica: non potevano essere vere entrambe.
Perché Deidara e Sasori avevano firmato un contratto invisibile in cui era stabilito che dovevano odiarsi e rimbeccarsi fino alla fine dei tempi, e perché ora si stavano baciando sulle panche di uno spogliatoio con ancora addosso la divisa sporca e con ancora la pelle umida di sudore. E Deidara stava tremando come una foglia.
«Hei, Deidara…» disse Sasori una volta che si furono separati, anche se non si allontanò di molto dal suo viso.
«Non hai giocato affatto male», concluse, stiracchiando le labbra in un sorriso imbarazzato.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: Silvar tales