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Autore: Silvar tales    10/11/2016    3 recensioni
Si incamminò lungo uno dei viali più trafficati e periferici della città, sentendosi tanto il protagonista di Boulevard of Broken Dreams. Si mise le cuffie nelle orecchie e fece partire il brano in questione, per poi interromperlo bruscamente dieci secondi dopo, rendendosi conto che non voleva prendersi così tanto sul serio.
A guardarla da lontano la sua vita doveva sembrare così patetica, così assurdamente drammatica. Doveva essere confortevole, staccarsi e osservarsi da lontano.

[Partecipante alla challenge "Le situazioni di lui & lei" indetta da Starhunter] [#12 canzone: “Bullet - Hollywood Undead”]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Akasuna no Sasori, Deidara | Coppie: Sasori/Deidara
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Sasori & Deidara - The Great Revival'
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Renaissance
[#12 canzone: “Bullet - Hollywood Undead”]


Quando la paura della morte ti investe con tale prepotenza che senti lo stomaco contratto, le orecchie fischiare e il cuore incepparsi.
Deidara l'ha provata, questa sensazione catastrofica, proprio sulla sua stessa pelle.
Era in una stanza d'ospedale quando gliel'hanno detto, una stanza d'ospedale che non sembrava una stanza d'ospedale. C'erano dei comodi divanetti in finto scamosciato, qualche pianta da appartamento con le foglie seghettate verdi e rigogliose, il muro bianco macchiato da alcuni disegni di bambini, e intervallato da una listarella di legno chiaro che rendeva il tutto più accogliente.
Il luogo più orrendo e terrificante del mondo. Il suo Auschwitz.
Era da solo, solo con quei due medici dallo sguardo forzatamente materno ad ascoltare le parole più apocalittiche della sua vita.
Non aveva più un padre, né tanto meno una madre. Non perché l'avessero abbandonato per loro scelta, anzi, l'avevano amato con tutto il cuore e con tutte le loro forze avevano cercato di sopravvivere per lui, per non lasciarlo solo.
Alla fine si erano spenti entrambi in quel reparto maledetto, quel girone infernale dove si trovava, ora, anche lui.
Deidara lo sapeva che sarebbe arrivato anche il suo turno, prima o poi. Da quando suo padre se n'era andato, aveva sempre percepito l'ombra della mannaia sul suo collo. Aveva provato con tutte le sue forze a fingere che non ci fosse, ma il filo della lama era calato sempre più in basso, sempre più in basso.
Ora, aveva raggiunto la sua pelle, ma l'avrebbe decapitato lentamente, molto lentamente.




*




«Deidara, riproviamo. E questa volta cerca di stare concentrato».
Dio, quanto sei antipatico Sasori.
Deidara sbuffò e si sistemò sul proprio sedile, impugnando più saldamente le bacchette e fermando con una mano lo strascico dei piatti.
Hidan approfittò della pausa per buttare malamente il basso a terra e togliersi la maglietta con il logo dei Gorillaz. La abbandonò su una sedia e rimase a petto nudo, curandosi di esporre le sue addominali sotto gli occhi della bella Konan, la chitarrista dai capelli tinti di blu e dagli occhi di un castano così chiaro che sembravano arancioni.
«Siamo pronti?» chiese nuovamente Sasori, tamburellando impaziente le dita sul proprio microfono e creando un fastidioso rumore di disturbo negli amplificatori. «Deidara, attacchi tu».
Deidara lo guardò in tralice, prima di ritentare l'attacco di Give Me Novacaine.
Questa volta fu anche peggio di quella scorsa. Aveva iniziato bene e aveva continuato discretamente fino al primo ritornello, poi si era perso, era andato nuovamente fuori tempo e addirittura una bacchetta gli era sfuggita di mano.
«Give me a long kiss goodnight and everything will be- no no no no!» Sasori aveva alzato gli occhi al cielo e Konan aveva smesso immediatamente di suonare. Hidan invece aveva continuato a grattare il plettro sulle corde del proprio basso come se nulla fosse accaduto.
Deidara aveva gettato via anche l'altra bacchetta, aveva sferrato un calcio al piedistallo del charleston e aveva lasciato quel vecchio scantinato muffito che usavano come sala prove trattenendo tra i denti un vaffanculo. Rivolto a nessuno in particolare, forse più a sé stesso che a chiunque altro.

Non lo aveva detto a nessuno, nemmeno ai suoi migliori amici. Le uniche persone che gli erano rimaste al mondo.
In realtà, non lo avrebbe detto nemmeno a sé stesso, ma per quello ormai era troppo tardi.
Avrebbe dovuto cominciare le cure due giorni prima, gli era arrivata una telefonata dall'ospedale per ricordarglielo, ma lui aveva riattaccato immediatamente e aveva salvato in rubrica il numero della segreteria del reparto sotto l’eloquente nome di do not answer.
Non sarebbe mai uscito vivo da quel maledetto pozzo. Lui non avrebbe mai e poi mai agonizzato per anni come avevano fatto i suoi genitori, dentro e fuori da quelle camere asettiche, e ogni anno che passava sempre più il tunnel si restringeva, finché non li chiudeva dentro.
Lui se ne sarebbe andato in fretta e furia, facendo molto casino, oppure guardando un tramonto, un'alba, baciando il ragazzo o la ragazza che amava. Senza sapere cosa nel frattempo succedesse nel suo corpo.
Ti dicevano tutti che da quel tunnel si poteva uscire, ti incoraggiavano ad entrare e a lottare con i tuoi mostri. Ma erano tutte balle per non farti impazzire di fronte all'inevitabile, di fronte alla tremenda verità che quel tunnel era un budello a senso unico e senza uscita.

Si era infilato nel primo supermercato che aveva incontrato sulla sua strada. Aveva comprato una dozzina di lattine di birra e una bottiglia di Jägermeister, aveva mostrato la sua carta d’identità alla cassiera per dimostrare di essere maggiorenne e aveva pagato usando i soldi della pensione di reversibilità dei suoi genitori.
Quando era uscito in strada, pioveva a catinelle, e questo se possibile lo abbatté ancor di più nello spirito. Era metà dicembre, avrebbe dovuto nevicare, non piovere.
Maledicendo il surriscaldamento globale e pensando, con amarezza, che la Terra era malata proprio come lui, si alzò il cappuccio della felpa verde muschio sulla testa, coprendo amorevolmente i suoi bei capelli lunghi. Amava i suoi capelli, era la parte del suo corpo che più aumentava la sua autostima.
Si incamminò lungo uno dei viali più trafficati e periferici della città, sentendosi tanto il protagonista di Boulevard of Broken Dreams. Si ficcò le cuffie nelle orecchie e avviò il brano in questione, per poi interromperlo bruscamente dieci secondi dopo, rendendosi conto che non voleva prendersi così tanto sul serio. A guardarla da lontano la sua vita doveva sembrare così patetica, così assurdamente drammatica. Doveva essere confortevole, invece, volare fuori da sé stesso. Staccarsi e osservarsi da lontano.
Raggiunse un campetto da skateboard piuttosto fuori mano, con il cemento crepato e le recinzioni di ferro arrugginite. Quel postaccio era decisamente in disuso, ma Deidara si sentiva come a casa sua tra quei muri scarabocchiati, tra i cocci rotti, la spazzatura e le siringhe.
Da quel non-luogo poteva rimirare lo squallore del mondo in cui viveva, poteva rendersene conto per bene. Ne era dentro ma, al tempo stesso, ne era fuori.
Si mise a sedere su un muretto mezzo diroccato che sporgeva su un precipizio di una decina di metri, rivolto sul cortile di un’enorme fabbrica che produceva diserbanti chimici. Il fumo usciva costantemente dalle ciminiere, bianco, sottile e inquietante.
Deidara aprì la prima lattina di birra, e la finì in pochi minuti. Ormai era completamente zuppo, dalla testa ai piedi, e la pioggia non accennava a diminuire, anzi, si era infittita.
Tirò fuori lo smartphone dalla tasca dei pantaloni e inserì nella barra degli indirizzi un url del deep web che aveva memorizzato nel block notes. Era proprio curioso di vedere quanto costava comprare una pistola.
Chiuse subito il browser perché costava davvero troppo.


*




Il cellulare squillò, risvegliandolo da uno stato subcosciente di dormiveglia.
Deidara si strofinò gli occhi e mise a fuoco la stanza. Da quando era rimasto orfano aveva sempre dormito nella camera da letto dei suoi genitori, usando la sua stanza dalle pareti blu tappezzate di poster e fotografie solo per studiare o per suonare la batteria. Quei tempi in cui ancora studiava e in cui ancora si divertiva a suonare la batteria.
Il cellulare stava ancora squillando, richiamava la sua attenzione canticchiando Bullet degli Hollywood Undead. Una canzone appropriata quanto inappropriata, un po’ come il lurido campetto da skateboard. Ecco, se avesse accolto gli accadimenti della sua vita con la stessa ironia di quella canzone, probabilmente se ne sarebbe andato in pace.
Deidara distolse lo sguardo dalla contemplazione del soffitto bianchiccio e afferrò lo smartphone. Sasori.
«Che c’è?»
«Ti sei dimenticato, vero?»
«Dimenticato di cosa?»
Sasori rimase in silenzio per alcuni secondi, e Deidara immaginò che stesse contando fino a dieci nel disperato tentativo di non perdere le staffe.
«Stasera, ore dieci, alla Tenda, indovina che succede?»
«Suona una band di merda?»
«Vaffanculo Deidara».
«Ma vacci tu!»
In uno scatto improvviso di rabbia, Deidara chiuse la chiamata e buttò il cellulare per terra, senza pensare che non poteva permettersi di spendere cinquecento euro per comprarne un altro nel caso si fosse rotto. Ma ormai non gliene fregava più un cazzo di niente. Non gliene fregava niente dei soldi, della band, di Sasori, della vita stessa. Voleva solo starsene in pace, ubriacarsi e aspettare la fine. Possibilmente avrebbe voluto crepare senza accorgersi di stare crepando, ecco, quello era il suo ultimo desiderio.
Poi si pentì.
Raccolse il cellulare – fortunatamente ancora integro – dal pavimento e richiamò Sasori.
«Deidara, muovi il culo e vieni qui. Vuoi mandarci a puttane la serata?»
«Non sto bene Sasori, davvero».
«Qual è il problema? Prenditi una tachipirina, un oki, un cazzo di qualsiasi cosa…!»
Deidara sentiva in sottofondo la voce alterata di Hidan che lanciava maledizioni, e anche se non la sentiva parlare poteva immaginare benissimo Konan a braccia incrociate che sbuffava e batteva il piede per terra. Ma come avrebbero potuto immaginare che…
«Io… io non ci riesco, scusami», concluse Deidara, prima di riattaccare nuovamente.
Crollò a sedere sul pavimento, spense il cellulare e abbandonò la schiena contro il letto, nascondendo il volto tra le mani.


*




Nello sportello del bagno aveva trovato dei vecchi medicinali, di quelli che non ti fanno sentire il dolore. Eppure, credeva di averli buttati tutti, una volta che non erano più serviti a nessuno.
Ora quella scatola di pastiglie sbatacchiava nella sua borsa a tracolla, assieme a due bottiglie di birra, un accordatore, due mallet e un paio di bacchette personalizzate piene zeppe di parolacce incise con il pirografo.
Come ogni sabato pomeriggio raggiunse il solito scantinato muffito dove si divertivano a strimpellare da quando avevano tredici anni e si chiamavano ancora i "Bat Boys" (nome palesemente scopiazzato dai Backstreet Boys). Poi erano cresciuti, e l’arrivo di Konan nel gruppo li aveva radicalmente cambiati. Lei aveva iniziato ad acculturarli sulla musica punk, e anche dal mero punto di vista tecnico era decisamente più brava di loro.
Sasori aveva una voce un po’ stonata come quella di Dexter Holland degli Offspring, però aveva un bel visino e sul palco faceva la sua figura.
Deidara aveva sempre seguito l’istinto, aveva iniziato a suonare la batteria nelle lezioni di musica delle scuole medie perché lui era un adolescente con una gran rabbia dentro, e sbattere un paio di bacchette di legno sui piatti e sui tamburi era un modo come un altro per sfogarsi.
Hidan, beh... Hidan era semplicemente un coglione che suonava il basso perché proprio la chitarra era meglio non la toccasse più in vita sua – almeno il basso era lo strumento che tra tutti si sentiva meno.
Infine, dopo l’inclusione di Konan non avrebbero più potuto chiamarsi i Bat Boys. Così erano nati i Cardinal.
Per alcuni mesi Hidan era stato entusiasta del nuovo nome, convinto che alludesse all’Ordine dei Cardinali della Santa Chiesa Cattolica Apostolica, per poi invece rimanerci malissimo il giorno in cui aveva scoperto che il nome, in realtà, si riferiva ai quattro punti cardinali. Sì, insomma, Nord, Est, Sud e Ovest.

«Ti sei deciso a ricomparire», commentò Sasori, guardando di sottecchi Deidara. «Stai meglio ora?»
Deidara deglutì a vuoto. Rifuggì lo sguardo inquisitore di Sasori e posò la tracolla a terra. Oh, se avesse potuto con la stessa facilità posare a terra tutto il peso e il terrore che gli gravavano addosso…
«Sì, sto meglio», concluse, sistemandosi sullo sgabello davanti alla batteria, controllando che fosse tutto in ordine. «Konan e Hidan?» chiese, cercando di cambiare argomento.
Sasori alzò gli occhi al cielo, poi scosse la testa. Sembrava irritato, ma non lo era per davvero, perché Deidara notò un sorrisetto guizzare sulle sue labbra. «Indovina?»
Di fronte allo sguardo spaesato di Deidara, Sasori sospirò e si decise a svelare l’arcano: «è da dieci minuti che sono chiusi in bagno, ma sicuramente sono io che penso male e staranno solamente discutendo sulla fame nel mondo».
Rimasero qualche secondo in silenzio, poi scoppiarono a ridere. E in quella risata Deidara riuscì a liberarsi per un attimo, per un solo caduco sfuggente effimero attimo, di tutti i suoi mostri.

Tre ore dopo si trovava nuovamente con le gambe penzoloni nel vuoto, affacciato su quel cortile squallido di quella fabbrica di diserbanti.
Aveva declinato l’invito alla tradizionale pizzata che i suoi amici organizzavano dopo ogni sessione di allenamento musicale, tirando fuori la prima scusa che gli era saltata in mente e risultando davvero poco credibile. Sasori l’aveva guardato storto, ma poi non aveva indagato oltre e l’aveva lasciato andare.
Questa volta il cielo era sereno, ma faceva un freddo cane e quasi tutti i lampioni del circondario erano rotti. I profili delle rampe da skating, dei comignoli delle ciminiere e dei piloni del cavalcavia stagliati sul blu pastoso del cielo crepuscolare creavano un quadro oscuro e minaccioso. In lontananza, oltre la nebbia dell’inquinamento atmosferico e luminoso della metropoli, si scorgevano gli ultimi bagliori del tramonto.
Era forse quello il momento giusto per morire, il luogo giusto in cui morire?
Deidara se l’era immaginata diversamente.
Mandò giù una manciata di pasticche assieme a un lungo sorso di birra, pregando che l’alcol mischiato agli antidolorifici creasse un mix fatale. Ma non sentì nulla, a parte un leggero insignificante stordimento e un formicolio alle dita delle mani. Probabilmente i farmaci erano scaduti da quel pezzo.
Preso dall’ennesimo scatto di rabbia, lanciò la scatola ancora piena per metà oltre il muretto. Cadde nel cortile sottostante, e le pasticche uscirono tutte quante fuori. La buffa parodia di una nevicata. Deidara pensò che avrebbe tanto voluto rivedere la neve prima di morire, ma ormai era tardi perché, pensò ancora una volta, la Terra, maledizione, era malata quasi quanto lui. Erano veri e propri compagni di sventura.
Ormai era tardi perché le sue mani stavano già facendo leva su quel muretto diroccato per spingere il suo corpo oltre il limite.
Si sarebbe aperto come quella scatola di medicinali?
Qualcuno lo avrebbe mai ritrovato, in quell’anfratto angusto e sporco, sul retro di una fabbrica assassina?

«Che stai facendo?»
Non appena sentì quella voce ebbe uno spasmo. Le sue braccia si rifiutarono di spingerlo oltre il muro, gelarono, e le sue mani artigliarono quei mattoni scrostati come se fossero l’ultima boa a cui appigliarsi in un oceano in tempesta.
Lui lo raggiunse come una furia, lo afferrò per la vita con tutta la forza che aveva e lo costrinse a voltarsi. A fargli voltare le gambe, almeno una gamba, verso il lato sicuro del muro.
Deidara aveva uno sguardo assente, come se guardasse attraverso il suo viso, attraverso i suoi occhi castani e furenti, attraverso i suoi capelli rossi e arruffati dal vento gelido della sera. Come se non lo vedesse per davvero, oppure come se fosse la prima volta che lo vedeva per davvero.
«Deidara…»
Sasori gli prese il viso tra le mani, non curandosi di affondare le dita nelle sue guance un poco ruvide di barba, non curandosi di fargli male. Gli prese il viso tra le mani, e lo guardò dritto negli occhi.
«Ora tu vieni a casa mia e mi racconti tutto. E se devi piangere, voglio che piangi».


*




Aveva ventisei anni, non viveva più nella casa della sua infanzia, piena di ricordi bellissimi e piena di morte. Viveva nella casa di Sasori, assieme alla famiglia di Sasori, che l’aveva accolto come un figlio adottivo.
Aveva ventisei anni, le ferite si erano ricucite e amava un ragazzo che lo amava.

Non era vero che il tunnel era senza uscita.
C’era una porticina stretta, alla fine. Una porticina stretta chiusa a chiave.
E Sasori ce l'aveva, quella cazzo di chiave.








Renaissance










Note dell’autrice:
Come da consegna della challenge a cui partecipa, questa storia è ispirata al testo di Bullet degli Hollywood Undead. Solo e soltanto al testo, perché non sono proprio riuscita a conferire al racconto quel tono distaccato e tragicomico che caratterizza la canzone, dove invece vi è un forte contrasto tra le parole e la musica che le accompagna.
Un’altra canzone che fa definitivamente da sfondo a questa storia, questa volta sia dal punto di vista del testo che dell’arrangiamento, è Renaissance, musica di Paolo Buonvino, testo e interpretazione di Skin (nonché colonna sonora della fiction I Medici).
Credevo di aver chiuso con le storie drammatiche, e invece ho scribacchiato questo raccontino (scritto male, davvero male). È una storia che sento molto parte di me, per questo la odio già, perché è tutto fuorché evasione. Nonostante ciò, l’ho scritta perché avevo bisogno di un lietofine. Se non fosse stato per il finale, molto probabilmente l’avrei cancellata l’attimo dopo averla conclusa. Invece, ho bisogno (abbiamo tutti bisogno) di credere che alcune storie finiscano bene.
Grazie per la lettura.
   
 
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