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Autore: Youth_    11/11/2016    2 recensioni
Le loro labbra si sarebbero scambiate dei sorrisi, e si sarebbero incontrate nei momenti più improbabili, quasi casualmente, baciandosi con l’affetto di chi, nonostante l’abitudine, perde ancora un battito alla vista di quello che i comuni mortali chiamano amore.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Leo, Ravi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gigli bianchi.
 
- Stanza numero ventiquattro, secondo piano-
- Grazie, lo so già-

Wonshik si ritrovò a scrutare per l’ennesima volta il sorriso cordiale dell’impiegata all’ospedale, cercando di distinguere la linea delle pallide labbra dalle rughe che costellavano un viso troppo amorfo per essere ricordato.
Eppure la vedeva ogni settimana, il lunedì e il mercoledì, come permettevano i suoi orari.
Erano gli unici giorni in cui usciva qualche ora prima del solito dall’ufficio.
Lasciava la sedia a qualche impiegato più precario, prendeva la sua ventiquattrore dalla chiusura difettosa, e si allentava finalmente la cravatta che sembrava strizzargli anche i polmoni, oltre che il collo sudaticcio, al quale non poteva provvedere di certo il condizionatore mal funzionante del piano, vecchio quanto l’edificio fatiscente in cui lavorava.
Vecchio quanto i sogni sopra i quali era stata costruita quell’azienda edilizia, i cui successi marcivano come le pavimentazioni.
Non gli era mai pesato troppo, prima di allora. Se ne accorgeva solo in quei momenti, quando tornava a casa e il capo condominio gli chiedeva esattamente il doppio dei soldi di quanto gli permettesse la sua busta paga.
Era tutto diverso, da nove mesi a quella parte.

Il tragitto che compieva non richiedeva mai abbastanza tempo.
Non importava quanto indugiasse sulla vista dei bambini che giocavano al parco, né quanto tempo ci mettesse ad attraversare gli incroci, con le macchine che gli sfrecciavano davanti alla ricerca del semaforo verde, né quanto ascoltasse, fingendosi interessato, i dilemmi esistenziali del fioraio, che gli avrebbe dato sempre gli stessi gigli bianchi, impreziositi da quello spray che sapeva di profumo chimico.
Non erano mai abbastanza, i secondi che lo separavano dall’entrata in ospedale.
Mai quelli che gli sarebbero serviti, per mostrare un viso sereno all’infermiera che lo aspettava dietro alla soglia della porta numero ventiquattro del secondo piano.
In quel momento, il suo miglior completo gli sembrava povero, stirato male, impregnato dall’odore di fritto che proveniva dall’appartamento sopra il suo. La sua colonia gli pareva più simile all’odore di disinfettante che impregnava i corridoi dell’ospedale, e i fiori sembravano appassire nella morsa convulsa delle sue dita attorno ai gambi umidicci.
Ma, ad essere sinceri, sarebbe mai stato abbastanza, per l’uomo che non lo aspettava, dietro alla soglia della porta numero ventiquattro del secondo piano?

Eppure c’era stato un tempo in cui l’aveva fatto sentire più che abbastanza.
Non avrebbe dovuto correre troppo indietro nella memoria; sarebbero bastati dieci mesi.
Quando gli occhi di Jung Taekwoon non volevano altro che la vista di Kim Wonshik, al risveglio come prima di dormire; quando le loro dita non avrebbero desiderato che di intrecciarsi, di cercarsi; quando le loro labbra si sarebbero scambiate dei sorrisi, e si sarebbero incontrate nei momenti più improbabili, quasi casualmente, baciandosi con l’affetto di chi, nonostante l’abitudine, perde ancora un battito alla vista di quello che i comuni mortali chiamano amore.
Perché Kim Wonshik e Jung Taekwoon erano meravigliosamente innamorati l’uno dell’altro, come del piccolo universo che avevano creato, nel piccolo appartamento comprato per quella che era sembrata loro una sciocchezza, nella periferia della capitale coreana.
Innamorati dei loro piccoli momenti, più che delle grandi dichiarazioni; si erano sussurrati il loro amore nei vicoli delle strade, sentendosi protetti dall’ebbrezza delle notti infinite, e alla luce del giorno l’eco delle loro promesse impreziosiva le cose apparentemente meno importanti.

Così Wonshik aveva imparato che a Taekwoon piacevano le passeggiate nei parchi, le visite del nipotino, i soprammobili in ceramica, i film giapponesi dalle tinte romantiche, essere chiamato “Leoncino”, anche se solo in privato.
Allo stesso modo, Taekwoon sapeva che il suo fidanzato avrebbe adorato dei cappelli per Natale, le cene con la tivù spenta, il caffè nero con poco zucchero a qualsiasi ora del giorno e della notte, gli auricolari di scorta, i viaggi senza cartina e le fotografie.
Avevano imparato ad apprezzarsi, e poi ad amarsi, nel silenzio interrotto solo dalla musica, quella passione che li aveva fatti incontrare, anni prima, nella palestra accomodata come sala prove di una scuola superiore.
Sarebbero passati cinque anni, prima che un brano di Elvis Presley in una caffetteria li riunisse.
Ci sarebbe voluto il doppio del tempo, per arrivare a non riconoscersi più.

Patologie di deterioramento cognitivo.
Si chiamava così, il reparto.
Lo stesso nome con il quale avevano etichettato le barelle delle stanze allineate nel corridoio color bianco sporco. Lo stesso cartellino che aveva immobilizzato quelle facce lente, ferme nell’attimo in cui il loro cervello aveva smesso di correre a passo con il tempo.
Taekwoon era uno di quei numeri.
Sdraiato sotto una coperta ruvida, che aveva lo stesso odore del pranzo che gli allungava l’infermiera, fissava il vuoto dei muri che segnavano il perimetro della camera.
Non la condivideva con nessuno. Era tutta sua.
Gli avevano detto che avrebbe potuto personalizzarla come meglio lo aggradava; bastava chiedere. Speravano che ricreare un ambiente familiare l’avrebbe aiutato, ma il ragazzo non sembrava avere gusti particolari, quindi non aveva mai sentito il bisogno di desiderare alcunché.
L’unica cosa che accettava erano fiori. Gigli bianchi, per l’esattezza.
Glieli cambiavano due volte alla settimana, e lui se ne accorgeva, anche se erano sempre gli stessi.
Non sapeva molto, del mittente; solo un nome, che non riusciva a tenere a mente per più di un’ora, e un volto, seminascosto dal camice dell’infermiera, che faceva in modo che il donatore se ne andasse il prima possibile.
Veniva puntuale, a mezzogiorno e trentacinque minuti, ogni lunedì e mercoledì.
Non era mai mancato a quell’appuntamento, così importante seppur breve e privo di interazioni; e Taekwoon era certo che, se mai fosse successo, non gliel’avrebbe mai perdonato.

- Wonshik, penso che lei abbia bisogno di risposte-
- Le sto aspettando da nove mesi-
Il corridoio era un luogo inospitale per le dichiarazioni. Il dottore lo sapeva, e avrebbe potuto scaricare quell’ingrato compito ad una delle sue dipendenti; ma non poteva fare a meno di provare una forte compassione nei confronti di quel ragazzo, così giovane, che non meritava di appartenere ad un posto come quello.
- La perdita di memoria del suo amico...-
- Fidanzato, signore- ribatté lui, i fiori ancora in mano, in attesa di essere consegnati:- Era... È il mio fidanzato-
Il dottore si sistemò l’etichetta sul camice, sospirando gravemente.
- L’incidente è stato molto grave. Il paziente ha reagito con molto coraggio. Che lei ci possa credere o meno, la parte cerebrale è meno lesa rispetto al resto. Il suo fidanzato ha frequente bisogno dell’aiuto delle macchine per la respirazione. Lei capisce che la sua precarietà è il motivo per cui lei non può fargli visita. Se non fosse stato uno sportivo, non si sarebbe mai ripreso dall’impatto...-
- Mi sta dicendo cose che so già- lo interruppe categoricamente Wonshik, abituato a quelle parole come veleno, distillato a piccole dosi, così incessantemente dall’ultimo periodo, da non averne neanche più paura:
- Cos’altro c’è?-
- Le sue condizioni fisiche necessitano di continuo apporto tecnologico. Non so per quanto tempo il corpo umano possa sopportare questo tipo di condizioni-
Wonshik aggrottò le sopracciglia. Le sue dita cominciarono a tremare, impercettibilmente.
La pessima confezione floreale gli stava sfuggendo di mano.
Non parlò, solo per non sentire la sua voce rompersi. Non voleva sentirsi crollare, lasciarsi cadere in basso, come stavano facendo i petali dei gigli in quel momento.
- Non voglio asserire certezze, ma è giusto che lei sappia che Jung Taekwoon potrebbe non tornare mai da lei. E nemmeno da tutti noi-

Bussarono tre volte.
Taekwoon sollevò cautamente il torace, abbandonando la posizione supina: - Avanti-
Lo sguardo gli cadde sull’orologio appeso al muro, che ticchettava incessantemente il percorso di un tempo che aveva dimenticato, un ritmo sul quale non sapeva ballare; erano passati quarantadue minuti da mezzogiorno, e il suo vaso di fiori era ancora lo stesso di due giorni prima.
Al posto del viso al quale si era abituato, però, quello del dottore che aveva accolto il suo caso nove mesi prima fece capolino dall’uscio, con un sorriso sbilenco:- Buongiorno, Taekwoon. Oggi mi sembri in forma-
Il ragazzo fece finta di essere divertito, e gli restituì una risatina poco convinta:- Sto bene. Dove sono i miei gigli?-
- Ce li ho qua io-
Il dottore si avvicinò cauto al suo letto; sostituì i fiori in fretta, e il paziente non riuscì a non notare che mancavano due o tre petali, e che le mani ruvide del dottore sembravano afferrare i gambi con troppa irruenza.
- Li ha comprati lei per me?-
- No-
Il tono perentorio lasciò Taekwoon molto insoddisfatto, ma si preoccupò di non farlo notare. Qualcosa sembrava turbare il medico, e quello stesso umore sembrava contagiarlo:- Signore, mi ricordi come si chiama il ragazzo che mi porta i gigli, per piacere. Non riesco mai a tenerlo a mente-
- Si chiama Kim Wonshik. E non devi ricordartelo per forza. Non è importante-
- Lo è, invece-
Il dottore gli rivolse un’occhiata apprensiva, la stessa con cui lo scrutava lo psicanalista:- Perché è importante, Taekwoon?-
- Vorrei saperlo-
Era una frase comune, che pronunciava almeno una volta ogni giorno, da nove mesi, senza doverci pensare troppo, ma non per questo suonava meno grave. Il medico cercò di rammendare un’espressione tranquilla, aggiungendo:- Non fa niente-
Si rammendò il camice, prendendo i fiori tra le mani, desideroso di buttarli nella spazzatura il prima possibile; non appena abbassò la maniglia, la voce di Taekwoon gli arrivò come un sussurro:- Lei lo sa, vero? Lei sa perché quel ragazzo viene tutte le settimane. Non me lo può dire?-
L’uomo ci pensò un attimo, poi scosse la testa, lo sguardo appesantito dalle lenti spesse degli occhiali.
Taekwoon annuì, poco convinto.
Sporse un po’ la testa, per vedere se quel ragazzo lo osservava dall’altra parte della porta.
Ma lui non c’era.

Jung Taekwoon morì il diciassette dicembre di quello stesso anno.
Accanto al suo letto non c’erano più fiori, dalle tre settimane precedenti al trapasso. Alcuni parenti, presenti solo il giorno del decesso, accusarono i medici di accanimento.
Non ci fu un funerale, e neanche una lapide. Il nome del ragazzo non fu scolpito su nessuna pietra.
Quel diciassette dicembre fu anche il giorno in cui Kim Wonshik si licenziò dal lavoro e lasciò l’appartamento. Nessuno volle più comprarlo; i muri spogli erano segnati da macchie di vernice, le sedie erano state rotte, i pavimenti macchiati. Il capo non si preoccupò mai di risistemarlo, né di chiedersi dove fossero finiti tutti gli oggetti che i due precedenti abitatori avevano collezionato nel tempo.
Una settimana dopo, cominciarono le ristrutturazioni di una vecchia tenuta di campagna. Non furono mai ultimate, ma coloro che passavano di lì si fermavano sempre ad osservare il campo di gigli bianchi che crescevano a ridosso della strada asfaltata, attorno alla casa, considerando un miracolo che quei fiori potessero fiorire in un terreno così povero.
 
Note di una squilibrata che si fa chiamare autrice

Ecco cosa nasce da un progetto dimenticato nei meandri delle mie cartelle, da un mal di testa cronico e dall’irrefrenabile voglia di rinascere da un pigiama troppo largo. Come al solito, mi auguro che le mie deliranti follie vi siano piaciute.
Capisco che il mio modo di scrivere non sia esattamente leggero, e molto probabilmente ancora rozzo; ciononostante, spero che qualche anima pia lì fuori possa trovare interessante queste mie pazzie.
사랑해!
 
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