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Autore: Dear Aunt Elladora    04/04/2005    4 recensioni
Tutti hanno paura della parola “ospedale psichiatrico” non che io li biasimi per questo. Biasimo le ragioni: hanno paura di qualcosa che non conoscono e che in realtà è molto peggio di come si immaginano.[...]
“Come sei magro” disse squadrandomi da capo a piedi, quasi dovesse accertarsi che fossi davvero io, che le stessero rendendo suo figlio intatto. Ci sono tutte le ossa e la carne ed i muscoli, mamma, è l’anima che è andata.[...]
Stare a casa era rassicurante quasi quanto la clinica: passavo ore ed ore a dormire o a fare silenziosi monologhi col soffitto.[...]
Mi dispiaceva ma io il ‘vecchio Alex’ non potevo ridarglielo perché avevo scordato chi fosse, l’avevo nascosto così bene da non trovarlo più.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Diary of a Mad Man

Diary of a Mad Man

1

Mia madre mi venne a prendere un pomeriggio. Non avevo la benché minima idea di quanto tempo fosse passato da quando ero li. Ricordo solo le voci e delle immagini frammentarie di me stesso sdraiato con mille persone intorno, ricordo il lavandino squadrato come quelli dei bagni delle scuole elementari, il tubo in gola ed il mio stomaco che ci si rivoltava dentro. Quando mi sono alzato, mi hanno detto di fare la valigia, ho preso i due stracci che pendevano dalle grucce nell'armadio ed i libri sulla scrivania ed ho fatto un cenno con la testa a Sandro, che come al solito se ne stava lì con gli occhi sbarrati al soffitto. Un movimento quasi impercettibile nel suo sguardo fu il suo segno di saluto.
Stavo uscendo e ne ero del tutto terrorizzato, terrorizzato ed euforico, ero di nuovo libero e non sapevo che farci. 
La dottoressa Curti mi investiva tutta contenta con una raffica di parole benevole di cui non riuscivo ad afferrare neanche la metà, come potevo con tutto il litio che mi davano? Meno male che lei è il dottore che mi ha in cura e dovrebbe avere un'idea degli effetti della merda che mi fa ingurgitare. Sono in mano ad un incompetente… Ammesso che esistano strizzacervelli competenti.
"Allora Alex" mi fece con un sorriso a trentadue denti "Questo pomeriggio viene tua madre a prenderti e finalmente te ne torni a casa, hai fatto veramente tanti progressi da quando sei qui che…" La fissai per un momento annuendo con il capo per farle intendere di aver capito quando la mia testa era più confusa che mai. Miglioramenti? Quali miglioramenti?? L'unico cambiamento che vedevo era che invece di essere violento, falso e nevrotico, ero un vegetale imbottito di una quantità di pillole che, nei rari momenti di lucidità, si imbarcava in dissertazioni atte a smontare ogni sua teoria sulla mia malattia.
Guardai la donna che avevo davanti e sorrisi. Era l'immagine perfetta della professionista infilata nel suo tailleur griffato, truccata in maniera impeccabile, con i capelli castani riflessati di rosso, tagliati in modo da sembrare ordinata in qualunque occasione. 
Pensai: Dottore lei non c'ha capito un cazzo, ma tanto non sono io a dover decidere quindi faccia un po' come le pare. 
Se non altro a casa avrei mangiato decentemente e non mi sarei dovuto sorbire la triste immagine dei mie compagni di esilio. Mi facevano paura, temevo che ad un certo punto sarei arrivato al non ritorno anche io, che sarei finito in totale catatonia davanti alla TV. Sarei morto piuttosto. Ed, in effetti, era quello che avevo tentato di fare più volte: togliermi di mezzo per non prendermi la briga di sopportare l'impotenza contro i giochi della mia testa.
La dottoressa continuava il suo monologo senza mai prendere fiato, se non quando veniva interrotta dai miei brevi cenni di assenso o diniego a seconda della situazione.
"Naturalmente" diceva con fare molto professionale "Dovrai continuare a venire in terapia almeno due volte alla settimana e a prendere le medicine che ti prescriverò con regolarità. Ma, a parte questi piccoli inconvenienti, sono più che convinta che potrai riprendere la tua vita in modo più che normale"
Annuii per l'ultima volta cercando di rendere la mia faccia di solito bianca come un disegno appena accennato, abbastanza espressiva da farla smettere di parlare. Odio le persone che parlano troppo.
Contento, dovrei essere contento?? Ma se non sono mai stato contento in vita mia.
Come potrei esserlo per una banalità simile?? Vita normale poi? E lei chiama normale una vita schiava delle pillole e di conversazioni inutili? Avrei voluto gridarle addosso mille insulti e dirle di lasciarmi in pace ma il litio teneva le mie reazioni a bada, quindi mi limitai a tacere.

La giornata proseguì come le altre, fino all'arrivo di mia madre. Non ricordavo la sua faccia e il suo odore, l'unico odore che sentivo era quello freddo del disinfettante della clinica.
Entrò e sorrise. Mi sorrise credo. Fu come se la vedessi per la prima volta: una donna alta e bionda, dai lineamenti aguzzi come i miei. L'immagine era sfuocata: sbattevo le palpebre per vederla meglio ma era troppo faticoso quindi preferii lasciar perdere.
"Ciao tesoro" mi accarezzò la testa e credetti di scorgere preoccupazione nei suoi occhi.
"Come sei magro" disse squadrandomi da capo a piedi, quasi dovesse accertarsi che fossi davvero io, che le stessero rendendo suo figlio intatto. 
Ci sono tutte le ossa e la carne ed i muscoli, mamma, è l'anima che è andata.
Non risposi, rispondere mi richiedeva capacità di concentrazione e un interesse che non avevo. Volevo solo tornare a casa e chiudermi nella mia stanza senza che nessuno mi disturbasse.
Non proferii parola per tutto il tragitto non rispondendo a nessuna delle domande che mi poneva, cercava di essere affabile e sorridente ma credo che sotto sotto cercasse di scorgere i progressi per cui ero stato dimesso.
Mi scrutava di sottecchi ed io me ne stavo lì guardando fisso il parabrezza che rifletteva il sole. Non ero stato così a contatto con aria e sole da anni eppure mi scivolava tutto addosso, tutto sembrava statico e dipinto. Volevo la mia stanza e la sua penombra, volevo litio ed oblio. Improvvisamente la libertà tanto agognata mi spaventava. Cosa avrei fatto della mia vita? Sarei dovuto nuovamente venire a contatto con il mondo esterno e le persone… non ero pronto. Il dottore poteva dire quello che le pareva ma non ero pronto.
Casa mia, la casa di Roma. Una villetta dal prato perfetto, verde e brillante, il portico ben curato, una casa yankee in tutto e per tutto così simile a quella in cui vivevamo in America da darmi la nausea. Tutti i ricordi che ho di New York mi danno la nausea. Sono legati a quel simpatico personaggio che è mio padre, quello che mi diceva che fare l'artista era uno spreco, che avrei dovuto sfruttare il mio altissimo QI per fare dell'altro, per diventare parte integrante della sfolgorante società della East Coast. Il particolare che io disprezzassi tutto ciò che era convenzione fin da molto piccolo non sembrava toccarlo più di tanto: ero suo figlio, dovevo essere come lui.
Scesi dalla macchina e mi venne da vomitare, non volevo entrare, non mi sentivo al sicuro, ci avevo vissuto talmente poco tra quelle mura che le sentivo estranee, la sensazione di guscio era del tutto smontata.
Mi guardai attorno smarrito, i piedi sull'erba sembravano sprofondare e tutto intorno girava, mia madre mi diede una leggera spinta.
"Sei a casa finalmente. Will non vede l'ora di rivederti" la guardai vacuo e proseguii per il vialetto con i miei piedi pesanti e la mia paura.
Will, mio fratello. Chissà se era cambiato o era rimasto sempre il solito ragazzino magro con gli occhiali ligio al dovere. Senza di me si sarà fatto sottomettere sicuramente. Avrei dovuto rimproverarlo, ma ero stanco, tanto stanco. Volevo solo mettermi a letto e chiudere la testa.
La mia camera era immacolata, vecchie stampe di arte moderna sulle pareti asettiche, il mio letto basso ad una piazza e mezza ed il tavolo da disegno, naturalmente. Vederlo mi diede un barlume di emozione e per un momento vidi la mia immagine seduta con la matita in mano. Disegnare mi faceva felice, questo lo ricordavo.
Mi accartocciai sul letto in posizione fetale e chiusi gli occhi. Passi sulle scale e Will che si affacciava alla porta. Biondo sorridente e molto più alto di quanto ricordassi.
Sembrava felice, veramente felice di vedermi.
"Welcome back bro" disse scodinzolando come un cucciolo.
Io non riuscivo neanche a mettere a fuoco la sua faccia, non mi interessava, lo fissai e poi chiusi gli occhi volevo dormire.


2

Stare a casa era rassicurante quasi quanto la clinica: passavo ore ed ore a dormire o a fare silenziosi monologhi col soffitto. Sa essere un ottimo ascoltatore il soffitto: non ribatte e non giudica. Ignoravo qualsiasi tentativo di contatto con i miei. Will e mia madre sembravano addolorati per questo ma non me ne fregava nulla, stavo già abbastanza male da solo senza dovermi prendere il loro, di male. Faticavo a vivere per me stesso, non avevo alcun interesse a comunicare con gli altri. Non parlavo mai. Per un po' credetti di aver perso totalmente il dono della parola, anche quando, in barlumi di coscienza, mi veniva da dire qualcosa, le parole si soffocavano nella gola e non venivano fuori. Will e mia madre rinunciarono anche se si occupavano di me con la massima attenzione. Si preoccupavano che prendessi le mie pillole agli orari giusti, che mangiassi regolarmente e che non saltassi nessun dannato incontro con la dottoressa.
Mi sembravano stupidi. Se ricordavano quello che ero stato, visto quello che le istituzioni mediche gli avevano reso, come potevano fidarsi di quella donna??
Se non altro la loro vita scorreva come al solito senza che la mia inutile presenza (o forse dovrei dire assenza) li toccasse più di tanto.

Dopo un mese e mezzo di catatonia mia madre prese in mano la situazione: fissò un incontro con la strizzacervelli e mi guadagnò un notevole abbassamento delle dosi dei farmaci. Pian piano ripresi lucidità e spirito di osservazione, anche se mi faceva comodo continuare a fare la mummia: rendeva le cose notevolmente più semplici e mi permetteva di studiare il nemico senza che se ne accorgesse. Per me ogni altro essere umano era il nemico, anche mia madre e mio fratello.
L'unico effetto collaterale della cosa fu che smisi del tutto di dormire o quasi, era come se tutte le ore accumulate mi si ripresentassero sotto forma di energia. Energia che non sapevo dove incanalare. Pensavo, pensavo continuamente e buttavo giù riflessioni sul piccolo portatile che mi avevano regalato. Il sonno dei miei era disturbato dal picchiettare delle dita sulla tastiera. Non riuscivo ancora a riprendere a disegnare, guardavo il tavolo sospettoso, la mia testa gli aveva donato un identità umana, finivo per parlargli come se fosse vivo.
Il mio più grande timore era di non esserne più capace. Immaginavo di prendere la matita e di non riuscire a riprodurre nulla, solo scarabocchi senza senso.
La paranoia si affacciava sadica ed io tornavo alla realtà nell'unico modo che conoscevo: ferendomi. Sanguinare mi ricordava di essere vivo e non faceva male. Non aveva mai fatto male. Forse un poco all'inizio… Ho iniziato prestissimo, a quattordici anni circa, a capire che la mia testa aveva meccanismi diversi dalle altre ed andava per questo trattata in altro modo. 
Se faceva le bizze bastava prendere un taglierino incidere la carne e… et voilà: tutto tornava a scorrere come prima. Non sentivo più voci né echi ridondanti e la quiete era bellissima.


3

Vidi Micol la prima volta, o meglio, la notai per la prima volta, un pomeriggio in cui, come era abbastanza consueto, stava studiando con mio fratello in cucina.
Avevo fame. Dal piano di sopra sentivo la voce compita di Will che spiegava qualche noiosa formula matematica. Volente o nolente se volevo mangiare avrei dovuto passargli davanti. Mi dissi che non ero costretto ad interagire se non mi andava. Tutto quello che dovevo fare era aprire il frigo.
La ragazzina alta dai capelli rosa guadava fuori dalla finestra, per nulla interessata alle equazioni, i suoi occhi seguivano vigili il volo di una mosca e sbadigliava in continuazione.
Will stava spazientendosi e la rimbrottava continuamente.
A piedi scalzi attraversai la cucina ed i due si zittirono d'improvviso. Sentivo i loro occhi su di me che scrutavano ogni movimento. Quelli di mio fratello erano speranzosi e quelli di Capelli Rosa curiosi, quasi avesse visto un essere mitologico. Senz'altro Will le aveva parlato di me.
Mi voltai un attimo e la guardai, lei si strinse nelle spalle come percorsa da un brivido di freddo. Dicono che i miei occhi sono freddi, di un verde talmente inteso da sembrare innaturale.
Will tentò un approccio ed io lo ignorai attirandomi addosso la furia di Capelli Rosa, che scoprii chiamarsi Micol. 
Risi.
Per la prima volta e di gusto. Era strano sentire la mia voce nuovamente, strano sentirmi ridere. Ma lei era così concitata nella sua crociata in difesa di Will e lui così terrorizzato che le potessi far del male che non potei impedirmelo.
Credo che fu il primo momento in cui mi resi conto di avere un fratello, che l'adolescente smilzo con gli occhi blu che mi sovrastava ormai di abbondanti dieci centimetri era il bambinetto che mi gattonava dietro, che mi idolatrava e temeva allo stesso tempo, era quello per cui avevo tentato con tutte le mie forze di evitare che diventasse il bravo soldatino di papà. 
Forse sono impazzito per scappare da mio padre, forse era l'unico modo per cancellarlo e lo odiavo (lo odio) a tal punto da sacrificare me stesso per farlo sparire dalla mia vita. 
Ebbi un moto d'amore verso Will quel giorno. Come l'odio, anche l'amore andava e veniva ad ondate di calore, gli arruffai i capelli e gli dissi di stare attento: quella ragazza a mio parere lo teneva in pugno senza neanche rendersene conto.
Le lanciai un ultima occhiata prima di salire e lei per un momento trattenne i suoi occhi grigi nei miei prima di distogliere lo sguardo. 
Dalla mia stanza li sentivo parlottare di me. Willino le raccontava con dovizia di particolari di come il suo brutto fratellone cattivo aveva faticato ad accettate la sua famigliola perfetta e di come lui, nonostante questo, mi amasse. Lo sentii dire che gli mancavo e che avrebbe voluto indietro il vecchio Alex… Mi dispiaceva ma io il 'vecchio Alex' non potevo ridarglielo perché avevo scordato chi fosse, l'avevo nascosto così bene da non trovarlo più.
Il mio vecchio io. Capelli rosa, Micol, lo consolava e ad un tratto fui geloso, violentemente geloso. Volevo il calore di quelle parole per me.
Per fortuna i cari consanguinei avevano una vita sociale abbastanza attiva che mi consentiva lunghi, meravigliosi momenti di solitudine, adoravo il silenzio della casa, adoravo camminare per le stanze vuote senza avere i loro occhi preoccupati addosso.
Suonò il campanello. Capelli Rosa aveva deciso di riprendere la sua crociata per la felicità di mio fratello, una felicità che, secondo lei, era riposta nelle mie mani. La osservavo mentre con le labbra tremanti e lo sguardo che vagava da una parte all'altra del salone mi esponeva la sua teoria di riavvicinamento. Mi faceva tenerezza e mi irritava allo stesso tempo. Sembrava che stesse ripetendo la pappardella dell'esame di maturità ad un professore particolarmente arcigno. Stetti in silenzio tutto il tempo poi la aggredii e le proposi uno scambio. Mi divertiva giocare con lei.


4

Io e Micol abbiamo passato due giorni insieme, i due giorni che mi aveva promesso se avessi fatto il bravo, se avessi rispolverato il vecchio Alex, o almeno parte di esso, a beneficio di Willino. L'ho portata in giro per Roma e mentre lei mi faceva da cicerone per i ruderi io le correggevo l'inglese, che dovetti mio malgrado ammettere essere piuttosto buono.
Sorridevo affascinato dalla bellezza del posto e certe volte mi incantavo talmente che doveva scuotermi da quel torpore estatico.
"Ehi You there??" chiedeva quando mi soffermavo troppo io mi limitavo ad annuire distrattamente e ad ascoltarla. 
Dopo uno di questi momenti di estraniazione totale mi voltai per chiederle cosa fosse una particolare colonna e non la vidi più.
Ero totalmente paralizzato dal terrore, solo, in mezzo ad una moltitudine di turisti, di gente, di nemici e mi sembrava che tutti mi guardassero e le facce rosse per i caldo si deformavano in ghigni crudeli. Volevo un valium, uno xanax, l'intera gamma delle benzodiazepine, qualunque cosa che mi permettesse di muovermi. Odio i farmaci e ne sono completamente schiavo, quando mi prendono panico ed allucinazioni, quando il mio dannato corpo si ribella alla volontà e le terminazioni nervose vanno in corto totale. 
Le gambe erano dei pezzi di ghiaccio, gli occhi sbarrati ed il cuore che batteva a mille, sembrava pronto a sbalzarmi fuori dal petto. Non riuscivo a muovere un passo e pensavo che sarei morto d'infarto lì, se non fosse tornata. Neanche la conoscevo e già iniziava ad essere indispensabile.
La vidi correre verso di me talmente in ansia da non vedermi affatto, il mio braccio scattò meccanico ad afferrare il suo ed eravamo occhi negli occhi.
"Scusa" mormorò. Aveva paura di me, paura che reagissi malamente, ignara che fossi ancora più terrorizzato di lei.
Hanno tutti paura di me. Tutti hanno paura della parola "ospedale psichiatrico" non che io li biasimi per questo. Biasimo le ragioni: hanno paura di qualcosa che non conoscono e che in realtà è molto peggio di come si immaginano. E' estraniante, una realtà a sé, una specie di casa del terrore di un luna-park, tutto ti spaventa e tutto è finto, persino le tue sensazioni, ovattate.
Non lasciai la mano di Micol per tutto il tempo. La stringevo nella mia e me la trascinavo dietro incurante che fosse esausta.
Aveva il viso accaldato e i capelli appiccicati al viso, immaginai quanto dovessero farle male gli anfibi che indossava. Sogghignai: solo una ragazzina, poteva portare anfibi d'estate e camminarci per ore. Lei non fiatava, mi seguiva continuando a leggere stralci di guida per il mio piacere. In seguito avrebbe fatto tutto per il mio piacere, sarebbe vissuta per questo.
Mi portò alla sua casa sul lago, un delizioso cottage, che sembrava uscito indifferentemente da un libro di fiabe o da Vogue.
Nulla era lasciato al caso. Dalle tendine al più minuscolo sopramobile, tutto faceva capo ad un disegno, alla precisa idea che la padrona aveva di come doveva essere una casa. Mi faceva strano. Mia madre è sempre stata una donna molto pratica, casa nostra era curata ma essenziale, priva dei fronzoli, dei dettegli che contraddistinguevano questa.
Le foto mi catturarono immediatamente. La famiglia di Micol sembrava felice. la famiglia del mulino bianco in versione deluxe. Il padre un bell'uomo i cui lineamenti ricordavano paurosamente quelli di Micol, la madre e la sorella che sembravano due diverse versioni della stessa persona, bionde dai lineamenti cesellati, occhi chiari…perfette.
L'aria scoglionata di Mick stonava con tutta quella perfezione, quasi volesse farti capire che era tutto finto come l'immagine di una rivista patinata.
La scompostezza dei suoi lineamenti, mi piaceva, il naso minuto, la bocca troppo grande e larga, gli occhi grigi con le ciglia che parevano intrise nella china, tanto erano più scure rispetto alla sfumatura quasi bionda dei capelli, il rosa era sbiadito lasciando posto a un castano pallido.
Guardammo la TV per ore, infilati in una tuta sbrindellata. Micol fissava lo schermo, sorridendo di tanto in tanto. Il vecchio film sui cavalli doveva piacerle proprio.

  
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