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Autore: Lodd Fantasy Factory    14/11/2016    1 recensioni
Il ricordo di un uomo incastrato dalla malattia nel proprio passato.
Questo è il potere di qualcosa di apparentemente insulso, come una malattia senza cura, in grado di renderci tanto fragili.
I ricordi costituiscono ciò che siamo. Senza, non siamo che involucri vuoti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- In un giorno di pioggia
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Il rombo dei tuoni percuoteva l'aria, e lo sfolgorio dei lampi apriva il cielo come si trattasse di pagine di un libro ancestrale. Le stelle parevano milioni di piccole lettere incise sulla primordiale carta dell'etere, per quanto impossibili da decifrare. Gli provocava una sensazione di impotenza; eppure, al contempo lo rigenerava l'idea che tutto fosse lì, così chiaro davanti ai loro occhi, ma gli uomini non fossero ancora riusciti a comprenderlo.

Lo scroscio della pioggia contro le finestre era da sempre stato un sottofondo ipnotico per lui, quasi la colonna sonora della sua vita. Nei momenti in cui tutto pareva andare storto, gli bastava ricercare la pioggia per sentirsi al sicuro. Quando non percorreva chilometri per andare incontro ad un temporale, si sedeva comodo sul divano, abbassando tutte le luci, per ascoltare da un CD consumato lunghe ore di burrasche tropicali. Si ritrovava sempre a chiedersi come facessero ad incidere tanto bene su disco quei suoni, sospettando addirittura che fosse tutto artificiale. Ma era fortemente convinto che una tale sofisticata magia della natura fosse impareggiabile, ineguagliabile, impossibile da replicare.

Quello che condivideva con la pioggia era un legame che aveva sempre faticato a spiegare con le sole parole. Erano tutte le sfumature che portava con sé a renderla tanto speciale, unica; quel profumo che invadeva d'un tratto le strade, prevalendo su ogni altro, come un'amata regina che si palesava davanti ai propri sudditi; la freddezza delle perle di cristallo che si avventuravano fra gli abiti, e sgusciavano sulla nuda pelle, come a ricordargli di essere vivo. Non aveva mai utilizzato un ombrello, beandosi del vellutato e talvolta greve bacio del plumbeo cielo.

Il suo scuro cappello, che rivelava con orgoglio la sua passione per i Western, amava deporlo per lasciar bagnare i biondi e lunghi capelli. Se ne stava con i suoi piccoli occhi color nocciola all'insù, sorridendo. Quanti lo avevano additato come un folle, e quante volte aveva sentito le stesse domande? Riteneva che il mondo si fosse lasciato trasportare così tanto dai propri problemi, da arrivare a dare per scontato un evento pregno di tanta maestosità. Per quanto strano, aveva spesso diffidato da chi detestava la pioggia.

«Che fa là sotto? Con tutta quest'acqua che sta venendo giù, si prenderà qualche malanno!» esclamò una donna, sporgendosi dal portone del palazzo. Sorreggeva a fatica un fradicio sacco della spesa, tenendo aperta la porta con il tallone.

«Che fa là sotto? Standosene chiusa in casa, si perderà questo fantastico momento!» rispose di rimando, allargando poi le labbra in un genuino sorriso.

«Come dice?».

Solo allora l'uomo aveva spostato lo sguardo su quella che appariva come una giovane donna, che forse neanche sfiorava i venticinque. Da sotto al largo cappuccio del cappotto amaranto, lo osservava perplessa, coi suoi luminosi occhi dello stesso colore dell'erba primaverile, inaspriti dal fardello che stava trasportando. In quel preciso momento il sacco che teneva fra le braccia si squarciò, lasciando cadere a terra alcune arance, prima che altri alimenti seguissero la stessa sorte.

«Che si perde lo spettacolo...» ripeté l'uomo, dopo essersi avvicinato, chinandosi per aiutarla. Scosse il cappello, prima di proporlo come valido strumento da trasporto per le arance. «Lasci che l'aiuti».

«Oh, non si preoccupi!» esclamò la donna, imbarazzata, rimettendo insieme quel che poteva. Le sue guance si tinsero di rosso. Poi, si soffermò sulla figura dello sconosciuto. Era un uomo slanciato, dalla barba ben curata ed un abbigliamento stravagante. Quel cappello da cowboy, poi, gli dava un giusto tocco di follia.

«Sono tutte sue?» le domandò gentile, richiudendo il portone. I suoi abiti fradici gocciolavano sul pavimento dell'androne.

«Le arance?» chiese colta di sorpresa. Non seppe perché rispose in quel modo, ma avvertì avvampare il calore sul suo viso. Era insolito per lei trovarsi in situazioni simili, e lo detestava; eppure la voce dello sconosciuto vicino aveva uno straordinario potere ipnotico su di lei: il riverbero offerto dall'ingresso amplificava il suo timbro caldo e musicale.

«No, no» rise, indicando gli scatoloni depositati sul fianco dell'ingresso. «Mi lasci indovinare: è la nuova inquilina del terzo piano?».

«Sì... come fa...» fece per chiedere ingenuamente, prima di scuotere il capo. «Immagino sia ovvio... Oggi non riesco a farne una giusta. È stata una lunga giornata!» provò a giustificare la propria disattenzione.

«Sono tanti scatoloni, ed hanno l'aria di essere pesanti. Vuole una mano a portarli su? L'ascensore oggi è fuori servizio. Dovrebbero ripararlo entro domani».

«Non vorrei disturbarla... Non si preoccupi» tentò di sfuggire ancora alla richiesta. Non di certo per timore o arroganza, ma per timidezza. Essere aiutata le metteva addosso la tediosa sensazione di trovarsi in debito, e odiava l'idea di doverlo essere con un perfetto sconosciuto.

«Mi dia del tu. Per come vesto potrei sembrare più vecchio, ma avrò al massimo dieci anni più di lei. Sarà un piacere aiutarla».

 

L'andito lasciava intendere che l'appartamento del terzo piano fosse praticamente spoglio. Una luce opaca metteva in risalto la fresca tinteggiatura ed una pila di scatoloni sul fondo. L'uomo depositò quelli che aveva trasportato ad un paio di metri dall'entrata, davanti a un vecchio specchio, prima d'indietreggiare sino alla soglia. La donna venne fuori da un'arcata che si affacciava sull'atrio.

Libero dall'ingombro del cappotto, il suo corpo appariva ancora più esile, nonostante saltasse all'occhio che fosse una ragazza dedita alla cura del proprio fisico. Il corto ed arruffato caschetto nero contribuiva a mettere in risalto i suoi zigomi, lasciando passare inosservate le sottili labbra, contraddistinte da piccole fossette ai lati.

«La ringrazio... Ti ringrazio» si corresse, porgendogli il cappello. Profumava d'arancia.

«Mi sembra il minimo, per una nuova vicina» replicò. Avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro, ma non poté fare a meno di rimanere ipnotizzato dal sorriso della donna. Lo disarmò del potere della sua parlantina, soggiogandolo all'imbarazzo. Erano ben poche le persone capaci di mettergli su una simile agitazione, perché di solito si sbilanciava subito nel riscaldare il dialogo, spingendo gli altri ad alimentare la conversazione.

«Che fai, rimani sulla soglia? Non ho ancora la cucina, per un caffè, ma lascia che ti offra un bicchiere di vino. Ti assicuro che ne vale la pena!» disse indicando l'arcata dalla quale era uscita, invitandolo ad entrare.

«Non c'è bisogno. Immagino sia indaffarata. Inoltre, non vorrei imbrattarle tutto il pavimento» mormorò, facendo per arretrare. In altre occasioni, avrebbe di certo dato sfoggio ad uno spinto umorismo. Pareva che d'un tratto le parti si fossero invertite.

«Avrei comunque dovuto lavare. Dammi del tu, altrimenti mi fai sentire vecchia!» esclamò continuando a gesticolare imbarazzata, richiudendo poi la porta alle spalle dell'uomo. « Ma prima, lascia che mi presenti: piacere, Lucrezia».

«Jhon» rispose stringendole delicatamente la mano. «Con la “h” subito dopo la “j”».

La donna rimase per un attimo perplessa, per poi lasciar posto a un enorme sorriso. Rise di gusto, mentre si avviava verso la cucina. «Appoggia pure il cappotto sull'attaccapanni. Che soprannome bizzarro, per qualcuno che vive in una città come Sassari».

L'uomo varcò l'arcata, posando subito gli occhi su una pila di tele raggruppate alla bene e meglio. Parevano raffigurare lo stesso soggetto, ma gli diedero l'impressione d'essere abbandonate a loro stesse. La stanza era spoglia, e dalla portafinestra filtrava un fiacco fascio di luce dei lampioni esterni. La penombra era rischiarata da una lampada a muro, di quelle movibili, che emanava una fonte calda.

«Dici? Siamo cittadini del mondo: un nome non è che un insieme di suoni, gradevoli o meno a seconda dell'individuo. Jhon è il mio».

«Ma è scritto sbagliato... o ricordo male?» suggerì Lucrezia.

«Solo sulla carta. La pronuncia è la stessa. È stato mio padre a sceglierlo, in onore di John Wayne. Sono nato un giorno dopo l'annuncio della sua morte. A lui piaceva credere che avesse scelto me per tornare. Purtroppo il vecchio non ha mai saputo che fosse solo un nome d'arte» spiegò mentre la donna riempiva due calici, alla cui base era ancora attaccato il prezzo, con del vino color rubino.

«E questo spiega anche il look da cowboy» commentò osservandolo con la coda dell'occhio, prima di porgergli il bicchiere. «Salute!» disse poi, vuotandolo d'un solo fiato.

«Già... più o meno. Sai, credo ci sia l'usanza di brindare, quando si beve. Ma suppongo che i pittori abbiano i loro modi di fare. Non giudico, ma dimmi: si tratta delle esalazioni tossiche della vernice?» scherzò prima di seguirla a rotta di collo.

«Oh... io non uso tinte, ma acquerelli. Credo sia piuttosto l'abuso di alcolici. Non badare a quelle, sono... errori» mise le mani avanti, mentre riempiva di nuovo i bicchieri.

Jhon aveva preso a sfogliare le tele. Ritraevano sempre lo stesso volto, a prima vista. Ma guardandolo meglio individuò una prospettiva differente. Era come se si muovessero. Ipotizzò fosse un effetto voluto, ma realizzò che probabilmente Lucrezia stesse cercando di trovare la giusta angolazione. Le sbavature di colore donavano un effetto affascinante all'intero lavoro.

«Gli artisti sono troppo critici con loro stessi» rispose dopo aver scolato in un sorso dell'altro vino, solo per godere della reazione della donna, sorpresa. «Bevono per annebbiare tanto la mente quanto il cuore. Serve per dare al loro estro l'illusione di essere liberi da ogni pensiero. Credo sia il contrario però: quegli stessi pensieri, grazie all'alcol, vengono metabolizzati e tradotti in creatività».

«Deduco ciò venga da un'esperienza personale» commentò Lucrezia. La bottiglia intanto era oramai vuota. «Che lavoro fai?».

«Vivo» rispose secco. «Posso acquistarlo?» chiese poi, poggiando il calice sul tavolo. La donna lo riempì, dopo aver stappato una buona annata.

«Il bicchiere? Anche se ha ancora l'etichetta, non è in vendita!» rispose divertita.

«Era il terzo elemento che ha attirato la mia attenzione, devo ammetterlo. Ma mi riferivo alla tua opera. Qual è il valore materiale che le attribuisci?» chiese Jhon.

Lucrezia lo affiancò. Lo fissò a lungo, prima di spostare la sua attenzione sulle tele. Rivolse loro un'espressione amara. «Perché ti piace?».

«Perché è spontaneo. Vedo l'emozione che sgorga da ogni pennellata. Mi piace l'idea che questa donna provi a voltarsi con tutte le proprie forze, ma mai mostri il proprio volto. Come se non fosse in grado di guardarsi indietro» spiegò con aria assorta.

«Una bottiglia di vino. Ecco il prezzo» rispose afferrandogli il bicchiere, per colmarlo. Glielo porse senza riuscire a guardarlo negli occhi, come se per quel breve lasso di tempo si fosse sentita nuda di fronte a lui. «Scegli delle belle parole. Sei uno scrittore?».

«Non mi reputo tale. Ma milito come cantante nei “Raindrops”, anche se dubito tu li abbia mai sentiti. Siamo piuttosto conosciuti nel Nord Europa, fra l'ambiente Celtic. Io sono quello che si occupa dei testi» rivelò, alzando la coppa per l'ennesimo brindisi.

«Sai... sono convinta che i musicisti, gli scrittori ed i pittori giochino un ruolo importante nelle nostre vite. Alcuni di loro hanno lo straordinario potere di esprimere ciò che abbiamo dentro, tramite la propria arte. Ma, dove la pittura e la musica trasmettono il sentimento, la scrittura riesce a tradurre in parole le emozioni, rendendole d'un tratto così ovvie, reali. È un dono che invidio... e che tu sembri possedere» confessò Lucrezia, prima di tornare a sorseggiare.

«Temo sia giunto il momento che io vada. S'è fatto tardi, e credo di essere anche piuttosto alticcio. Sai cosa si dice spesso degli artisti? Che abbiano un fegato di ferro. Direi che non si può sfuggire alla verità!» esclamò chinando il capo.

Si rimise il cappello sulla testa, e prese ad indietreggiare sino all'andito. Fece per recuperare il cappotto, quando si soffermò sullo specchio disposto all'ingresso dell'abitazione. Un tuono riecheggiò all'interno della sala ed un lampo illuminò le pareti, sebbene non vi fosse alcuna finestra dalla quale la luce avesse modo d'inoltrarsi. Per pochi secondi, nel riflesso dello specchio scorse un uomo sciupato dall'età, dagli occhi incavati e l'espressione persa nel vuoto. Aveva lunghi capelli bianchi, ed indosso una vestaglia chiara.

Rimase d'un tratto stordito, chiedendosi dove fosse. Non aveva più davanti lo specchio a muro, bensì una larga finestra che, grazie alle forti luci bianche poste alle sue spalle, rifletteva la propria immagine. Il luogo era silenzioso. Poi, avvertì una mano posarsi docile sulla sua spalla, invitandolo a voltarsi. Quando lo fece, individuò un giovane uomo con indosso un lungo camice verde.

L'ennesimo tuono lo fece sobbalzare, e si ritrovò di nuovo davanti allo specchio posizionato all'ingresso della casa del terzo piano. Scosse il capo, perplesso, e fece per uscire dalla porta, quando la vicina lo chiamò:

«Jhon. Poco fa hai detto che tre elementi hanno attirato la tua attenzione. I bicchieri... le tele... e cos'altro...?» chiese con rinnovato coraggio, fissandolo dritto negli occhi. Tremavano.

«Lo scoprirai quando ti porterò quella bottiglia di vino. Buonanotte, Lucrezia» promise sorridendo, prima di sollevare il cappello in modo regale ed avviarsi su per le scale. I suoi abiti ancora gocciolavano.

La donna chiuse lentamente la porta, vedendo la figura dell'uomo svanire oltre gli scalini. Si poggiò poi per un attimo contro il legno alle sue spalle, tirando un lungo sospiro. «Jhon...» mormorò a bassa voce.

 

Erano passati due mesi da quando Lucrezia e Jhon si erano incontrati per la prima volta, e da allora non si erano più rivisti, neanche per puro caso. Era come se vivessero in due mondi paralleli, dove fosse impossibile incrociarsi, a qualsiasi ora. La donna si era fermata più volte a scrutare le finestre dell'abitazione dell'uomo, per tentare di capire se fosse ancora in casa. Lo era. Altre, invece, si bloccava davanti alla propria porta, indecisa se spingersi o meno sino al piano di Jhon. Ma aveva sempre vinto la timidezza, il pensiero di risultare fuori luogo, vulnerabile.

Perlomeno, sino a quel fatidico giorno in cui trovò la forza di andare a suonare al suo campanello. Pur non conoscendo il cognome, escluse a priori la famiglia Sau - Loriga, che aveva incontrato solo poche settimane prima. Dall'altro lato del pianerottolo rimaneva un sono cognome: Manno. Tremava da capo a piedi, e si guardava le scarpe. Non aveva la minima idea di come iniziare il discorso, né di cosa dire in generale. Cercò tutte le scuse del mondo, sinché non fu interrotta dal cigolio della porta che si apriva.

Una donna. Era bella, slanciata e dai penetranti occhi celesti. Il suo abbigliamento ed i suoi capelli erano scuri ma eleganti, con un delicato piercing sul naso che le donava maggior sensualità. Il rovente rossetto che metteva in risalto le labbra era in grado d'ipnotizzarla. Immaginò quale effetto dovesse sortire sugli uomini. Lucrezia si sentì improvvisamente piccola, insulsa.

«Sì?» disse l'inquilina, squadrandola. Si sporse lasciva fuori dal portone, come per cercare di capire se vi fosse qualcun altro con lei. Poi espresse un sorriso di cortesia.

Lucrezia ricordava bene quella donna vestita di pelle. Aveva notato come gli occhi di tutti fossero per lei all'interno del palazzo, ma non aveva mai minimamente creduto che i primi potessero essere quelli di Jhon. Deglutì e scosse il capo, indietreggiando. «H-ho sbagliato campanello. M-mi scusi» farfugliò prima di defilarsi rapida giù per le scale.

Il cuore le batteva all'impazzata.

 

Fuori pioveva a dirotto, ma Lucrezia se ne stava lì, nel piccolo giardino del condominio, all'ombra di un alto pino, sotto la fresca sferzata dell'acqua. Avvertì quelle lacrime estive scivolarle sin sotto i vestiti, carezzandole la nuda pelle. Era la prima volta che si fermava tanto a lungo, senza il timore di bagnarsi, o di sporcare casa, o ancora di prendersi chissà che cosa. Erano solo lei e la pioggia, il resto non esisteva, non aveva importanza.

Quello che spesso viene descritto dalle persone come il freddo, ora lei lo avvertiva come un proibito bacio tiepido, morbido, timido; i brividi che le percorrevano la pelle come sussulti di piacere. Si chiese come fosse possibile che in tutti gli anni della sua vita si fosse privata di quella sensazione. Poi, ricordò: aveva smesso da quando gli adulti le avevano detto che fosse pericoloso. I bambini, invero, godono il mondo con gli occhi dell'innocenza, ed a volte è proprio ciò che ci manca per vivere appieno ogni nuovo giorno.

 

 

Oh, mia sposa del vento, la pioggia amerai,

e fra le soffici nuvole al tramonto danzerai!

Con i tuoni sin al crepuscolo dell'eternità canterai,

e baciata dai lampi, gioconda, riderai;

perché grigi non saran' i tempi,

ma sol i giorni che mai riempi!

Oh, mia sposa del vento...”

 

Intonò Jhon alle spalle della donna. Il suo caldo timbro appariva come un abbraccio di vita. Lucrezia avvertì un brivido correrle lungo tutto il corpo e la pelle irrigidirsi.

Attese di averla proprio davanti, prima di prendere di nuovo parola:

«Non è tanto male, vero? Ti fa sentire parte del mondo... di qualcosa di più grande».

«Non è che un'illusione. Siamo solo parte di noi stessi... sempre» rispose fredda, tenendo lo sguardo basso.

«Lo siamo, fintanto che non permettiamo al resto dell'universo di entrare dentro di noi. A volte può fare più freddo nel buio animo di un essere umano che al Polo Nord, ma anche laggiù arriva prima o poi l'estate» intonò, come se recitasse ancora una poesia, mentre si faceva vicino. In una mano teneva il cappello da cowboy, e nell'altra una bottiglia di vino.

«A volte restiamo chiusi per evitare che il freddo possa continua a sferzare dentro di noi. Il mondo è beffardo, crudele. Avrei dovuto ricordarlo. So che non hai colpa, ma mi sono illusa. Sono passati due mesi... se solo avessi saputo che lei era così bella, mi sarei rassegnata sin dal principio» ammise, lasciando che le lacrime fossero nascoste dalla pioggia battente.

«Lei chi?» chiese sorpreso, poggiandole il cappello sulla testa e porgendole la bottiglia di vino. Non la afferrò.

«Non fare finta di niente. La tua donna!» esclamò Lucrezia stringendo i pugni, e mordendosi le labbra. Non riuscì a trattenere i singhiozzi. Si sentiva ridicola a starsene ancora lì, incapace di muoversi. Il freddo era ora divenuto più intenso, ostile.

Jhon la strinse a sé. Era una stretta morbida, calda. Scacciò all'improvviso la tediosa sensazione di gelo che l'aveva poco prima afferrata. Poi, le sussurrò all'orecchio:

«Io credo di amarla. Ma non penso che tu possa competere con lei... proprio perché sei quella donna che vorrei chiamare tale. Scusa se sono sparito, ma sono dovuto partire per alcune tappe del tour. Ho approfittato dell'occasione per trovare una bottiglia adatta al nostro scambio».

«Allora chi è la ragazza che vive a casa tua?».

«Mia sorella, Ada. Si occupa lei della casa, quando non ci sono».

Lucrezia sollevò allora lo sguardo, e lo fissò dentro ai profondi occhi color nocciola. Le lacrime continuarono a sgorgare, ma stavolta guidate dalla gioia. Lo baciò.

Stettero a lungo sotto la pioggia, uno avvinghiato all'altra, lasciando che fossero i loro corpi e le loro labbra a parlare. Si dice che qualche volta, nella tempesta della vita, un fulmine colpisca più forte le persone, tanto da avere il potere di unirle.

L'ennesimo fragoroso tuono frastornò l'atmosfera d'amore che si era generata nel giardino del condominio, ed un accecante lampo li abbagliò. Jhon avvertì un caldo brivido attraversargli la schiena, ed un'estranea fiacchezza privarlo all'improvviso delle proprie energie. Sentì le gambe pesanti tremare, ed avvertì un senso di capogiro. Cadde all'indietro.

Proprio nel momento in cui credette di sbattere contro il fangoso terreno, si sentì accompagnare su qualcosa di morbido. Una sorta di poltrona. L'aria era pregna del forte odore di disinfettante. Riaprì gli occhi a fatica, ma solo per vedere tutto offuscato. Una sagoma verde gli stava proprio davanti, ma solo quando un largo paio di occhiali gli furono messi indosso riuscì a distinguere il camice ed il volto del giovane uomo che gli stava di fronte. Aveva un'aria preoccupata.

Il locale era un quieto soggiorno piuttosto luminoso, con molti anziani che sedevano uno accanto all'altro.

«Signor Manno, va tutto bene. Non si allarmi» disse l'infermiere. «Ha visite».

«Dove sono? Dov'è Lucrezia?» prese ad agitarsi, provando a sollevarsi dalla poltrona, ma le braccia non riuscirono a sostenere il proprio peso. Quando si scrutò le mani, le vide ruvide, scheletriche. «Lucrezia!» gridò. Il cuore prese a battere all'impazzata, tanto da fargli male.

«Signor Manno, stia tranquillo. È al sicuro» ripeté l'addetto, invitandolo alla calma, ma senza esercitare pressioni sul suo corpo. Stava cercando d'instaurare un rapporto di fiducia con lui.

«Chi sei? Dove sono? Lucrezia!» ripeté ancora Jhon, notando che gli occhi di tutti fossero ora su di lui. Si sentì a disagio, sopratutto nel sentire la propria voce rauca, spenta, come appassita.

«Ehi, ehi! Va tutto bene. Guardami, mi riconosci?» disse un suono familiare.

Era come sentire la propria voce registrata, e non solo: a mezzo metro da lui si ergeva un ragazzone, dieci anni appena più giovane di lui, stessi occhi, stessa voce. Era come se rivedesse se stesso del passato, ma con due fossette ai margini delle labbra. Non riuscì a comprendere. «Mi riconosci, Jhon. Sono io, Alessandro. Papà? ».

«Lucrezia?!» chiamò tremante.

«Sono qui, Jhon. Amore mio» rispose una matura voce femminile, palesandosi sulla sua sinistra. Era una donna sulla cinquantina, ma nonostante ciò la sua bellezza non era sfumata. Il viso era più magro, ma la forma era rimasta la stessa. I suoi occhi verdi fremevano come quel giorno, perso ora in un ricordo sfumato.

L'uomo si lasciò sfuggire un flebile sorriso, prima di rimanere impietrito. Li fissò perplesso per pochi istanti. Era come in catalessi. Poi, schiuse le labbra in uno scettico: «Dove sono? Chi siete?».

Lucrezia si tirò indietro, preda delle lacrime. Era un pianto liberatorio, di gioia. Alessandro la strinse forte a sé.

«Almeno questa volta ti ha riconosciuta. Ha sorriso. Ne sono certo, mamma» provò a consolarla.

«Mi dispiace, Signora Manno. Sono convinto però che la pioggia riesca a risvegliare in lui alcuni ricordi del passato. Non sono andati del tutto perduti. Probabilmente rammenta ciò che è stato, ma solo per fugaci momenti. L'Alzheimer purtroppo è progredito dall'ultima volta. Vi lascio ancora un po' in sua compagnia» rivelò l'infermiere, congedandosi con un ghigno compassionevole.

Lucrezia annuì.

Quando l'addetto dell'unità medica fu abbastanza lontano, Alessandro aiutò Jhon ad alzarsi, e lo sollevò in braccio. Tenne il padre come fosse un bambino, così come egli l'aveva tenuto venticinque anni prima. Il giovane aveva gli occhi lucidi, ma non si abbandonò alla tristezza. Lucrezia gli spianò la strada, aprendo le varie porte, sino ad una che si affacciava verso il giardino esterno della casa di cura.

Aprirono senza pensarci oltre, facendo azionare l'allarme, ed attirando su di sé l'attenzione dei medici. Ma Alessandro continuò a camminare sotto la tettoia, svelto, sinché non raggiunse il limitare dei rami di un basso pino. Poggiò il padre a terra, e lo lasciò libero di camminare.

Jhon, avanzando con le gambe tremanti, affondò le pantofole nel fango, fermandosi all'ombra del pino. La pioggia sferzava lenta sul suo viso, come un'amorevole carezza. Avvertì le gocce scivolare presto sin sotto i vestiti, e le stanche membra si abbandonarono al gelo che regnava in quel moribondo pomeriggio. Allo stesso modo, alle sue spalle, la moglie ed il figlio scrutavano il cielo color del piombo.

«Siete pazzi? Che fate là fuori? Vi prenderete tutti un malanno!» esclamò l'infermiere, correndogli incontro.

Alessandro lo fermò di peso.

«Ci godiamo lo spettacolo. Dovrebbe fare lo stesso».

 

 

 

 

Fine.

   
 
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