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Autore: Malvagiuo    15/11/2016    0 recensioni
Ho trascorso la mia esistenza nel buio e nella noia. Ma l'Alba di Sangue ha cambiato tutto. Il mio momento è arrivato e i miei fratelli stanno per raggiungermi. Tutto perfetto, non fosse che ho incontrato lei, Lucy, una donna come nessun altra. Desidero un grande destino per lei. E posso far sì che si avveri.
Genere: Dark, Horror, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dicono che il mondo è finito, dopo l’Alba di Sangue. Capisco perché l’hanno detto.
Centinaia di migliaia di persone, amici e parenti fino al giorno prima, che ti inseguono per strada, cercando di sbranarti o farti a pezzi con quello che gli capita a tiro. Avessi avuto parenti e amici, anche io mi sarei cagato nelle mutande. L’idea di mia nonna Margie che mi fissa con gli occhi sbarrati, mentre agita un coltello da macellaio per infilzare me anziché il tacchino, non è proprio un pensiero che mi manda a letto tranquillo. Ma poi mi basta ricordare che la cara Margie è passata a miglior vita dieci anni fa, e torno subito in me. Invece, per tutti quei poveracci che nel giorno dell’Alba di Sangue si trovavano in casa con la loro versione della nonna Margie... beh, per loro non dev’essere stato un bel giorno. Specie se poi sono sopravvissuti.
Io ero solo, quando la mattanza ha avuto inizio. Come sempre, potrei aggiungere. Non sto cercando di ispirarvi pietà, sia chiaro. Voglio solo farvi capire com’è possibile che sia rimasto illeso e ignaro di tutto fino al giorno dopo. Perché qualcuno potrebbe dubitare che stia dicendo la verità, e questo mi farebbe incazzare non poco. Per cui ascoltate, e portate pazienza se ogni tanto mi concederò qualche piccola licenza poetica. È il mio racconto, dopotutto, e se non vi sta bene potete cercarvi un’altra versione che vi aggradi. Non ne troverete molte, ve lo assicuro. Di sicuro non interessanti quanto la mia; perché mi si può dire di tutto, ma non che sono una persona noiosa. O meglio, non sono più stato noioso a partire dal mattino in cui scoprii per caso che la gente, per le strade della città, si ammazzava senza motivo.
Dicevo, dopo l’Alba di Sangue il mondo è finito, o così dicevano gli altri. Valeva per loro, probabilmente. Per me no tutto è cominciato quel giorno e il mondo, ai miei occhi, è ridiventato, dopo tanto tempo, un posto piacevole.
 
I – C’è gente che si scanna fuori da casa mia e io me ne sbatto.
 
Alla TV trasmettevano un programma di competizione culinaria, una di quelle cose dove i cuochi super famosi tempestano di insulti i concorrenti incapaci. Non ho idea del perché lo stessi guardando. Di certo non avevo in mente di imparare a cucinare, né mi stava a cuore il destino dei concorrenti. Forse lo guardavo perché mi dava conforto l’idea che qualcuno, da qualche parte, per davvero o per finta che fosse, venisse umiliato e insultato nel tentativo di fare quello che credeva di saper fare meglio, cioè cucinare. Da’ uno strano senso di godimento, vedere qualcuno umiliato in TV. L’avessi visto nella vita reale, magari avrei preso le sue difese e mi sarei pure incazzato con quello stronzo che si stava divertendo a sue spese. Ma vedere quel faccione afflitto dietro uno schermo a tubo catodico (non mi potevo permettere un televisore a cristalli liquidi) mi procurava un sinistro piacere: ero partecipe dell’onnipotenza che trasudava dal conduttore della trasmissione, lo chef di un qualche ristorante ultrachic dove, al modico prezzo di un rene, ti veniva servito il tuo stesso rene tagliato a tocchetti spalmato su un piatto talmente grande da riempire il tavolo. E guai a te se dicevi che non era buono, sennò oltre che per pezzente, passavi pure per ignorante. E io a guardare, membro della giuria invisibile che godeva delle disgrazie di quei miserabili.
Sì, mi piaceva. Mi ricordava il mio vecchio lavoro.
Questa è una delle licenze poetiche di cui parlavo e, sì, rassegnatevi, ce ne saranno delle altre.
In parole povere, mentre la gente aveva cominciato a scannarsi sull’asfalto sotto casa mia, io guardavo questi poveri mentecatti presi a pesci in faccia da ricchi mentecatti. E mi stavo pure divertendo, perché facevano sentire me un po’ meno mentecatto. Tenevo il volume alto, e scambiai le urla fuori dalla finestra per i rumori del traffico. Considerando la zona in cui vivevo, quel giorno mi sembrava pure piuttosto tranquillo.
Ricordo che qualcuno colpì la mia porta, quel mattino. Non mi alzai a vedere chi era, né mi posi il problema di chiedermi chi fosse. Questo per ben due ragioni: primo, a bussare potevano essere il padrone di casa o i vicini rompicoglioni. Se era il padrone, non avevo soldi da dargli e perciò era meglio fingere di essermi addormentato nella vasca da bagno. Se erano i vicini, beh... per quale ragione avrei dovuto aprire a quei rompicoglioni? Secondo... si dà il caso che in quel momento avessi in corpo una buona dose di erba mischiata a una sottomarca di vodka presa la sera prima al negozio di liquori – una brodaglia kazaka, credo... bisogna provare di tutto nella vita, no? – e non ero in condizione di ricevere chicchessia.
Avrete ormai capito che ero un fallito. Niente lavoro, niente moglie o fidanzata, nessun amico, tanto per risparmiarvi altre storie inutili sulla mia vita. Solo un fratello, Mickey, che non vedevo o sentivo da tempo immemorabile.
Non stupitevi se alle otto del mattino di un qualunque giorno infrasettimanale mi trovavo sbronzo e strafatto, abbandonato nella mia poltrona rinsecchita, davanti alla TV. Bevevo e fumavo e guardavo le repliche alla TV, ogni cosa necessaria pur di addormentarmi e cadere, finalmente, in un sonno senza sogni. Cosa che, puntualmente, non succedeva mai. Esatto, ero il tipo che persona che non vorreste di certo frequentare, a meno che non siate anche voi dei relitti umani.
Il chiasso fuori dalla finestra e il bussare insistente alla porta non mi sfioravano. Ero in un altro mondo, pur rimanendo a pochi centimetri di distanza. Mi riscossi solo quando la TV si spense dopo che era mancata la corrente. Da lì, mi accorsi anche che era tutto buio, perché nel frattempo era scesa la notte.
Potrei dirvi che esclamai ‘acciderbolina’ o ‘corbezzoli’, ma non sarebbe molto in linea con il personaggio, no? Pertanto non vi scandalizzerete se dico la verità, e cioè che dalla mia bocca fuoriuscì una sonora bestemmia, accompagnata da una serie di imprecazioni che, nel caso raccontiate questa storia ai vostri bambini, non riporterò.
Ora, dovrei confessarvi che non avevo la minima conoscenza di impianti elettrici o di tecnologia in generale. Nella mia vita da recluso, figuratevi che non possedevo nemmeno un cellulare. Chi voglio prendere in giro? Non lo avevo, un cellulare, perché non avevo neanche i soldi per una cassetta di birra. E Dio solo sa quanto ne avrei avuto bisogno, al posto di quel piscio di vodka delle steppe uzbeke o quel cazzo che era.
Divago. Ancora.
Non sapendo come muovermi e non avendo un telefono funzionante, me ne stavo lì, in mezzo all’appartamento, immobile nel buio come un fottuto stoccafisso. Senza la TV non sapevo che fare. Provai ad accendere la luce, ma l’interruttore si limitò a fare clic clac, sempre più rapido man mano che il mio nervosismo aumentava. E potete giurarci che stava aumentando a dismisura.
Fu così che finalmente guardai fuori dalla finestra. E vidi una cosa bellissima.
Il cielo era rosso come sangue. Non voglio fare il poeta, non sono certo il tipo, ma – diamine! – era proprio rosso! Sembrava immerso nel fuoco, e forse era proprio così. Non era naturale, e questo mi galvanizzò, perché sapevo cosa voleva dire: era un segnale che aspettavo da tanto tempo.
Era una cosa diversa, un intervallo nella squallida monotonia a cui mi costringeva di tanto in tanto il mio lavoro. Finalmente il principale si era di nuovo fatto vivo.
Estasiato da quella vista, diede un’occhiata intorno per godermi il panorama sottostane, e non rimasi deluso. Laggiù, due piani più in basso sul manto stradale nero come petrolio, c’era un tizio disteso pancia all’aria, le gambe distese, le braccia molli come il pisello di un ottantenne. E sopra di lui un altro tizio, in forma decisamente migliore, intento a tirargli fuori dalla pancia un groviglio di salsicce. Che ovviamente erano le sue budella. Adoro le metafore, da quando le ho scoperte l’altro ieri.
Non capita tutti i giorni di vedere uno che trasforma qualcun altro nel suo personale self-service on the road, no? Confesso che la cosa non mi turbò. Nel mio mondo fatto di pupazzetti alla TV e ottundimento (senti la finezza, ot-tun-di-mento) indotto da alcol e droga, una cosa del genere non mi capitava da parecchio. E penso neanche nel vostro mondo, a meno che non viviate in Somalia.
La prima cosa che provai fu la paura. Sarei stato in grado di affrontare la prova, dopo tutto quell’inattività forzata? La paura impiegò diciotto secondi esatti a scomparire. Lo so perché sentii il rintocco di ognuno di quei secondi nelle mie orecchie, mentre osservavo.
Poi arrivò la curiosità. Avevo già visto un sacco di gente smembrata attraverso il tubo catodico, un po’ dai film, dai videogiochi o dal benedetto telegiornale. Ma lì davanti ai miei occhi c’era una cosa vera. Sentivo rumori che nessun surrogato avrebbe potuto restituirmi con tanta accuratezza, vedevo una tonalità di rosso scuro che nessun Valentino sarebbe riuscito a riprodurre in maniera così perfetta.
Mentre ero lì, affacciato alla finestra, non avevo dubbi: stavo guardando una cosa bella.
E volli vederla più da vicino.
Ora, sento già le vostre esclamazioni scandalizzate perforarmi i timpani: ti farai ammazzare, imbecille!, seguita da ma cosa devi guardare da vicino, idiota?! e quella che non manca mai, meriti di morire. Rivedendo questa scena dal vostro punto di vista, concordo che non fu una mossa proprio furba. Non devo sembravi molto intelligente. Penserete che avevo ancora in corpo residui di qualche sostanza che mi ero calato il giorno prima. Tutto può essere, fatto sta che aprii la porta e scesi le scale del condominio per andare in strada a conoscere il mio nuovo amico.
Mi sarei accorto solo dopo che, a parte i rumori prodotti dal gourmet che mangiava, c’era silenzio dappertutto. Era tutto buio perché la maggior parte dei lampioni era spenta. Ma per il momento, il mio intero universo era fatto del cono di luce intermittente davanti a me, che illuminava con la sua poesia un uomo accovacciato che mi dava le spalle, intento a ingurgitare le interiora di un malcapitato che, per quel che ne sapevo, poteva essere uno dei miei fastidiosissimi vicini. Mi piace pensare positivo.
Hannibal Lecter deve aver percepito la mia presenza, un roba tipo istinto animale o cose così. Si è alzato, non ha detto una parola e si è mosso verso di me. Io ero bloccato e lo sareste stati anche voi. Non è come nei film, quando il mostro si avvicina alla vittima e questa si mette a urlare come un’ossessa. Lo stupore ti cristallizza e amplifica le tue sensazioni, senti il cuore che tambureggia nelle orecchie come se stesse dando un concerto, provi come non hai mai provato prima: le dita delle mani, dei piedi, i tuoi stessi capelli, acquisiscono una loro individualità e li percepisci come entità separate. È quasi un’esperienza mistica: sei un tutt’uno con il tuo corpo, e non è una cosa scontata come può sembrare. C’è gente che vive tutta la vita nel proprio corpo senza avere la minima idea di cosa sia e di quello che può fare. Tipo me cinque minuti prima di conoscere questo tizio.
Torniamo all’azione.
Hannibal avanzava verso di me, tutta la parte davanti sbrodolata di sangue e budella, e io che rimanevo a fissarlo come un beota, incapace di scappare e mettermi in salvo, come avreste fatto voi. Questa dovrebbe essere la fine della mia storia, ma se finisse così non l’avreste mai sentita raccontare.
A riscuotermi fu un boato. No, questo non è vero. Fu la faccia di Hannibal che esplodeva a farmi tornare in vita, per così dire. Solo dopo sentii lo sparo. Il proiettile mi era passato a fianco, lanciandomi una simbolica pacca sulle spalle, aveva alzato il pollice, mi aveva fatto l’occhiolino e aveva detto: Tranquillo, amico, i nostri sono arrivati! Poi si era fiondato sul naso dell’altro, facendogli schizzare il cervello dalla nuca.
Mi ero voltato e avevo notato un luccichio intermittente sulla sommità di un edificio di quattro piani. Un segnale fatto con una torcia. Troppo lontano per arrivarci a piedi senza fare qualche altro incontro con uno della nuova classe dirigente delle strade. Pertanto sferrai una gomitata al finestrino della vettura più vicina, una merdosa Ford grigio-azzurra con cui si rimorchiava ai tempi di mio nonno, e collegai i fili per partire.
Se vi steste chiedendo come mai sapevo far partire un’auto in quel modo... che diamine, ognuno ha diritto alla sua privacy e al suo passato. Fatevi un po’ gli affari vostri.
 
La Ford scatarrava come un tubercolotico, ma c’era abbastanza benzina da arrivare a destinazione. Viaggiavo sulle settanta miglia orarie e non mi azzardavo a spingere di più il pedale, visto il rumore poco rassicurante del motore. Mi accorsi presto di non essere il solo a non gradire il frastuono di quella ferraglia. Buttando un’occhiata fuori, notai una serie di figure indistinte, con in comune una certa propensione ad avvicinarsi il più possibile alla vettura in movimento. Forse alcuni di loro era normali, magari erano tutti... come definirli, mangiatori di cadaveri? Non lo sapevo allora e non lo so adesso. Il pensiero che tra loro ci fossero persone normali, che fuggivano come me dalla strage, tormenterebbe chiunque, negli attimi di lucidità. Ancora oggi rivedo quelle sagome sfocate che mi rincorrono e penso: non potevo stirarne qualcuna, tanto per sentire che si prova?
Per fortuna non l’ho fatto. La Ford si sarebbe sfasciata prima dei loro crani.
L’edificio sicuro – o presunto tale – si faceva più grande e continuavo a vedere gente che sbucava fuori e mi inseguiva. Non avrei potuto parcheggiare con tranquillità e cominciai a chiedermi se i miei ‘salvatori’ avessero pensato a quel dettaglio.
Fu una volontà superiore a sottrarmi da quei dubbi annosi. La ruota anteriore destra scoppiò e la Ford perse stabilità. Cominciai a rallentare e la guida diventò problematica. Buttai uno sguardo allo specchietto retrovisore e non fui troppo contento di notare cinque o sei individui che si precipitavano verso di me, più vicini a ogni occhiata.
Spalancai la portiera e mi levai di torno. Corsi verso l’entrata del palazzo come se mi aspettasse Eva Green piegata a novanta con le mutandine abbassate. Oltrepassai la soglia una volta raggiunto l’atrio e una porta si sbarrò non appena fui passato, chiudendo all’esterno i miei inseguitori e i loro versi bestiali.
Ansimando, mi voltai a guardare la faccia del mio nuovo padrone di casa. Non c’era Eva Green ad aspettarmi lì dentro, ma non me ne rammaricai troppo. La donna che mi squadrava da capo a piedi non avrebbe sfigurato, al suo fianco. Capelli neri corti e occhi grandi e luminosi come quelli di una pantera. Uno sguardo che tradiva lo stesso temperamento feroce. Pallore cadaverico e forme da tre mesi di abbonamento in palestra, probabilmente cessato a causa del fastidioso inconveniente noto come Alba di Sangue.
«Salve.»
«Buonasera a lei» dissi, cercando di non farmi scoprire mentre la spogliavo con gli occhi.
«Non pensavo ci fosse ancora qualcuno nei dintorni. Vieni da fuori?»
«Hai presente quello a cui hai fatto saltar la testa? Io abito lì davanti.»
«Oh» disse lei, mostrando una certa sorpresa. «L’infetto l’ha ucciso il mio compagno, Ross.»
Ross. Sentivo già di volerlo uccidere.
«Infetto, dici?»
Lei assunse un’espressione circospetta. Non capiva se la stessi prendendo in giro o se fossi sotto l’effetto di qualche agente psicotropo. O tutte e due le cose.
«Forse è meglio andare su. Non è prudente rimanere qui. A proposito» aggiunse, prima di indicarmi la scala. «Io mi chiamo Lucy.»
Le allungai la mano e ringraziai il Cielo che la roba viscida sul mio palmo poteva essere giustificata come sudore. «Gabe. Grazie per avermi salvato.»
Fu lei a farmi strada, lungo i gradini. A venti debiti centimetri di distanza, scandagliai ogni fibra muscolare delle sue natiche, che a turno si alzavano e abbassavano, su e giù, in una meravigliosa alternanza.
Rimpiansi che i piani da salire fossero appena quattro, e non dieci.
«Avete un cellulare?» domandai
«I cellulari sono morti, ma la rete fissa funziona ancora. Chi vuoi chiamare?»
«Mio fratello. Voglio sapere dove si trova.»
Lucy sospirò, cercando di simulare partecipazione al mio dramma. Non le importava, chiaramente, ma apprezzai lo sforzo. «Ross ha il telefono. Ti farà fare una chiamata, ma non farti illusioni.»
«Mickey ha la pellaccia dura. Sono sicuro che se l’è cavata.»
 
II – A tutti piace inzuppare il biscotto.
 
Quando sentii la sua voce dopo secoli di interruzione dei rapporti, tutto quello che mi disse fu: «Resta lì. Sto arrivando» e riattaccò. A Mickey non è mai piaciuto conversare. Non provai a richiamarlo: sapevo che questa volta non avrebbe neanche risposto.
Conobbi Ross, che mi fece subito una forte impressione. Di merda.
Dopo un mese di convivenza, ero stato toccato da una fondamentale e illuminante intuizione.
Ross era un fottuto stronzo.
È opportuno aggiungere dettagli, altrimenti potreste farvi un’idea sbagliata del mio giudizio, del tipo: per forza che lo odi, lui si fa Lucy ed è evidente che te la vuoi fare anche tu. No, no e ancora no. Se la pensate così, devo avvisarvi che siete persone superficiali.
Certo che volevo farmi Lucy, non mi sognerei mai di negarlo. Ed è certo che odiavo Ross, ma non perché lui aveva un accesso privilegiato alla caverna di Batman e io no. Diamine, potevo conviverci. Sono più maturo di quello che sembra, certe volte, e questa era una di quelle volte. Ross e Lucy non lo facevano tanto spesso, ma quando lo facevano io avevo il tacito permesso di origliare attraverso la parete. Non è che potessero mandarmi in mezzo agli infetti solo perché volevano farsi una scopata, no? Non sarebbe stato umano, in fin dei conti. Così come non sarebbe stato umano rinunciare ai propri istinti basilari. E da qui, ecco il nostro compromesso. Solo che Ross non era pienamente soddisfatto della cosa e sentiva il dovere di rimarcare il suo ruolo di maschio alfa a ogni occasione.
«Sei riuscito a dormire, questa notte?»
«Scusa se l’ho fatta urlare, stavo dando il meglio...»
«Mi fa male l’uccello, da quanto era scatenata ieri...»
«Ti tiravi una sega, mentre tenevi l’orecchio incollato alla parete?»
E via dicendo, ogni mattina per tutto il giorno. Aveva una fantasia inesauribile. Purtroppo per lui, la mia pazienza non lo era.
Non pensavo di ucciderlo. Mi aspettavo di scatenare una rissa, nel peggiore dei casi. Un piccolo tafferuglio in famiglia, nel quale ovviamente avrei avuto la peggio perché io ero mingherlino e Ross due spanne più alto, ma che almeno sarebbe valso a far sentire le mie ragioni. Una volta sentite, Ross sarebbe tornato in camera a chiavare Lucy, lasciandomi ammaccato per terra, ma almeno avrebbe preso atto del mio disagio, no?
La notte mi ritiravo in terrazza a osservare il cielo rosso, e spesso mi fermavo a guardarlo fino al mattino, o almeno credo, dato che ormai non c’era modo di distinguere il giorno dalla notte, salvo che per l’orologio. Gli infetti ci guardavano dal basso, lo sguardo rivolto verso l’ultimo piano, immersi nel silenzio del cacciatore che studia la preda. Era lassù che mi ero rifugiato, su quella torre solitaria in compagnia di due individui che, con tutta probabilità, si erano già pentiti di avermi trascinato a bordo. Non vedevo l’ora che Mickey arrivasse.
Dopo due mesi di convivenza, le tre bocche da sfamare avevano consumato buona parte delle provviste stipate nell’edificio. Quel poco che rimaneva non ci avrebbe permesso di sopravvivere un altro mese, senza contare che la fame avrebbe esacerbato una situazione che risultava già abbastanza tesa, almeno per quanto riguardava me e Ross. Bisognava uscire dalla fortezza e andare in cerca di cibo.
Non ho mai capito che cosa facesse Ross prima dell’Alba di Sangue. Possedeva un fucile di precisione e lo sapeva usare piuttosto bene, come mi aveva dimostrato il giorno in cui mi aveva salvato la vita. A casa sua, però, non trovai molti altri indizi su di lui: non indossava casacche militari o uniformi da poliziotto o da membro dei gruppi speciali. Non mi sembrava il tipo del cacciatore e non era uno che amava l’arredamento o le teste impagliate. Tutto quello che sapevo di lui è che, da qualche parte e in qualche tempo, aveva imparato a sparare con un fucile militare. Guardando la sua espressione appena prima di premere il grilletto, capii che la cosa gli piaceva parecchio. Non c’è stupirsi se il piano di uscita di quel giorno fu architettato da lui.
Era semplice, ma dopotutto i nostri nemici, per quanto implacabili, non brillavano per astuzia. Erano come animali primitivi: bastava poco per attirare la loro attenzione ed erano incapaci di intuire le mosse della loro preda. Questo, nonostante la brutta situazione in cui eravamo finiti, ci dava un considerevole vantaggio. Ross avrebbe giocato a fare il cecchino dalla sommità del tetto, concentrando il fuoco sul piazzale davanti all’ingresso principale. Sentendo il rumore, la maggior parte degli infetti sarebbe confluita lì, permettendo a me e Lucy di sgattaiolare dal retro. Un piano accettabile, ma c’era una falla. E Ross era stato il primo a rilevarla e a fare di tutto per tamponarla.
La falla, naturalmente, era che io e Lucy saremmo rimasti soli per un lasso di tempo indeterminato, mentre Ross badava al fortino. Non poteva certo delegare a me quel compito, dato che non avevo mai preso in mano neanche una pistola. Inoltre, era convinto di conoscere Lucy a sufficienza da concederle fiducia. D’altronde, un fallito come me non rappresentava certo un partito allettante per una tosta come lei. Ma questo non bastò per dissuadere Ross dal rivolgermi un discreto monito, carico di sottintesi.
«Se ti fai venire in testa qualche strana idea, ti infilo la canna del fucile su per il culo e uso il tuo cazzo come silenziatore.»
Presi atto dell’eventualità del mio futuro come arma balistica e mi apprestai a seguire Lucy verso l’uscita secondaria.
 
Lucy non sembrava tesa. Non sapevo nulla nemmeno di lei, e come facesse ad avere quelle palle d’acciaio nell’imminenza di ciò che ci aspettava. Come vi sentireste, un attimo prima di avventurarvi per strade popolate di creature mangiauomini, senza nemmeno il conforto di un’arma? Già, non ve l’ho detto. Le parole testuali di Ross erano state:
«Vuoi una pistola? Afferrati quella che hai in mezzo ai coglioni.»
Un capocomico mancato. Lucy aveva un Sig-Sauer che teneva a portata di mano, ma non nutrivo dubbi sul fatto che non avrebbe sprecato una sola pallottola per salvare me, se questo avesse significato mettere in pericolo la sua vita. Ora che sapete i dettagli della faccenda, riconoscerete che avevo i miei motivi per essere indispettito.
Il primo sparo era il segnale d’allerta. Quando udimmo tre spari ravvicinati, spalancai la porta e Lucy si fiondò all’esterno. La seguii a malincuore, richiudendo la soglia dietro di me e guardando con distacco il rifugio sicuro che mi apprestavo ad abbandonare.
Il nostro obiettivo era il market a tre isolati da lì. Punto forte: poca distanza dalla zona verde. Punto debole: quartiere densamente popolato, probabile alto grado di infestazione. Ma ci voleva ben altro per dissuadere Lucy: abitavamo da appena un mese in un mondo nuovo, fatto di isolamento e ferocia, e si muoveva come se avesse vissuto l’intera vita in attesa di quel momento. Uno stato mentale che capivo perfettamente, perché l’avevo provato fin troppo spesso.
La piazzola di parcheggio del market era deserta. Ero al fianco di Lucy, in attesa di istruzioni. La mia amata bionda teneva i capelli lisci raccolti in una coda di cavallo che le ricadeva sulla schiena, una cosa che trovavo molto sexy. Non era affatto male la maglia che indossava quel giorno, uno stretto capettino in cotone nero piuttosto aderente, che le esaltava il seno e i fianchi sottili. Ancorai subito il deltaplano a terra, per evitare che decollasse.
Avanzammo circospetti, Lucy con la pistola pronta a sparare, io pronto a lanciare un grido in caso di pericolo. Arrivati all’ingresso, oltrepassammo le porte scorrevoli divelte e ci guardammo attorno, spalancando le orecchie e gli occhi, alla ricerca del minimo segno della presenza di qualcuno. C’era un silenzio di tomba là dentro, l’unica volta in vita mia che abbia sentito quel silenzio dentro un supermercato. Lucy sembrava tranquilla e mi fece cenno con la testa di seguirla. Ci dirigemmo al reparto dei cibi confezionati.
Le luci erano spente, ma si notavano i segni del caos che aveva travolto il negozio. Scaffali rovesciati, barattoli sparsi sul pavimento, vetri rotti e, dietro tutto questo, uno strano odore che aleggiava nei corridoi, un aroma dolciastro che non ero ancora riuscito a definire.
Lucy trovò un carrello in mezzo a quel casino e lo trascinò verso di sé, spingendolo nel reparto che era la nostra meta. Mi fece una strana impressione vederla spingere un carrello in un supermercato: era un’immagine che apparteneva al mondo appena scomparso, e fui pervaso da una sensazione inspiegabile. Nostalgia, forse? La definirei così, se solo non fossi certo di non poter provare quel tipo di sentimento per la mia esistenza passata.
Trovate le conserve, ci demmo da fare per colmare il carrello. Frutta sciroppata, fagioli, carne in scatola, condimenti precotti, filetti di pesce sott’olio, qualunque cosa ci capitasse sotto mano. Il supermercato era grande e ben fornito, non tutto era stato saccheggiato nei giorni passati.
Avevamo raccolto abbastanza provviste da reggere per un altro paio di mesi. Razionando, anche qualcosa di più. Lucy mi disse di spingere il carrello. Lavoro da uomini, pensai. Certe cose non cambiano neanche dopo l’apocalisse. Lucy mi avrebbe fatto da scorta armata, e vi confesserò che l’idea mi ringalluzziva. Cominciavo a capire di essere attratto dalle femmine dominanti. E credetemi, non c’era nessuna donna più dominante di Lucy.
Mentre facevo strada, sentii quel rumore che separò per sempre le nostre strade.
Un clic, un rumorino metallico appena udibile. Il cane di una pistola che veniva sollevato.
Nessun infetto poteva produrre quel rumore. Ancora oggi non so perché reagii a quel modo. Un attimo di esitazione in più e avrei pensato: sta armando la pistola per prepararsi a uscire. Niente di strano. Invece non pensai questo. Mi mossi senza un solo istante di riflessione in più. Mi gettai a lato del carrello, appena un attimo prima che il boato riecheggiasse nel corridoio e mi stordisse. Sentii una vetrina infrangersi, attraversata dal proiettile.
Lucy aveva appena tentato di freddarmi con un colpo alle spalle. Avevo rovinato quella che sarebbe stata una magnifica esecuzione in stile Al Capone.
In casi come questi, cosa succede di solito? Ve lo chiedo perché non ne ho idea. Dubito che considererete normale quello che successe dopo.
 
III – Boom! Colpo di scena!
 
«Sei svelto, piccolo bastardo.»
Gli insulti di Lucy avevano un che di sensuale. Perfino in quel frangente riuscivo a vederla sotto quella luce rosso peccato soffusa. «Che stai facendo?»
La tensione nella mia voce la divertì. Una vera killer a sangue freddo. Cominciai a rendermi conto che il nuovo mondo le era congeniale. Quante soddisfazioni poteva togliersi, ora che la vecchia legge morale era finita nella fogna.
«Non ce l’ho con te, Gabe. Ma prova a fare i conti: in due si sopravvive più a lungo che in tre. Ti abbiamo tenuto un mese per capire se potevi essere utile in qualche modo. Non hai passato l’esame, mi dispiace. Anche se devo ammettere che fare l’amore mentre origliavi è stato divertente.»
Ero al riparo dietro gli scaffali, dove nessun proiettile poteva raggiungermi. Non esisteva però scaffale o ostacolo di sorta che potesse nascondere Lucy dalla folla che varcò in quel momento la soglia del market.
Una ventina di infetti entrò in ordine dall’ingresso principale, inondando i corridoio come una marea che si gonfia a poco a poco. Lucy non poteva ancora vederli, ma io riuscivo a distinguere le loro sagome accalcarsi lungo tutte le vie d’uscita. Li percepivo prima di vederli. E percepivo uno di loro, fra tutti.
Quando irruppero nel supermercato e Lucy realizzò di essere in trappola, mantenne una calma gelida. La ammirai, dico sul serio. Quanti resterebbero così impassibili di fronte alla morte? Nemmeno Lucy tuttavia poté mascherare la sorpresa di fronte all’atteggiamento innaturale degli infetti che la circondavano, un comportamento che non aveva mai riscontrato prima d’allora nelle sue lunghe osservazioni attraverso il binocolo dall’alto del condominio.
Una dozzina di infetti la circondavano, rimanendo immobili, senza dar segno di volerla aggredire. La Sig-Sauer vacillava appena tra le mani di quella versione femminile di Rambo, la canna puntata contro di loro, sotto il pieno controllo delle sue dita d’acciaio: non avrebbe sparato fino a quando non avesse capito che diavolo succedeva, a costo di rimanere congelata lì per sempre.
Per superare l’empasse, fui costretto a intervenire.
«Abbassa quella pistola, tesoro. Sai che è perfettamente inutile.»
Sentendo la mia voce, vidi i suoi occhi sgranarsi per l’incredulità. Quell’espressione mi provocò un godimento che mi fece sfiorare l’orgasmo.
«Gabe? Dimmi che cosa cazzo sta succedendo.»
«È un semplice invito a partecipare alla festa, Lucy.»
«Parla chiaro, cazzo. Che cosa sei?»
«Sono esattamente come te, solo... un po’ diverso. O meglio, diciamo che non sono più io dall’Alba di Sangue. Non posso più esserlo, ora che il lavoro comincia.»
«Sei... un infetto?»
«Che brutta parola, così inadatta a spiegare lo stato delle cose. Nessuno di noi qui è infetto. Come posso spiegartelo?»
«Gabe» disse una voce familiare, dal fondo dell’uscita posteriore. La colonna di infetti che si trovava lì si scostò rapida su due file ordinate, lasciando sgombro il passaggio. «Finisci di fare l’idiota e datti da fare. Siamo in ritardo.»
Osservai Mickey farsi strada in mezzo agli uomini, lo sguardo corrucciato, un po’ rabbioso, che l’aveva sempre contraddistinto. Un particolare che ogni ritrattista aveva scelto di omettere.
«È un piacere rivederti, fratellino.»
«Si può sapere che stai facendo?» ribatté lui di rimando. «Non abbiamo tempo da perdere.»
La sua fastidiosa disciplina, immutata dopo millenni. Forse per questo il principale lo preferiva.
Mi voltai verso Lucy. Era sgomenta. Anche il nuovo mondo le si stava sgretolando sotto i piedi, e la cosa peggiore era non capire ancora cosa diamine stesse succedendo e chi accidenti fosse l’uomo in grado di dominare gli infetti.
«Ho fatto un po’ di ricerca. Mi sono mischiato a queste povere anime. Voglio che lei sia dei nostri.»
Mickey mi squadrò con i suoi occhi grigi. Non era affatto contento. Ma quando mai lo era, d’altronde? «Non è permesso.»
«Dai, Mickey. È un piccolo benefit di produzione... ho fatto il bravo da non so quanto tempo.»
Mickey sollevò gli occhi al cielo e parve rassegnarsi. Gli stavo facendo perdere tempo prezioso, e sapevo quanto odiasse ciò.
Dopo quelle parole, finalmente Lucy manifestò l’unica reazione che non le avevo ancora mai visto in volto. I suoi occhi si dilatarono e la sua pelle sbiancò. Aveva paura. Lo rivelò anche dalla voce, appena tremula, anche se si sforzò con tutta l’anima di dissimularlo. «Ma voi due chi siete?»
«Dimenticavo di presentarvi» dissi, estasiato dal suo interessamento. «Lucy, questo è mio fratello Mickey. O, se preferisci, Michele.»
 
IV – Bentornata, mia piccola Eva
 
Lucy si svegliò di lì a un’ora, coperta di sangue. Vedendoselo addosso, pensò che fosse il suo e si mise a urlare. Impiegò qualche minuto per capire che non aveva ferite e non provava dolore. Riacquistò il controllo con ammirevole rapidità. Non ricominciò a urlare nemmeno quando mi vide di fronte a lei. Le funi di plastica le impedivano di scagliarsi contro di me, ma il fuoco nei suoi occhi parlava con limpida chiarezza.
«Ti ho messa in prima fila per il grande spettacolo, tesoro.»
Cercando un senso alle mie parole, Lucy si guardò attorno. Vide la fortezza di Ross, l’edificio di quattro piani di cui aveva condiviso il dominio. Decifrai i suoi pensieri con facilità, tanto erano palesi: Ross, ti prego, punta il fucile quaggiù e fallo fuori. Uccidi questo figlio di puttana, almeno lui.
«Sei preoccupata per Ross?»
Lucy non rispose. I suoi occhi neri mi fissavano.
Un brontolio sordo spezzò il silenzio della sera. Poteva essere l’eco di un grattacielo che crolla in lontananza, la furia di un terremoto di media intensità, una massa di infetti che corre schiacciando l’asfalto sotto di sé. Non è difficile indovinare quale delle tre.
Le porte di accesso al pianterreno furono divelte, il cupo brontolio assorbito in una cacofonia di voci e grida indefinibili. La marea umana si riversò all’interno, divorando quello che trovava, facendosi spazio fino alla sommità, in cerca di qualcuno. Io e Lucy sapevamo di chi.
Il fuoco divampò nell’edificio, eruttando dalle finestre. Un tramonto infernale, come non si era mai visto sulla terra da tempi ormai dimenticati.
«Perché lo stai facendo?» domandò lei, con voce flebile.
«Perché sono un sottoposto, e il principale ha dato un ordine» risposi. «E anche perché mi piace, diciamoci la verità.»
Lucy non capiva quello che dicevo. Non gliene facevo una colpa. Spiegarle a parole chi ero, cosa facevo, sarebbe stato troppo difficile. Molto più semplice mostrarlo, come sarebbe venuto di lì a pochi istanti. Ma la sua curiosità continuava a prevalere.
«Che cosa vuoi da me? Perché mi lasci vivere?»
«Perché ti lascio vivere, dici?» Ci pensai su. Era una bella domanda, in effetti. «Non saprei darti un motivo logico, qualcosa che ti soddisfi appieno. Mi piaci. Sei un giocattolo interessante. Una piccola figlia di Dio che vale la pena salvare. Il principale avrà sicuramente bisogno di qualcuno che dia di nuovo inizio alla specie. Secondo me, sei un’ottima candidata. Di certo, hai la tempra per incidere il tuo nome nella lavagna bianca che nascerà dopo questo giorno.»
Lucy scelse di non capire, questa volta. Il suo inconscio l’aveva fatto e cercava di proteggere il resto della mente. Ma la parte razionale di lei insisteva nel volere una risposta.
«Ma chi sei tu? Dimmi chi sei, senza sputare cazzate!»
«Te l’ho già detto chi sono» dissi, e il mio sorriso fu più dolce che mai. «Io mi chiamo Gabriele. Ma per te sarò sempre Gabe.»
Lucy rimase a guardare, mentre ciò che restava della sua sanità mentale si sbriciolava per sempre. L’ultima cosa che vide e di cui si rese conto si trovava svariate miglia sopra la sua testa, in mezzo al cielo rosso sangue. Vecchie conoscenze anche loro, venute in compagnia di mio fratello.
Come sempre, erano quattro e cavalcavano verso l’orizzonte.
 
   
 
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