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Autore: Koori_chan    16/11/2016    0 recensioni
Aprile 1911, Cape Evans, Antartide.
L'inverno australe è alle porte, ma ogni cosa è organizzata al meglio e non appena il sole tornerà a sorgere sull'orizzonte si potrà finalmente dare il via alla corsa al Polo Sud.
Le cose sembrano stare andando per il verso giusto per la British Antarctic Expedition, almeno fino a quando Cherry-Garrard, aiuto biologo nella spedizione del Capitano Scott, non trova nel suo sacco a pelo una ragazza addormentata. Una ragazza che, proprio come un fantasma, nessuno riesce a toccare e che pare provenire da cent'anni nel futuro.
Novembre 2010, Oxford, Inghilterra
Leslie Compton, matricola di Economia all'Università di Oxford, ha deciso che la vita non fa per lei. Nessuno ha capito il perchè della sua amarezza nei confronti del mondo, perchè nessuno è ancora riuscito ad avvicinarla; ogni cosa le sembra sciocca e priva di valore. "Grazie, ma non sono interessata" è diventato il suo motto.
Seccata dalla vita di comunità verso la quale viene quotidianamente sospinta, desidera semplicemente essere per gli altri poco più di un fantasma.
Almeno finché non si risveglia in una baracca in Antartide nel 1911.
Genere: Angst, Commedia, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
Capitoli:
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Novembre 2010, Oxford


Ovviamente pioveva.
Katie aveva passato l’intero pomeriggio a lagnarsi, lanciando scarpe e vestiti dentro e fuori l’armadio, mentre la sua compagna di stanza, seduta a gambe incrociate sul letto, disegnava pigramente con un dito sulla finestra appannata, per nulla sconvolta.
- Lo so che non te ne frega nulla, Leslie, ma almeno potresti fingere! – si lamentò Katie, sbuffando sonoramente e lasciandosi cadere a peso morto sul materasso.
Leslie si strinse nelle spalle e le passò il sacchetto di biscotti al cioccolato da cui aveva pescato fino a quel momento.
- Non è che non me ne frega nulla, solo non riesco a vedere il dramma. Piove, e quindi? Porteremo un ombrello! – commentò senza particolare enfasi.
Lei e Katie si erano conosciute quasi due mesi prima, quando Leslie era stata assegnata al suo dormitorio. Doveva ammetterlo, era stata fortunata: Katie era una ragazza in gamba, gentile e premurosa, avevano gli stessi gusti in fatto di cinema e di musica e non ficcanasava mai eccessivamente nei suoi affari; condividere la stanza con lei era stato meno traumatico del previsto e in fin dei conti aveva preso a considerarla un’amica. L’unico problema di Katie era il suo entusiasmo.
- Tesoro, a Oxford piove anche da sotto in su! Ombrello o no, saremo fradice ancor prima di arrivare! Ci tenevo che tutto fosse perfetto il giorno della tua festa! –
Ecco, appunto.
Leslie si concesse il primo vero sorriso della giornata.
- Innanzitutto non è la mia festa, ma la festa delle matricole, che per altro è super illegale e se ci beccano ci espellono tutti quanti. E poi su, un po’ di pioggia non ha mai ucciso nessuno! – commentò ficcandosi in bocca due biscotti alla volta.
- Ah, ma che illegale e illegale! Le sfere alte sanno benissimo che la facciamo, ogni tanto viene anche qualche professore! Piuttosto, tu hai già deciso che cosa metterti? –
La ragazza annuì e indicò un fagotto abbandonato sullo schienale della sua seggiola.
- Nero? Santo cielo, Les! Un po’ di vita! – esclamò l’amica, alzandosi e tornando a raspare nel suo armadio alla ricerca di qualcosa di vagamente colorato da prestarle.
La verità era che Katie aveva ragione, a Leslie non fregava assolutamente nulla di partecipare a quella dannata festa. Fosse stato per lei se ne sarebbe stata volentieri al dormitorio, le cuffie dell’iPhone ben ficcate nelle orecchie e lo sguardo perso nel diluvio fuori dalla finestra, ma era da quando era arrivata a Oxford che rifiutava tutte le offerte dell’amica, e alla fine era stata costretta a cedere, più per non offenderla che per un vero desiderio di partecipare alla vita di comunità.
Una cosa che Katie non aveva assolutamente voluto recepire era che Leslie non aveva alcuna intenzione di integrarsi.
Lei odiava quella scuola, odiava i corsi e, fatta eccezione per Katie (anche se ogni tanto diventava difficile sopportare anche il suo inesauribile zelo) odiava gli studenti.
Cosa poteva aspettarsi da una festa universitaria a Oxford? Musica che non avrebbe apprezzato, cocktail che non l’avrebbero fatta ubriacare nemmeno per scherzo, mocassini brutti, pullover a rombi e interessantissime conversazioni sul fatturato annuo della Apple.
Era con questa meravigliosa prospettiva che, un paio d’ore dopo, si era incamminata assieme alla sua amica alla volta della festa. Katie aveva ragione, a Oxford la pioggia sembrava provenire da tutte le direzioni e le due erano arrivate bagnate fradice, ma dentro al locale faceva così caldo che le punte dei loro capelli si erano asciugate in un attimo.
Come da pronostico la musica faceva schifo e nei cocktail c’era talmente tanto ghiaccio che l’alcool andava allegramente a farsi benedire, ma a fine serata, più o meno attorno alle due, Leslie aveva dovuto ammettere che non era stato un evento così schifoso come se l’era aspettato. Nonostante se ne fosse stata quasi tutta la sera seduta accanto al muro e si fosse alzata solamente per prendere da bere, qualche temerario compagno di corso aveva osato rivolgerle la parola e in fin dei conti era quasi stato piacevole chiacchierare con dei completi sconosciuti.
Certo, l’aspetto veramente positivo della vicenda era che si trattava di un qualcosa di temporaneo: Leslie sapeva benissimo -e nonostante tutto lo sapeva anche Katie- che il giorno dopo lei e i suoi nuovi amici della festa sarebbero tornati ad essere perfetti estranei. Magari si sarebbero rivolti un cenno di saluto nell’incontrarsi al di fuori delle aule, forse addirittura avrebbero potuto mangiare assieme, ogni tanto, ma nulla di serio, nulla di impegnativo.
- E’ stata una bella serata, vero? – commentò Katie lasciando scivolare l’ombrello nel bidone della spazzatura che avevano abilmente trasformato in portaombrelli.
Leslie annuì e si sfilò la giacca, appendendola nell’armadio per poi andare a cercare il suo pigiama appallottolato sotto il cuscino.
- Non male, in effetti! – le concesse.
- Ah, fantastico! Allora se ti sei divertita devi assolutamente venire a... – ma la ragazza l’interruppe immediatamente alzando una mano in sua direzione.
- Calma, calma! Ora ho bisogno come minimo di un mese per riprendermi! – scherzò.
Katie però parve non cogliere l’ironia, ferma in mezzo alla stanza con lo spazzolino da denti in una mano e il dentifricio nell’altra.
- Les, non voglio essere pedante, ma davvero questa cosa non è normale. Sei a Oxford da due mesi ormai e non hai ancora conosciuto nessuno! Capisco che tu non sia esattamente quel tipo di persona che apprezza la folla, ma... Insomma, sei sicura che vada tutto bene? –
Anche Leslie interruppe quello che stava facendo, la maglietta del pigiama infilata solo per le maniche e le labbra serrate.
Katie aveva ragione, lei non aveva amici. Non ci aveva nemmeno provato, e quando qualcuno le si avvicinava trovava sempre una scusa per evitare la conversazione.
Come ad ogni proposta della sua compagna di stanza, anche con chi cercava di essere amichevole con lei la reazione era sempre la stessa: “ grazie, non sono interessata”.
L’unica cosa che davvero desiderava era diventare invisibile, inconsistente, un fantasma. Proseguire per inerzia senza che nessuno sapesse di lei.

In effetti, la domanda era più che legittima: era sicura che andasse tutto bene?
- Tranquilla, Katie, non sono sociopatica. E’ solo che... ho bisogno dei miei ritmi, tutto qui. Ma ti ringrazio per le premure! – le sorrise nel tentativo di toglierle di dosso quell’espressione afflitta e caritatevole.
Detestava sentirsi trattare come un cucciolo indifeso o un bimbo abbandonato. Detestava la compassione del suo prossimo, le premure, vere o false che fossero, di chi voleva a tutti i costi che fosse felice.
Finì di cambiarsi e scivolò sotto le coperte, inforcando le cuffie e lasciando che la riproduzione casuale le suggerisse qualche brano adatto per dormire, mentre la coinquilina spegneva la luce e la imitava.
Forse non era stata gentile nei confronti di Katie, forse avrebbe davvero potuto fingere, lasciarle credere che si fosse divertita un mondo anche se in realtà trovarsi costretta in un luogo isolato con persone che non conosceva e non voleva conoscere era il suo incubo peggiore.
Forse era davvero sociopatica, forse avrebbe dovuto piantarla di essere così negativa in ogni aspetto della sua vita.
Dopotutto aveva i soldi, aveva la salute.
Sì, ma bastava?
Leslie Compton, diciannove anni e la strada già spianata di fronte a sé, si guardava allo specchio e non vedeva nulla se non una voragine di cupa incertezza.
La vita non le era mai sembrata così vuota e insensata come in quei giorni.











_90 Degrees South_














1- Be Careful What You Wish For







Aprile 1911, dall’altra parte del mondo


Capitava un po’ a tutti di svegliarsi durante la notte. A volte era un refolo di freddo che si insinuava subdolo nel sacco a pelo e infilava le sue lunghe dita nodose giù per il collo, altre volte era perchè l’abitante della branda sopra alla propria russava poderosamente, altre volte ancora, come quella notte, era perchè bere molto prima di andare a dormire era spesso un’arma a doppio taglio.
Apsley Cherry-Garrard aveva cercato in tutti i modi di ignorare il fastidio, dannatamente riluttante all’idea di lasciare il suo sacco a pelo nel mezzo della notte, ma ogni suo sforzo si era dimostrato inutile e alla fine, facendo il più silenziosamente possibile, era sgusciato via dalla sua branda fino alle stalle.
Il freddo si era immediatamente impadronito delle sue membra, congelandogli i pensieri. In un’altra occasione un gelo simile lo avrebbe probabilmente svegliato del tutto, ma la totale assenza di vento – un miracolo – e l’aurora che si rincorreva nel cielo lo avevano avvolto come in un velo di sogno, così che non aveva prestato troppa attenzione a quello che faceva, tutto concentrato a finire il più in fretta possibile e tornarsene al calduccio a dormire ancora un po’.
Ancora intontito dal sonno, quindi, il ragazzo aveva dato una pacca sul muso al pony che aveva affettuosamente salutato il suo arrivo con uno sbuffo contenuto, poi aveva fatto dietrofront verso la baracca.
Fra la penombra e gli occhiali che aveva dimenticato all’interno era decisamente grato di aver ormai imparato il percorso a memoria, e quando raggiunse nuovamente la sua branda senza essere inciampato su nulla o nessuno si poté ritenere soddisfatto.
Un russare sommesso lo informò che quella locomotiva di Birdie stava ancora dormendo della grossa, e ben deciso ad imitarlo al più presto sollevò un lembo del suo sacco a pelo.
Non gridò per miracolo, ma lo spavento gli fece fare un considerevole balzo all’indietro: nel suo sacco a pelo c’era una persona.
Che gli avessero fatto uno scherzo? Ma a quell’ora della notte? Chi diamine era che gli aveva fregato il suo posto al calduccio? Si voltò, ma gli altri tre letti erano tutti occupati dai loro proprietari.
A tastoni nel buio riuscì finalmente a raggiungere i suoi occhiali, e di colpo i contorni assunsero nitidezza. Era buio, ma dalla finestra giungevano ancora i tenui bagliori dell’aurora e questo gli permetteva quanto meno di distinguere le figure.
Tratto un respiro vagamente scocciato, tornò a chinarsi sulla sua branda, curioso di vedere chi fosse quel burlone che aveva pensato bene di fregarlo, ma quando le sue pupille si posarono sull’immagine di una ragazza improvvisamente sentì tutto il gelo che non aveva percepito prima crollargli addosso.
Indossava una maglia che le lasciava le braccia scoperte ed era accovacciata su un fianco, il braccio destro sotto la testa e il sinistro abbandonato fuori dal sacco a pelo.
Il ragazzo si guardò nuovamente attorno, quasi una spiegazione a quell’assurdità avesse potuto emergere dalle pareti. Da dove arrivava quella sconosciuta? Come diamine aveva fatto ad entrare? E soprattutto, com’era possibile che non stesse congelando?!
Forse era morta. Forse era un cadavere.
Ma no, che sciocchezza! Come avrebbe fatto un cadavere ad arrivare fin lì?
Certo restava il fatto che nemmeno un essere umano vivo avrebbe dovuto poter raggiungere la sua branda. Che fare dunque?
Completamente preso dal panico, non pensò nemmeno e semplicemente portò una mano in avanti, pronto a scuotere vigorosamente la sconosciuta per le spalle per svegliarla e chiedere spiegazioni direttamente a lei.
Questa volta, l’urlo fu inevitabile.
- Cosa?! – fu la replica terrorizzata che giunse dalla branda.
- Chi diamine sei tu?! – rispose il ragazzo cercando disperatamente di non urlare ancora e ottenendo come unico risultato di lasciarsi sfuggire un mugolio acuto e terrificato: la sua mano aveva attraversato da parte a parte la ragazza come se fosse stata di puro spirito.
- Co-cosa? Cosa? – chiese ancora la giovane, palesemente intontita dal sonno e dalla violenta testata che aveva dato alla cornice di legno della branda.
Spaesata, si guardò attorno nel tentativo di capire che cosa stava succedendo ma, proprio come colui che l’aveva svegliata, non dovette trovare risposte soddisfacenti ai suoi quesiti e si limitò a strillare.
- Chi sei? Dove sono? Che cosa è successo? Che cosa è successo?! –
- Sssh! – fece il ragazzo nel portare l’indice davanti alle labbra.
- Cherry, chiudi il becco! – una nuova voce si fece sentire alle spalle del giovane, che si voltò disperato.
- Atch, Atch, aiuto! –
- Che cosa succede?! – continuava intanto la ragazza, terrorizzata.
Atch sbuffò ed emerse dalla sua branda, circumnavigando quella che lo separava dal luogo del delitto.
- Cherry, sei impazzito? Che hai da gridare? Cosa diamine?! – si interruppe nel notare la sconosciuta seduta sul letto, gli occhi sgranati nella penombra della notte.
- Che succede? – un’altra voce si levò assieme alla testa a cui apparteneva dalla branda di mezzo.
- C’è una ragazza nel mio letto! – piagnucolò Cherry.
La voce propruppe in una risata sommessa.
- Quanta purezza! –
- Titus, c’è davvero una ragazza! – sibilò però Atch, decisamente più serio.
Dalla branda di sopra, nel frattempo, Birdie aveva smesso di russare.
- Una ragazza?! – esclamò infatti spuntando a testa in giù dal piano superiore del letto a castello.
La ragazza in questione, nel frattempo, continuava a spostare lo sguardo da un viso all’altro, sempre più confusa.
- Chi siete?! – balbettò, la voce sempre più incrinata.
Atch fece un passo avanti e si chinò verso di lei, cercando di assumere l’espressione più rassicurante che riuscisse a fare.
- Stia tranquilla, signorina, va tutto bene. Sono Edward Leicester Atkinson e ci troviamo a Cape Evans, in Antartide. E lei è? –
Ma le sue parole, scelte con cura, non ebbero l’effetto desiderato.
La ragazza balzò in piedi, colpendo una seconda volta il legno con la testa.
- Antartide?! Non è possibile! E’ uno scherzo. E’ stata Katie? Dai, piantatela, basta! – continuò imperterrita portandosi una mano fra i capelli a massaggiare il punto che aveva sbattuto.
- Signorina, le assicuro che non si tratta affatto di uno scherzo. – cercò di farla ragionare Atch. Non sentì l’ammonimento di Cherry, non in tempo, per lo meno, e la mano che era andato a posare sulla spalla della giovane proseguì nel vuoto finchè l’uomo non la ritrasse con un sussulto.
- Cosa vuol dire?! – sbraitò la ragazza, ormai con le lacrime agli occhi.
- Atch? – Titus era sceso dalla sua branda ed era andato ad affiancare gli altri due, mentre Bridie ancora osservava la scena dall’alto.
- E’ uno spirito? – domandò confuso quello.
- Che sciocchezza! – replicò Atch.
- Ma hai visto anche tu! Non la si può toccare! – riuscì finalmente a dire Cherry senza balbettare.
A quel punto fu la voce della sconosciuta, tremante e spezzata, a farsi strada nella penombra.
- Sono uno spirito? Significa... significa che sono morta? Non è possibile! Io... io non ricordo di essere morta! Non posso essere morta, dico bene? – la sua respirazione si era fatta sempre più irregolare e le lacrime avevano preso a rotolare senza freno giù dalle sue guance.
Finalmente Birdie si decise a scendere dal suo nido e si sedette accanto alla ragazza, che nel frattempo era di nuovo crollata sul sacco a pelo.
- Sono sicuro che c’è una spiegazione a questo fenomeno, non si preoccupi! – cercò di incoraggiarla, ma ormai il terrore si era impadronito di lei e i singhiozzi si erano fatti più profondi e disperati.
- Non posso essere morta, non ha senso! Sono in coma? Forse sto sognando? Deve essere così! Devo svegliarmi! –
- No che non stai sognando! Noi siamo reali! – intervenne Cherry, ma Titus levò un braccio per impedire che si avvicinasse e gli rivolse un’occhiata di rimprovero, mentre la ragazza scuoteva ancora la testa ripetendo parole sconnesse.
- Vai a chiamare Bill, svelto. – ordinò.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e, ormai completamente sveglio, scivolò verso il fondo della baracca, dove dormiva Bill Wilson.
Era un miracolo che gli altri non si fossero svegliati con quel putiferio e ringraziò il cielo che a separarli dagli alloggiamenti del Capitano ci fosse un muro di legno.
Raggiunta la branda di Bill pregò che nessun altro lo sentisse e si accinse a svegliarlo.
- Bill! Bill! Sveglia! – lo chiamò in un sussurro, scuotendolo piano.
L’uomo aprì prima un occhio e poi l’altro.
- Cosa c’è? –
Cherry non disse nulla e gli fece segno di alzarsi; nonappena fu in piedi il ragazzo riassunse brevemente quanto successo, trascinandolo letteralmente verso la sua branda.
Quando voltarono l’angolo la situazione era esattamente come l’aveva lasciata: la giovane era ancora seduta sul suo letto e Atch stava cercando in tutti i modi di calmare il suo pianto irrefrenabile.
- Coraggio, respira con me. Uno... due... – continuava a ripetere senza successo.
- Cielo... – commentò Bill in un sussurro.
Titus lo affiancò, le braccia conserte e l’aria perplessa.
- Sta avendo una crisi isterica, non riusciamo a calmarla. – lo ragguagliò.
- Accendete una luce. – ordinò con immensa serietà mentre Atch lo salutava con un sospiro sollevato e gli cedeva il posto davanti alla branda.
Bill Wilson si piazzò di fronte alla sconosciuta e attese che il fioco lumino della lampada che Cherry usava per leggere rischiarasse appena la zona.
Si trovò dunque faccia a faccia con una ragazzina dai capelli biondi portati in un caschetto irregolare nei cui occhi gonfi e arrossati poteva leggere tutto il terrore del mondo.
Con estrema calma, attese che la giovane lo guardasse negli occhi e incominciò.
- Mi chiamo Edward Adrian Wilson, sono qui per aiutarti. Vuoi dirmi come ti chiami? – esordì.
Incredibilmente, i singhiozzi della ragazza si calmarono, permettendole di rispondere seppure con voce flebile.
- Leslie Compton. - fece, tirando su col naso.
- Sono morta? – chiese, incapace di allontanare il suo sguardo dai calmi occhi azzurri di Bill.
Quello sorrise gentile e scosse piano la testa.
- Non credo, altrimenti non potresti parlarmi. Però c’è un mistero che dobbiamo chiarire. – così dicendo alzò piano una mano, il palmo rivolto alla giovane e le dita bene aperte.
Leslie lo imitò, e lentamente l’uomo andò a sfiorare la mano della ragazza, senza poter impedirsi di rimanere alquanto stupito quando le loro dita si passarono attraverso come nebbia la mattina presto.
Non ritrasse la mano, anzi, la lasciò ferma dov’era a un soffio dall’altra, e chi non avesse prestato attenzione avrebbe potuto giurare che i due palmi fossero in contatto.
Quello strano gesto riportò finalmente il silenzio nella baracca, fatta eccezione per qualche sospiro tremolante da parte della ragazza.
Leslie Compton aveva ancora gli occhi appannati dalle lacrime, ma nella luce fioca della lampada le iridi azzurre dell’uomo inginocchiato di fronte a lei le sembravano l’unica ancora in mezzo all’assurda tempesta nella quale era capitata e quello strano gesto, quello sfiorare il palmo di quella mano che sembrava provenire da un altro mondo, seppur inconsistente era la certezza di essere viva e di essere lì per davvero: nei sogni non si riesce a vedere le proprie mani.
- Che cosa mi è successo? – domandò, azzardandosi a lanciare qualche occhiata furtiva agli altri individui in piedi attorno alla branda.
Il tizio seduto accanto a lei era probabilmente l’essere umano più brutto che avesse mai visto: aveva un naso enorme e adunco e una zazzera di corti capelli rossi e il suo sorriso, che forse voleva essere incoraggiante, lasciava intravedere denti storti e gengive rosa.
Poi vi era Wilson, l’uomo che era arrivato per ultimo e che l’aveva tranquillizzata con i suoi occhi di cielo e il sorriso paterno. Aveva il naso dritto e la fronte alta e qualcosa nel suo modo di fare, pacato e tuttavia autoritario, lo rendeva senza dubbio un individuo affascinante.
Accanto ad Atkinson, l’uomo dai lineamenti marcati che aveva scoperto essere un dottore, se ne stava a braccia conserte quello che avevano chiamato Titus. La sua espressione era indecifrabile, ma il modo in cui la scrutava metteva Leslie decisamente a disagio.
Per ultimo, in disparte quasi avesse voluto chiamarsi fuori dall’intera faccenda, c’era il ragazzo che l’aveva svegliata. Gli occhialetti rotondi gli conferivano sicuramente più anni di quanti ne avesse, e a occhio e croce doveva essere il più giovane del gruppo. Aveva l’aria di una di quelle tediose matricole di Oxford con i pullover a rombi e i mocassini brutti che aveva tanto temuto di incontrare alla festa.
Già, la festa.
Lì per lì aveva pensato, negli ultimi momenti di lucidità prima che il panico prendesse il posto della ragione, che i cocktail avessero fatto effetto in ritardo, ma ormai anche l’ipotesi coma etilico era da escludere.
- Non possiamo dirlo con certezza. Cherry ha detto che ti ha trovata qui, per ora le informazioni riguardo alla tua comparsa si limitano a questo. Qual è l’ultima cosa che ricordi? – domandò con gentilezza Wilson.
Leslie si passò una mano sulle guance per asciugare le lacrime cercando contemporaneamente di fare mente locale.
- Ero tornata dalla festa. Era tutto normale, Katie ha spento la luce, siamo andate a dormire... Mi sono addormentata come tutte le sere e poi mi sono svegliata perchè quel ragazzo mi ha gridato nelle orecchie... – riassunse.
- Beh, si da il caso che quel ragazzo si sia trovato una perfetta sconosciuta nel letto, e considerando che in teoria abbiamo abbandonato ogni fanciulla in Nuova Zelanda nel ’10 e sono passati ormai cinque mesi credo sia normale essere quantomeno sorpresi in seguito a un simile ritrovamento. – borbottò piccato Cherry.
- Cinque mesi?! Come è possibile? Aspettate, che... che giorno è? – sbottò Leslie, sempre più sconvolta da quella faccenda.
Fu il tizio seduto accanto a lei a risponderle, mostrandole nuovamente i denti in un tentativo di gentilezza non molto convincente.
- E’ il 23 Aprile 1911! –
Silenzio.
A quell’informazione gli occhi della ragazza si spalancarono così come la sua bocca.
1911.
Non solo si era risvegliata dall’altra parte del mondo, ma pure cent’anni indietro nel tempo!
Chi regnava in Inghilterra nel 1911? C’era ancora la Regina Vittoria? Hitler non era nemmeno ancora famoso a quell’epoca! Come diamine aveva fatto a finire in Antartide nel 1911?
La droga! Forse l’avevano drogata! Avevano messo qualcosa nei drink!
Era plausibile... Ma l’Antartide? Seriamente? Doveva far luce su quell’assurdità al più presto.
- Io devo tornare a casa. – sentenziò, lo sguardo fisso nel vuoto.
- Sarebbe a dire a ...? – la incalzò Titus, che non aveva smesso un momento di squadrarla di sottecchi.
- Oxford. Vivo a Oxford. –
Forse avrebbe dovuto metterli a parte del piccolo dettaglio dei cent’anni di differenza, ma aveva paura che a una simile confessione l’avrebbero presa per pazza, e se voleva tornare a casa era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
Fu a quel punto che Atkinson, ricordandosi di essere un medico, pose la questione probabilmente più intelligente dell’intera nottata.
- Chiedo scusa, ma... Non hai freddo? –
Leslie non colse immediatamente il senso di quella domanda. Certo, era in Antartide, ma evidentemente all’interno di quella specie di baracca la temperatura era normale dal momento in cui il suo pigiama era più che sufficiente per tenerla al calduccio.
Solo dopo, quando considerò che effettivamente era in Antartide e nel 1911 probabilmente non c’era il riscaldamento come lo intendeva lei, notò che i cinque uomini attorno a lei erano imbacuccati con maglioni pesanti e calzettoni di lana.
Senza trovare il coraggio di proferire parola, tanto quell’intera situazione le sembrava assurda, si limitò a scuotere la testa.
Atkinson e Wilson si rivolsero una lunga occhiata silente, mentre l’uomo a braccia conserte sbuffava sarcastico, il tizio brutto strabuzzava gli occhi e il quattrocchi scuoteva la testa annicchilito.
- Qui sta succedendo qualcosa di davvero molto strano... – considerò il medico nel portarsi una mano a sorreggere il mento con espressione pensosa.
Fu a quel punto che qualcosa si mosse dalla branda al di sopra di quella di Atch.
- Cos’è successo? Perchè siete tutti in piedi? – si udì una voce strascicata.
- Oh, nulla, Meares, abbiamo semplicemente ricevuto una visita inaspettata, torna pure a dormire. – lo liquidò con un’ironia quasi seccata Titus.
Wilson roteò gli occhi.
- Ragazzi, credo che sia davvero il caso di sottoporre la questione al Capitano. – ammise nonostante la sua voce lasciasse trasparire una certa riluttanza.
Per quanto concesso dalla lampada, Leslie vide il ragazzo giovane sbiancare e notò che improvvisamente gli altri si erano fatti in qualche modo più rigidi nella loro postura, quasi quella risoluzione fosse al pari di una condanna a morte.
Che razza di individuo era il Capitano se il solo nominarlo portava a simili reazioni? Era davvero una buona idea svegliarlo nel cuore della notte per dirgli che una sconosciuta era stata ritrovata nel suo territorio? Cosa doveva aspettarsi da quell’oscuro personaggio?
- Che questione dovete sottopormi, Bill? –
Tutti si voltarono simultaneamente verso il luogo da cui era provenuta la voce.
Di fronte a loro, le braccia conserte e le folte sopracciglia aggrottate in un’espressione torva, era comparso un uomo dagli occhi chiari e terribili.
Nessuno rispose, i sei uomini erano come congelati da quell’apparizione.
Quando il Capitano si accorse finalmente della sua presenza, Leslie trattenne il respiro.
Era spacciata.














Note:

Buongiorno a tutti!
E' un po' che questa storia mi vortica per la testa, e alla fine ho deciso di metterla per iscritto.
Sono sempre stata affascinata dalle storie di esplorazione e devo ammettere che la Spedizione Terra Nova per la conquista del Polo Sud ha sempre avuto e sempre avrà un posto particolare nel mio cuore.
Questo primo capitolo, come al solito, è più che altro una breve introduzione di Leslie, che sarà la nostra finestra su un gruppo di individui veramente straordinari.
La narrazione finora può sembrare un poco confusa, ma non preoccupatevi, avremo modo di fare la conoscenza dei nostri personaggi e del luogo in cui si muovono con molta più calma! Nel frattempo, la nostra ragazza del 2000 deve vedersela con il misterioso e a quanto pare terrificante Capitano.
Riuscirà a tornare a casa senza che la abbandonino a vagare per sempre nel gelo dell'Antartide? E tutto sommato, Oxford è davvero un luogo a cui Leslie vuole fare ritorno? Ma soprattutto, quel povero cristo di Cherry avrà un attacco di cuore o riuscirà a sopravvivere alla notte? xD
Spero di avervi un minimo incuriosito, qualsiasi commento è sempre più che apprezzato!
Un grazie infinito a chi ha letto fino a qui,

Kisses,

Koori-chan
  
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