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Autore: Bad Devil    18/11/2016    1 recensioni
“Cosa ti ricordi di venerdì scorso?” Alzò lo sguardo sul fidanzato, per scrutarne attentamente le reazioni, ma questi aveva mosso la bocca senza proferir parola, abbassando poi lo sguardo. Fu solo capace di scuotere la testa.
[Scriddler / RiddleCrow][Menzione di Psicosi e disturbi psichiatrici]
[AU - Parte della raccolta "Riddler's Box of Memories"]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: L'Enigmista, Scarecrow
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Riddler's Box of Memories'
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Titolo: “The day that shoudn't exist”
Autore: Cadaveria Ragnarsson
Fandom: Batman
Personaggi: Jonathan "Scarecrow" Crane; Edward "The Riddler" Nygma
Pairing: Scriddler (implicato)
Genere: Malinconico, Angst
Rating: R
Avvertimenti: Menzione di Disturbo Dissociativo di Personalità e Psicosi; Violenza
Disclaimer: I personaggi presenti in questa storia non sono reali, né di mia proprietà. Inoltre sono maggiorenni. Non ho nessun diritto legale su di loro a differenza degli autori e, dalla pubblicazione di questo scritto, non vi ricavo un benché minimo centesimo.

Note: Questa storia fa parte della raccolta "Riddler's Box of Memories", concettualmente basata sull'idea di Edward e Jonathan cresciuti insieme, prima di diventare i villains di Gotham.



The day that shoudn't exist


La giornata sarebbe stata complicata. Edward aveva avuto quel sentore sin dalle prime luci dell’alba quando, per disperazione, si era alzato dal proprio letto, ormai incapace di tornare a dormire. Si era preparato una cioccolata calda in cucina, il più silenziosamente possibile per non svegliare il padre, già lavato e vestito e con la tracolla pronta per la scuola. Solitamente avrebbe fatto colazione con Jonathan, in caffetteria, ma non era certo della situazione in cui i due si trovassero in quel momento. Certo, dopo che il fidanzato aveva tentato di strangolarlo e di tagliare la gola a un loro compagno le incertezze erano poche, ma dalla sua reazione di due giorni prima tutto lasciava presagire che qualcosa gli sfuggisse. Edward ci aveva rimuginato su parecchio, quasi ogni stante, ma più ci pensava, più quel “Jonathan è mio” gli risultava privo di senso. Avrebbe voluto provare a vedere la situazione da un punto di vista differente dal proprio, ma col passare del tempo l’ipotesi più ovvia continuava a sembrargli la stessa: Jonathan stava mentendo per negare l’evidenza. “Non lo farebbe mai, però... non con me”, parole vuote e prive di significato che, a stento, avrebbero potuto porre rimedio a quanto causato dal ragazzo in un solo giorno.
I lividi sul suo collo erano ancora troppo evidenti perché potesse dimenticarsene.

Questo non poteva essere negato. No?
Posò la tazza vuota nel lavandino, prendendo un biscotto dal barattolo e avviandosi verso l’edificio scolastico. Avrebbe desiderato davvero poter tenere la sciarpa al collo quel giorno, ma per quanto rigida, la temperatura non richiedeva nulla più di una felpa. Avrebbe dovuto pregare, allora, pregare che nessuno facesse caso ai segni, pronto a negare una qualunque implicazione venisse data ad essi.
Ogni mattina lui e Jonathan, salvo rarissimi casi, erano soliti incontrarsi all’angolo della strada in cui le loro abitazioni si congiungevano, in modo da poter andare insieme a scuola. Edward, però, quella mattina non sapeva cosa fare. Aspettarlo? Non gli sembrava la migliore delle idee, ma nemmeno ignorare completamente il fidanzato sembrava la risposta che andava cercando. Fu solo allora che intravide Jonathan, appoggiato al muro e con la sigaretta stretta alle labbra; lo sguardo rivolto verso il cielo grigio. Questi si accorse della presenza del rosso quando furono a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, ma quando i loro sguardi si incrociarono, nessuno dei due proferì parola. Jonathan aveva mosso le labbra, come in procinto di dire qualcosa, ma era evidente che nessuno dei due sapesse cosa fare. Edward ricambiava il suo sguardo quasi con timore, messo a disagio dal ricordo dell’ultima volta che erano stati così vicini l’uno all’altro, ma nemmeno lui sembrava capace di formulare qualcosa di coerente che valesse la pena dire. Rimasero così per diversi istanti, sommando freddezza al disagio, fino a quando Jonathan non si discostò dal muro per procedere lungo la stradina a passo lento. Doveva essersi svegliato presto anche lui, contemplò Edward, o magari nemmeno quella notte era riuscito a dormire. Lo affiancò sul marciapiede, camminando con la stessa andatura, ma evitando qualunque contatto o scambio verbale.

Alcuni minuti e diversi metri più tardi, Jonathan aveva gettato il mozzicone della propria sigaretta in terra, avviandosi poi per l’entrata principale della scuola e fin su per le scale. Edward fu tentato di dividere le loro strade e andare in classe, invece di accompagnarlo alla caffetteria, ma una parte di sé non voleva aggravare la situazione, intenzionato solo a scoprire a che punto fossero arrivati. La sola idea che potesse essere finita, per una ragione che ancora non riusciva razionalmente a spiegare, era intollerabile.
Jonathan aveva appoggiato degli spiccioli sul bancone, ordinando del caffè come consuetudine. Dovette formulare la domanda due volte, prima che Edward potesse distrarsi dai propri pensieri e realizzare che gli avesse chiesto se poteva offrirgli qualcosa. Ancora non incontrava il suo sguardo.
Edward aveva risposto freddamente di no, aggiungendo un grazie forzato e che aveva provato in ogni modo di far sembrare onesto e cortese. Una volta pronto, il ragazzo afferrò il proprio contenitore di carta e diede le spalle al bancone, diretto verso l’uscita.

“Niente zucchero oggi?”

Avrebbe voluto mordersi la lingua, Edward, ma quella provocazione gli era sorta così rapida e spontanea dal non poter venir fermata. Lo sguardo che Jonathan gli aveva riservato, in risposta, gli fece ghiacciare il sangue.

“Non ho mai messo lo zucchero nel caffè.” La sua espressione sembrava persino disgustata dalla sola idea e Edward, nonostante tutto fosse insensatamente strano, non poté fare a meno di pensare che la sua reazione fosse autentica. Fece appello a tutto il proprio autocontrollo per non obiettare e sostenere il contrario, ma ancora una volta preferì studiare la situazione e immagazzinare informazioni, affiancandolo nuovamente per andare in classe.
Non si rivolsero la parola per il resto della mattinata.
Con l’approssimarsi dell’ora di pranzo, Edward sembrava essere a disagio almeno quanto lo era stato quella mattina per la colazione. Lui e Jonathan pranzavano assieme, diamine, facevano quasi ogni cosa insieme avendo solo l’un l’altro su cui contare, ma sebbene il rosso avesse preparato qualcosa anche per lui, non era certo di sentirsi a proprio agio con l’idea di ignorare l’accaduto e comportarsi normalmente.
Avrebbe dovuto aspettare una prima mossa da parte del fidanzato? Eppure ne aveva già fatte due, aspettandolo all’incrocio e provando a offrirgli la colazione... significava che toccava a lui? Quando suonò la campanella, però, il primo ad approcciarsi a Edward fu Mark.

“Possiamo parlare?” Richiesta insolita da parte del ragazzo, a cui il rosso non poté trattenersi dall’inarcare un sopracciglio. Si alzò dalla sedia e seguì l’altro fuori dall’aula e lungo il corridoio, avvertendo su di sé il peso dello sguardo di Jonathan.

“...beh?”

Mark si indicò il collo, alludendo ai lividi del rosso.

Spaventapasseri?

Edward sospirò sconfortato, tanto per il nome usato, quanto per la domanda in sé. Se era riuscito ad accorgersene persino lui, i segni dovevano essere più che evidenti anche per tutti gli altri.

Sei preoccupato?” Lo schernì, non riuscendo proprio a nascondere lo scetticismo nel tono di voce. Gli mancava solo che Mark iniziasse a tediarlo sulla questione, alimentando magari pettegolezzi e dicerie di cui, davvero, non aveva voglia e forza di preoccuparsi in quel momento.

Poi l’idea.

“L’hai detto a qualcuno?”
Mark aggrottò le sopracciglia, guardandolo incerto.

“Di quanto è successo? No.”

Certo che no, aggiunse Edward mentalmente, sopprimendo un ghigno: farlo avrebbe dovuto obbligarlo ad ammettere che lui aveva avuto la peggio in uno scontro.

“Assumitene la responsabilità.”

“Cosa?”

“Avrai le risposte dell’esame di fine semestre. Assumitene la colpa se qualcuno fa domande e non menzionare Keeny.”
Tornare a chiamare Jonathan per cognome (uno che nemmeno gli apparteneva), gli creava un disagio paragonabile soltanto al malessere che la sola idea di passare le risposte di un esame gli procurava. Era sbagliato e andava contro ogni suo principio, ma in questo modo i suoi compagni avrebbero smesso di farsi domande riguardo i suoi lividi, era perfetto. Disgustosamente perfetto.

“Nashton, non so perché lo stai facendo, ma-” Edward lo mise a tacere con un gesto della mano.

“Non credo che abbia idea di cosa è successo.” Gli disse sinceramente, apprezzando l’ironia di star condividendo quell’informazione con il bullo che lo tormentava spesso e volentieri da anni.

“Come fa a non averne idea?”

“A volte ha difficoltà a dormire,” gli disse, senza soffermarsi sui dettagli, non che fosse un segreto dopotutto. “credo abbia superato le quarantotto ore di veglia... spiegherebbe il suo comportamento.” Non proprio, aggiunse mentalmente, ma al momento era la sua miglior soluzione.

“Anche la pazzia. Ha cercato di uccidermi!” Il tono di Mark prese una connotazione sarcastica, ma Edward non aveva intenzione di protrarre ancora quella conversazione. I dettagli, poi, non erano veramente affar suo.

“Ha provato a farlo anche con me, e no, non credo sia pazzo. Ho solo bisogno che tu tenga la bocca chiusa. Puoi farlo?”

“Esame di fine semestre e biologia di mercoledì.” Gli porse la mano, per ufficializzare, alzando la posta.

“Andata.” Edward quasi si pentì di aver accettato la sua stretta, ma il solo pensiero di aver reso la situazione meno pesante lo fece star meglio.

Quando tornarono in classe, però, Jonathan non era più lì.

Non aveva importanza che non si parlassero o che il loro rapporto si fosse raffreddato, Edward sapeva esattamente dove cercarlo. Prese il proprio telefono e la busta contenente il pranzo, dirigendosi poi a passo svelto verso l’ampia terrazza della scuola. Nemmeno si stupì, una volta aperta la cigolante porta, di trovare Jonathan appoggiato alla ringhiera a fumare. Si scambiarono un altro sguardo silenzioso e pregno di significati, ma come quella mattina, nessuno dei due fu capace di dire qualcosa. Edward allora lo affianco, poggiando gli avambracci sulla ringhiera della terrazza e guardando di sotto. Jonathan, al suo fianco, era nervoso e confuso, stato d’animo più che evidente per qualcuno che, come il rosso, era solito notare i dettagli anche più minimi di una persona. Le dita di Keeny si muovevano nervosamente, strette alla sigaretta che reggeva e provando a far cadere la cenere da essa quasi ogni secondo, senza successo perché questa aveva a mala pena il tempo di formarsi. Continuava a tenerla tra le dita e muoverla, giocherellandovi e colpendola distrattamente.
Se Jonathan era nervoso, voleva dire che sentiva il peso della situazione quanto lui, ma Edward ancora si ritrovò incapace di iniziare qualsivoglia discorso o conversazione. Quella mattina non era nemmeno riuscito a dargli il buongiorno, come si aspettava di trovarlo capace e disponibile all’andare oltre? Prese il coraggio a due mani e provò a dire qualcosa, ma in quello stesso momento il ragazzo parlò.

“Esci con Mark, ora?” Jonathan aveva davvero atteso tutto sto tempo per fargli una domanda tanto idiota?
Edward si volse verso di lui con un’espressione indecifrabile e quasi scioccata, mentre l’altro, al suo fianco, continuava a guardare altrove.

“Davvero? E’ tutto quello che hai da dirmi?” Avrebbe preferito un approccio più tranquillo, ma almeno stavano parlando.
Visti gli ultimi giorni, era un enorme passo avanti. Finalmente Jonathan si voltò verso di lui, con un sorriso sarcastico dipinto sulle labbra.

“Beh, l’ultima volta che ho detto qualcosa mi hai accusato di mentire.”

“Lo hai fatto?” Lo scrutò con attenzione, in attesa di un cenno, un cedimento, qualcosa che potesse indicare che avesse ragione, ma Jon, con altrettanta freddezza continuò a guardarlo negli occhi.

“No.”

Edward si era pentito di quelle parole subito dopo avergliele inviate, ma sul momento e in preda alla rabbia, gli erano sembrate più che motivate. Jonathan continuava a sembrargli sincero, non che gli avesse mai mentito al riguardo, ma la necessità di trovare una spiegazione a quanto successo era quasi più forte del legame che avevano.
“Se è vero, ti devo le mie scuse.” Che tutto sembrarono, tranne che sincere.

Jonathan lanciò stizzosamente la sigaretta oltre la ringhiera, osservandola poi cadere nel vuoto.
Se.” ripeté con disgusto “Perché avrei dovuto mentirti?!”

Il rosso sospirò, passandosi le mani sul volto. Non era a quel modo che voleva avere quella conversazione, non basandola su accuse e negazioni.

“Jona-”

“Se ho fatto qualcosa...” lo vide mordersi le labbra, ora incapace di sostenere il suo sguardo.

“Sei arrabbiato perché non...?”
Edward aggrottò le sopracciglia, incerto su come la frase continuasse.

“E’ perché non facciamo sesso?” Edward impallidì.

“Scusa?”

“So che facciamo delle cose, ma... magari vorresti che ti sco-”

Che mi scopassi?

Finalmente l’altro aveva alzato lo sguardo su di lui, imbarazzato e a disagio, annuendo appena.

Fantastico.
Semplicemente fantastico.


“Mi stai prendendo in giro, vero?”
Se possibile, Jonathan sembrò ancora più a disagio.

“E’ difficile per me, ok? So che è già successo e dovrebbe essere più naturale, ma...” Lo vide mordersi le labbra e abbassare lo sguardo, stringendo nervosamente il bordo della maglietta. “Ogni volta che ci penso continuo a dirmi che è disgustoso, che non avremmo mai dovuto arrivare a questo punto, che anche se è dannatamente piacevole la sola idea di dovermi spogliare mi...” Non terminò mai la frase, scuotendo solo il capo, incapace di aggiungere altro. Non che ve ne fosse necessità, Edward sapeva esattamente quali ragioni vi fossero dietro il suo disagio e, sicuramente, la mancanza di intimità fisica completa non era mai stata nemmeno lontanamente considerata tra i problemi della loro relazione, se mai ve ne fossero stati prima degli ultimi avvenimenti.
Edward lo osservò in silenzio, mentre con movimenti rapidi e nervosi il ragazzo si portava una sigaretta alle labbra, accendendola immediatamente. Aveva definito il loro stare insieme disgustoso? Fu meno sorpreso di quanto avrebbe voluto essere, nel realizzarlo. Per il modo in cui Jonathan era stato cresciuto, era più che normale che avesse sentimenti contrastanti sulla loro relazione, ma soprattutto capiva il suo disagio nel spogliarsi.
Lo capiva davvero e non era mai stato un problema.

“Jonathan...”

“Lascia perdere.”

“No, ascolta...” esitò prima di continuare, volendo lo sguardo dell’altro su di sé.
“Ti mentirei se dicessi che non mi piacerebbe ripetere quello che abbiamo fatto” gli occhi di Spooky tornarono al pavimento “ma so quanto sia difficile per te. Lo so.” Con esitazione gli posò una mano sulla spalla, cercando di nuovo la sua attenzione, il suo sguardo, ogni cosa di lui.
“Non pensare nemmeno per un momento che potrei volerlo, sapendo come ti fa sentire.”
Jonathan inspirò profondamente dalla sigaretta, prima di trovare il coraggio necessario per incontrare gli occhi verdi dell’altro.

“...e allora cosa?” Edward non replicò.
“Tutto quello a cui riuscivo a pensare era che fosse successo qualcosa con tuo padre...” gli confessò Jon, lasciando cadere la cenere in terra. “Che fossi, non lo so, frustrato e avessi bisogno di prendertela con qualcuno.” infine indicò con un cenno i segni intorno alla sua gola.
“Avrei potuto capirlo, ma...” Fece un passo indietro, in modo da perdere il contatto fisico con lui. Il punto in cui Edward lo aveva toccato quasi bruciava.
“E’ andata avanti per troppo.” La sua fredda indifferenza non poteva essere gratuita.
“E’ qualcosa che ho fatto, no...?”

Il timore nella sua voce era palpabile e Jonathan sembrava sempre più sul punto di perdere la calma, onestamente ignaro delle ragioni del rosso.
Era il momento di dargli delle spiegazioni.

“Cosa ti ricordi di venerdì scorso?” Alzò lo sguardo sul fidanzato, per scrutarne attentamente le reazioni, ma questi aveva mosso la bocca senza proferir parola, abbassando poi lo sguardo.
Fu solo capace di scuotere la testa.

“Non ho ricordi.” Infine prese coraggio e rialzò lo sguardo su di lui.
Vuoto totale.
Vi era vergogna nel suo sguardo, più che palpabile, sottolineata dal modo in cui le sue dita torturavano il bordo della maglia.

“Vuoto totale?” interrogò.

“Ricordo fino a giovedì pomeriggio... e poi da sabato mattina, so che è assurdo, ma-” Edward non lo lasciò terminare, cercando il suo sguardo con il proprio. Aveva avuto ragione fin dall’inizio allora: Jonathan non aveva minimamente idea di cosa fosse successo quel giorno e, per quanto assurdo, restava l’ipotesi più accreditata. Il ragazzo non gli aveva mai mentito, sicuramente non sarebbe riuscito a farlo così dannatamente bene.

“Ti credo.” Al suo sguardo incerto rispose annuendo con sicurezza.

“Cos’è successo?”

Edward sospirò sconfortato, portandosi entrambe le mani al volto per prendere tempo, mentre Jonathan dinnanzi a lui spostava il peso tra una gamba e l’altra, evidentemente spazientito.

“Edward...”

“Hai cercato di strangolarmi.” Il più grande alzò il volto verso di lui incredulo, quasi spaventato dalle sue parole.
Inutile girarci intorno, però, Jonathan meritava di sapere la verità.
“Eri strano...” gli disse con un sorriso amaro, la propria mano che inconsciamente andava ad accarezzare i segni sul proprio collo.
“Non sembravi propriamente in te. Quando mi hai...” non riusciva nemmeno a ripeterlo “eravamo in caffetteria, in mezzo ad altre persone. Mi hai abbracciato da dietro e poi mi hai stretto la mano al collo.” Si voltò verso di lui per mostrargli i segni, alzando la testa quanto sufficiente per fargli vedere i lividi ed i segni delle unghie sulla pelle.
“Hai detto qualcosa sull’essere libero da una gabbia e mi hai minacciato...” Un brivido gli percorse la schiena al solo ricordo.
“Sei stato crudele anche con le parole.”
Jonathan continuava a scuotere la testa, incapace di distogliere lo sguardo da quanto aveva fatto.
Stava mentendo. Doveva star mentendo, non poteva essere diversamente.

Non è colpa tua.


Si voltò di scatto a sinistra, solo per poi chiudere gli occhi e ignorare la sua voce.

“Credevo non dormissi da giorni,” gli disse Edward, provando a discolparsi in qualche modo per la sua accusa.
“Per questo quando mi hai detto che era tutto a posto ho pensato mentissi. Non aveva senso.” Non ne ha ancora, si disse, ma non lo aggiunse ad alta voce.
“Hai idea di cosa possa essere successo? Non ricordi niente?”
Jonathan ascoltava a mala pena, scuotendo la testa, incapace di dire qualunque cosa.

“Mi dispiace, Edward.”

“Scoprirò di cosa si tratta.” lo rassicurò, sforzandosi di sorridergli per fare la propria parte nel sistemare le cose. Ora era questo che contava davvero.
“Ne verremo fuori.” Gli disse ancora, posando una mano sulla sua spalla, sentendolo fremere al contatto.
“Ok?” Jonathan alzò lo sguardo prima sulla sua mano, solo infine al suo viso, quasi avesse timore di incrociare il suo sguardo.
Non può fingere, si ripeté Edward, nessuno può mentire in questo modo.

“Ok?”

“Forse dovremmo smettere di vederci.” Era stato un sibilo, più che un’affermazione, ma il rosso l’aveva udita ugualmente.
Il respiro gli morì in gola all’idea che sì, Jonathan aveva decisamente ragione, ma mai avrebbe accettato di rompere la relazione.
Non per quelle ragioni, almeno.

“Jonathan, non-”
Il ragazzo scacciò con forza la sua mano, ancora presente sulla sua spalla.

“Ti ho fatto del male e, dio mi salvi, sei l’unica persona in questa vita a cui non vorrei farne.”
Il suo sguardo era spaventato, carico di amarezza e sconforto. Le braccia erano rigide lungo i fianchi, a pugni stretti, tremanti.

“E’ stato un incidente, l’hai detto tu stesso che non avevi nemmeno idea fosse successo!!”

“Cosa speri di ottenere nell’avere una relazione con una persona che ti tratta come tuo padre?”

Il pugno che gli arrivò al volto era stato così rapido dall’averlo impossibilitato a schivarlo. Jonathan si portò una mano al viso premendosi la parte lesa, mentre Edward aveva stretto la mano al petto, evidentemente accusando il colpo allo stesso modo.

“Ed-”

“NON OSARE MAI PIU’ DIRE QUALCOSA DEL GENERE!” Sbottò.
“NON PARAGONARTI AD UN UOMO CHE HA FATTO DEL SUO PEGGIO NEGLI ULTIMI OTTO ANNI SOLO PERCHE’ POTEVA FARLO!”

Jonathan rimase a fissarlo, reggendosi la mano al volto per fermare la leggera perdita di sangue dal naso.

“Qualunque cosa tu possa dire sai che non cambierà quanto accaduto.” Prese un fazzoletto dalla propria tasca, utilizzandolo per tamponarsi il viso.
“Ho perso il controllo sul mio corpo, ho cercato di ucciderti, non voglio che accada di nuovo!”
Edward, però, non voleva ascoltare.

“Non mi importa. Posso-”

“Puoi cosa? Sopportarlo? Sopravvivere?” Qualunque fosse la risposta, per Jonathan suonava esattamente sbagliata.

“Meriti meglio di così.”

“Merito di avere questa decisione.”

“Edward-”

“No, ascoltami. Quello che hai fatto è orribile e spaventoso, non ho intenzione di negarlo o minimizzare, ma...” si avvicinò a lui con un altro fazzoletto, scostandogli le mani dal viso solo per poter rimediare in parte a quanto causato. “Non intendo permetterti di andartene per una cosa che nemmeno è dipesa da te. Sono stato sincero e ti ho detto le cose come stavano.” Tamponò gentilmente la pelle tra il naso e il labbro superiore, rigirandosi il fazzolettino tra le mani per poterne avere sempre un lato pulito. Presto avrebbe smesso di sanguinare.
“Ho capito la situazione, quanto basta per decidere che voglio affrontarla insieme a te.”

Jonathan, però, continuava a dissentire. Come poteva aver capito, se continuava ad essere all’oscuro delle allucinazioni che da tempo avevano iniziato a far parte della sua quotidianità? Le aveva avute sporadicamente, negli anni, ma era innegabile che ora stessero andando fuori controllo, gli avvenimenti della notte precedente ne era la prova.

“Non voglio farti male.”
Edward annuì, inaspettatamente, gettando lontano il fazzoletto ormai non più necessario.

“E’ per questo che sono ancora qui.”

Gli offrì un mezzo sorriso, cercando di sembrare rassicurante, ma era evidente che avesse paura quanto lui. Con molta esitazione si era poi alzato sulle punte, scostandogli il lungo ciuffo corvino dal viso per sfiorare le sue labbra in un bacio. Keeny non respinse il gesto, ma nemmeno lo ricambiò, limitandosi a chiudere gli occhi e lasciarsi divorare dall’indecisione. L’avrebbe messo in pericolo a quel modo, ne era certo. Se quello che Edward gli aveva detto era vero (e non ne dubitò nemmeno per un istante), allora l’altro avrebbe sicuramente provato a ferirlo ancora e se non poteva fuggire, allora avrebbe dovuto imparare a controllarlo. Poggiò la fronte contro la sua, provando a stringere il rosso in un abbraccio stentato ed incerto, continuando a sussurrare scuse contro le sue labbra. Edward non gli diede modo di continuare, soffocando ognuna di quelle parole nei propri baci, incurante del leggero sapore di sangue che questi avevano assunto. Furono così presi l’uno dall’altro da non accorgersi che la porta della terrazza era stata chiusa lentamente alle loro spalle.
Quando il rosso si ritrasse da lui, con le labbra umide e il volto imbarazzato, Jonathan gli accarezzò il volto col dorso della mano, sorridendo per la prima volta dopo tanto tempo. Non era soddisfatto della loro conversazione, nessuno dei due lo era, ma questo era stato un inizio ed entrambi ora sapevano che vi era del salvabile, più di quanto entrambi si sarebbero aspettati di ottenere dopo quanto accaduto.

“Dovremmo fare pranzo.” Gli disse Edward ad un tratto, accennando alla piccola busta ora lasciata sul pavimento della terrazza. Lo precedette e si sedette in terra, dando le spalle al muro. Il più grande provò a dire qualcosa sul non averlo portato con sé, ma questi si era limitato a sorridergli, invitandolo a prendere posto al suo fianco.

“L’ho preparato anche per te.” E sapere che nonostante la loro lite e l’incertezza su come la loro relazione sarebbe sopravvissuta ad essa (se fosse sopravvissuta) Edward gli avesse portato il pranzo come consuetudine, fu la prova definitiva che a dispetto di qualunque cosa fosse successa, il loro rapporto meritasse ogni sforzo per essere salvato. Prese posto al suo fianco, ricevendo tra le mani un tramezzino incartato con della stagnola.

“Wurstel e mayonese?” Si azzardò a chiedere; il ragazzo gli sorrise.

“Wurstel e mayonese.”






End
Cadaveria†Ragnarsson


  
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