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Autore: vivis_    22/11/2016    2 recensioni
Sentii il suo pollice ridisegnare delicatamente la dolce curva del mio zigomo.
«Perché sorridi?» mi chiese a fior di labbra.
«Prima di venire qui avrei scommesso anche la mia casa sul fatto di essere la persona meno capace di un coinvolgimento emotivo su questa terra. Credevo di possedere una corazza abbastanza rigida ed impermeabile da riuscire a farmi scivolare addosso i sentimenti provenienti dall’esterno. Poi arrivi tu e… guardami: sono qui a sorridere senza motivo al cospetto di due occhi neri illuminati dal chiaro di luna, manca solo Iris dei Goo Goo Dolls in sottofondo e potrei seriamente pensare di essere finita in un film tratto da un romanzo di Nicholas Sparks» spiegai con una punta di autoironia.
Sentii una leggera risata vibrare nel suo petto a contatto con il mio. Quel sorriso. Se anche il mio cervello fosse stato fisicamente in grado di dimenticare, quel sorriso non lo avrei scordato mai.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buona sera a tutti. 
Di solito non mi piace fare premesse prima di un capitolo, ma sento, questa volta,di dovervi delle scuse. Sono stata davvero molto assente in questo ultimo periodo.
I motivi sono stati tanti: lo stress da preparazione dell'Erasmus, gli esami, la mancaza di ispirazione... ma non voglio dilungarmi in giustificazioni, mi limito solo a chiedere scusa per questa prolungata assenza di segnali di vita. In più mi sono sentita di dover cambiare il rating della storia da 'giallo' ad 'arancione' perchè, studiando criminologia, potrei avere un sensibilità diversa riguardo a certe tematiche e non voglio che qualcuno possa invece sentirsi più colpito.
Spero che mi possiate perdonare e che, nonostante tutto, possiate ancora diretirvi, o comunque passare del tempo piacevole, in compagnia dei miei personaggi. 
Grazie mille, a chiunque voglia ributtarsi in questa avventura insieme a me. 
Buona lettura, spero che l'attesa ne sia valsa la pena.
xx 
_______________________________ 

 



Capitolo VI
VIRGINIA

 

«Beh, ragazzi io ho un certo languorino.» la voce squillante di Victoria fece irruzione prima che l’attore potesse rispondere. «Ben pranzi con noi?» chiese infine.

«Volentieri, Vicky» rispose l’attore.

Grazie per aver chiesto la mia opinione, pensai sarcastica. Buttai lo sguardo verso i fascicoli che avevo abbandonato sul tavolo del salotto-cucina (controllare), ero tornata lì per prenderli e portarli in camera mia, dove avrei potuto dare loro un’occhiata, lontana da inaspettate riunioni famigliari. Mi vidi costretta ad accantonare l’idea, dato che le convenzioni sociali imponevano di intrattenere l’ospite, facendolo sentire come a “casa sua”.

Avevo sempre detestato quel genere di leggi non scritte, persino da piccola mia madre dovette corrompermi con del budino al cioccolato per far sì che sorridessi amichevolmente ai clienti del loro piccolo bar, nonostante non capissi perché dovessi sembrare contenta di vedere anche gente che non conoscevo.

Una volta mio padre si sedette accanto a me sulla piccola panchina in vimini che avevamo in giardino e, porgendomi un dente di leone, mi disse con voce paziente: «La maestra mi ha detto che parli poco con i tuoi compagni.»

«Non abbiamo niente da dirci, papi» risposi tranquilla mentre lasciavo che i sottili petali gialli mi solleticassero il nasino dritto. «loro parlano sempre di cose che non mi interessano.»

«Perché non provi a chiedergli tu qualcosa? Tipo come stanno o cosa hanno fatto il giorno prima.» continuò allora avvicinandosi a me.

«Perché io non voglio saperlo davvero.» risposi di nuovo candidamente, mettendomi il dente di leone dietro all’orecchio con un sorrisetto compiaciuto. Davvero faticavo a comprendere perché dovessi chiedere a qualcuno come stesse anche se, in realtà, lo stato di salute del soggetto in questione non destasse in me il benché minimo interesse. Mio padre si schiarì la voce per mascherare una risata.

«Capisco tesoro, ma bisogna essere gentili con le persone se vogliamo che loro siano gentili con noi.»

«Oh, okay papà.» avevo alzato le spalle non ancora completamente convinta. «Ma devo farlo solo con i bambini o devo farlo anche con i grandi?»

«Oh tesoro, devi farlo soprattutto con i grandi.» dopo aver risposto aveva allungato le mani che profumavano di pane appena sfornato e aveva appoggiato la punta del dito al centro della mia fronte, per poi farla scorrere fino allo zigomo seguendo la linea dell’attaccatura dei capelli.

«Ma i grandi dicono le bugie quando gli chiedi come stanno.» rannicchiai le ginocchia spigolose al petto e vi ci appoggiai sopra la guancia.

«Cosa intendi, piccola?»

«Beh, quando tu chiedi agli altri grandi come stanno, ti rispondono sempre che stanno bene. Anche quando hanno gli occhi rossi, come quando si piange o anche quando hanno la voce da arrabbiati.» risposi avvolgendo le braccia intorno alle gambe sottili.

«A volte vorrei che tu non fossi così sveglia.» sussurrò arruffandomi i capelli.

 

«Pizza o cinese?» la domanda di Vicky mi riportò nel presente.

«Beh, visto le origini dell’Agente, io direi pizza!» suggerì l’attore alzando l’indice verso l’alto, come se avesse avuto l’intuizione del secolo.

E il vincitore del “cadiamo-a-fagiolo-nei-cliché-italiani award” di quest’anno è…

«Per l’amor del cielo no! Peggio della pizza, qui in Inghilterra avete solo il caffè.» Alzai le mani in segno di protesta. «Datemi del pollo alle mandorle e sarò felice.»

«Un giorno verificherò se questa vostra diffidenza per il cibo straniero ha qualche fondamento.» disse Benjamin, appoggiandosi con i gomiti al bancone della cucina.

I suoi tentativi, intenzionali o involontari che fossero, di farmi perdere la pazienza iniziavano ad avere successo. Mi voltai verso l’attore, indecisa se rispondere o meno alla sua provocazione.

La vibrazione proveniente dalla mia felpa, giunse prontamente a ricordarmi l’importanza del non sprecare fiato per assecondare uscite di una tale banalità.

Grazie al cielo, pensai tra me mentre estraevo il mio smartphone dalla tasca, non sono mai stata tanto felice di dover interrompere una conversazione per rispondere ad una chiamata.

Aggottai le sopracciglia nel leggere la scritta ‘numero privato’ nella parte superiore dello schermo, ma il desiderio di scappare da quell’indesiderata riunione di famiglia fu un incentivo sufficiente a far scorrere il dito sullo schermo e rispondere senza pormi troppe domande. «Pronto?» alzai la mano, scusandomi con le altre due persone nella stanza.

«Virginia, sono Paula Jones. Ci siamo conosciute poche ore fa.» rispose la voce misurata della mia collega dall’altro capo del telefono.

«Oh certo, Paula. Dimmi tutto.» risposi sentendo su di me gli sguardi interrogativi di Vickie e Benjamin.

«Senti, dovresti venire in centrale.»

Inarcai le sopracciglia, perplessa.

«Certo, nessun problema? Quando?» chiesi pensando che la richiesta fosse dovuta a qualche faccenda di tipo strettamente burocratico, vista la tassatività con cui si era espresso il capitano della squadra.

«Il prima possibile.» disse con tono gelido, tanto gelido da allarmarmi.

«Okay, certamente… ma cosa è successo?» chiesi preoccupata, mentre mi dirigevo verso camera mia per rimettermi in abiti formali sotto gli sguardi interrogatori di Benjamin e Vicky.

«Abbiamo un’altra vittima.»

 

§

 

Tirai un lembo del guanto in lattice per assicurarmi che aderisse perfettamente alla mia pelle, per poi lasciarlo andare andare, producendo un suono simile ad un schiocco. Avevo sempre considerato i guanti in lattice un male necessario: per quanto odiassi non poter avere un contatto diretto con la scena del crimine, odiavo decisamente più l'idea di dover rilasciare un criminale a causa di un reperto inquinato. Attraversai lo stretto corridoio schivando gli agenti della divisione scientifica intenti a passarsi il materiale necessario per la raccolta delle prove. Trovai la porta della camera da letto socchiusa, al suo interno riuscivo a vedere le ombre di almeno tre persone che si muovevano nervose seguendo una traiettoria a semicerchio. Spinsi la leggermente la porta con il gomito per riuscire ad aprirla.

Sostai qualche secondo sulla soglia prima di confermare a me stessa quello che avevo iniziato a sospettare mentre sfogliavo i fascicoli sul sedile della macchina della polizia, nella quale ero stata letteralmente infilata non appena avevo messo piede fuori dalla stazione di St. James's Park: quelle non erano scene del crimine simili a quelle del caso Maffei, erano praticamente identiche.

La stanza non era particolarmente grande, di dimensione standard per un appartamento in quella zona, le pareti color sabbia erano ancora immerse nella penombra. Un solitario filo di luce trapelava dalle tende coprenti, accarezzando la liscia superficie di un vetro dietro al quale era stato sistemato, per poi essere orgogliosamente appeso, un attestato di laurea in fisioterapia.

Rivolsi lo sguardo verso le tre persone che, nel frattempo, avevano smesso di muoversi per la camera da letto e che, in quel momento,stavano in piedi davanti all'armadio aperto. Vicino alla finestra, riconobbi la figura del capitano Shawn che, con il mento stretto tra il pollice e l'indice farfugliava tra sé congetture che non mi sforzai nemmeno di provare a comprendere. Accanto a lui, la figura slanciata e ben proporzionata di un giovane uomo dalla pelle color ebano mi dava le spalle. anch'egli assorto nei suoi pensieri, rigirava nervosamente gli anelli della catena delle manette, che portava agganciare ad uno dei passanti dei jeans scuri, tra le lunghe dita da pianista. Il terzo, un uomo di mezza età dai capelli brizzolati, si stava passando le dita tra i capelli rivolgendo lo sguardo interrogativo verso il capitano. Non potei far a meno di notare l'alone bianco sull'anulare sinistro, il che indicava due possibilità: recentemente divorziato o traditore sbadato. Inclinai la testa, mettendo a fuoco le pieghe sulla camicia azzurra, segno evidente di una stiratura approssimativa. Decisamente divorziato.

Sbattei velocemente le palpebre, maledicendomi per lo scarso controllo che avevo del mio cervello e cercando di eliminare dalla mia mente qualsiasi ragionamento non fosse utile ad analizzare la scena del crimine.

Mossi un passo all'interno della stanza ed iniziai ad osservare ogni elemento di quel raccapricciante scenario per cogliere anche la minima differenza che potesse indicare che quell'omicidio e tre omicidi commessi sul novarese due anni prima non fossero stati commessi dalla stessa efferata mano.

La vittima, Charlotte Patrykson, giaceva sul suo letto, distesa su un fianco. Le lenzuola erano accartocciate attorno al corpo inerme formando un'irregolare cornice blu che metteva in risalto il pallore della pelle senza vita. Mi avvicinai alla vittima, percorrendo lentamente il lato lungo del letto e lasciano che i miei occhi scattassero delle istantanee che da quel giorno in poi sarebbero rimaste indelebili nella mia mente.

Era a questo che si era condannati quando si possedeva una memoria come la mia, a non poter dimenticare nulla. Tutto veniva fotografato dagli occhi e archiviato nel cervello in maniera tanto precisa e vivida che, se mi fossi applicata di più durante le lezioni di educazione artistica, se mi avessero dato un pezzo di carta e una matita sarei stata in grado si ridisegnare ogni viso su cui avevo posato lo sguardo oppure riscrivere tutto il romanzo che avevo appena finito di leggere rispettando ogni singola parola.

Mi piegai sulle ginocchia ed iniziai ad osservare da vicino le mani strette a pugno. La mia attenzione fu subito catturata da un minuscolo angolo di tessuto blu che faceva capolino dal pugno sinistro. Tentai di districare le dita della ragazza, ma il rigor mortis aveva già irrigidito tutte le articolazioni, fossilizzandole in quella posizione per le successive ventiquattro ore (controllare). Presi allora il piccolo lembo tra due polpastrelli e lo sfilati delicatamente, lo avvicinai al viso e iniziai ad analizzarlo più da vicino.

«Hai lottato Charlotte, vero?» sussurrai, passando il dito sui lividi da difesa che imbrattavano la pelle candida con il loro colore rosso-bluastro.

Affilai lo sguardo e con esso percorsi il profilo delle braccia sottili e pallide come rami di betulla fino ad arrivare prima alle spalle e poi al viso.

I capelli lunghi capelli biondi erano sparsi sul cuscino in maniera caotica, formando una macchia dorata che contrastava col tessuto della federa, resa ancora più scura dall'enorme chiazza di sangue che si estendeva su quasi tutta la sua superficie. Una ciocca solitaria le ricadeva sul viso, seguendo il profilo rotondo della guancia disegnando una linea guida che portava dritta alla ferita mortale alla gola. Un inquietante sorriso scarlatto che attraversava il lungo collo da cigno da parte a parte.

«Coltello... da caccia probabilmente.» mi avvicinai per osservare con più attenzione i due lembi della ferita. «Lama non seghettata.»

Tornai ad osservare il viso della ragazza ancora contorto in un'espressione terrorizzata, come se davanti a quegli occhi ormai vitrei ci fosse ancora il viso di chi l'aveva uccisa. Chiusi gli occhi per un secondo e subito le immagini delle vittime italiane iniziarono a sfilare, nitide, dietro le mie palpebre: la stanza bianca di Beatrice Spina, le lenzuola di raso nero di Anna Verdini, i segni delle unghie sulla testiera del letto di Anastasia Nigori... i loro volti presero forma nella mia mente, con i loro lineamenti contorti, la mascella rigida e gli occhi chiusi.

Tornai bruscamente al presente aggrottando le sopracciglia, perplessa. «Perchè non ti ha chiuso gli occhi?» le chiesi sottovoce.

«Parli spesso con i cadaveri?» chiese una voce alle mie spalle, quasi divertita, facendo la esplodere la mia bolla di concentrazione.

Feci roteare gli occhi. «Sì» risposi senza voltarmi. «Danno più risposte di quanto ci possa aspettare e non interrompono i ragionamenti.» conclusi assicurandomi che la frecciata arrivasse al destinatario, per poi tornare ad esaminare il pezzo di tessuto che avevo appena trovato tra le meno della vittima. Lo accostai al lenzuolo e subito fu evidente il fatto che le due stoffe combaciassero perfettamente, non restava altro da fare se non cercare lo strappo che avrebbe confermato il tutto.

«E questi ragionamenti possono essere condivisi anche con noi, agente?» chiese di nuovo la voce maschile.

Inspirai infastidita da quella seconda interruzione. Feci leva sulle ginocchia e mi rimisi in posizione eretta, decisa, questa volta, a voltarmi per scoprire l'identità del mio interlocutore.

Davanti a me si parò un viso allungato e dalla pelle scura. Le labbra carnose del giovane uomo erano tirate, lasciando scoperta una fila di denti perfetti.

«Lo avrei fatto, non appena fossi riuscita a concluderne uno.» risposi secca, mentre mi sfilavo i guanti.

Lui alzò le mani, mostrandomi i palmi, senza riuscire a togliersi dalla faccia quella sua espressione vagamente divertita da ancora non mi era chiaro cosa. Quel gesto, mi ricordò improvvisamente come stessi ignorando qualsia tipo di regola del buon socializzare tra colleghi. Era una situazione che si presentava spesso, o per lo meno più spesso del solito, quando mi trovavo a lavorare sul campo. La mia concentrazione, quando lavoravo ad un caso, era tale che ogni tipo di convenevole non necessario, scivolava all'ultimo posto della classifica delle mie priorità.

«Immagino che il numero sia lì.» dissi indicando gli altri due uomini ancora impalati nella stessa posizione di poco prima.

«Nell'armadio.» mi confermò, facendomi strada con un gesto teatrale del braccio.

Ma che diamine di selezione fanno a Scotland Yard? Pensai sorpassandolo.

«Oh, è arrivata l'Agente Speciale» annunciò Christopher Shawn, preoccupandosi di non nascondere la punta di disprezzo che gli incrinava la voce.

«Dieci minuti fa, gentile da parte sua essersene accorto.» lo scansai senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.

L'armadio in legno chiaro era già stato svuotato dalla polizia scientifica. Mi sporsi in avanti per avvicinarmi al numero disegnato col sangue sul fondo. Il numero 14.

Riosservai mentalmente i fascicoli dei casi precedenti, che aveva sfogliato lungo il tragitto, cercando di visualizzare i numeri sulle scene del crimine. Sulla prima scena era stato trovato il numero quattro, poi l'otto ed infine l'uno.

Mi strinsi il mento tra due dita, confermando finalmente quello che era stato il mio sospetto fin dall'inizio. Sentivo gli sguardi dei tre agenti alle mie spalle trafiggermi la nuca. Se fossi voltata in quel momento avrei probabilmente li avrei visti tutti e tre a braccia conserte e i visi corrucciati.

«Non è lo stesso uomo.» sentenziai con tono deciso, rispondendo alle silenziose domande dei miei colleghi.

«Mi fa piacere vedere che non hai nemmeno il minimo dubbio.» commentò pungente il capitano.

strinsi i pugli lungo i fianchi, esasperata.

«La scena del crimine è simile, non posso negarlo. Ma Carlo Maffei era spinto ad uccidere da da un desiderio completamente irrazionale, che andava al di la del proprio autocontrollo, semplicemente non riusciva a farne a meno. Per questo chiudeva gli occhi alle proprie vittime, è un segno di rimorso. Ma qui, il killer ha lasciato gli occhi aperti alla ragazza, l'uomo che ha commesso i crimini in Italia non avrebbe mai tralasciato questo passaggio.» dissi indicando la vittima ancora stesa sul proprio letto. «Poi abbiamo la firma: i numeri sul muro. In Italia vi era una numerazione precisa, dalla prima alla terza. Questo perchè Maffei, nel suo delirio, incolpava la polizia di non essere riuscita a fermarlo in tempo, e quello era un modo per ricordarci quante vite non eravamo stati in grado di salvare. Questi numeri sono sparsi, e penso che anche la più incompetente delle reclute sappia che un serial killer non cambia mai la propria firma.» conclusi poi, ricordandomi a malapena di respirare tra una frase e l'altra.

Alle mie spalle calò un silenzio tombale che mi indusse a girami, giusto per assicurarmi di non essere rimasta sola nella stanza e di non star parlando solo con un armadio vuoto. Davanti a me si pararono le espressioni basite dei miei colleghi. Lessi, compiaciuta, negli occhi del capitano il suo disperato tentativo di trovare un motivo per contraddirmi.

«E questa da dove l'abbiamo tirata fuori? Da un romanzo di Conan Doyle?» commentò l'uomo brizzolato, che ancora faticava a serrare la mascella, rivolgendosi verso i colleghi alla sua sinistra.

«O dall'accademia degli X-men» lo assecondò il terzo uomo, inarcando un sopracciglio.

«Signori, possiamo tornare al caso?» li richiamai stringendomi l'attaccatura del naso tra il pollice e l'indice.

Perchè tutti continuano a parlare di me come se io non fossi presente? Pensai infastidita. 

   
 
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