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Autore: Lafigliadellestelle    24/11/2016    0 recensioni
“Abyssum, abyssum invocat, Candide” in un tuo momento pensoso levasti lo sguardo al cielo e fui convinta che lì, persa nel vento, stessi cercando la tua anima. Mi dicesti che non avevi mai visto sguardo più bello, di quello che Candide mostrava quando il mondo lo coglieva così alla sprovvista da farlo sorprendere, lui che un tempo era il Fratello degli uomini. Mi mostrò quell’espressione, in quel momento e fui sconvolta dal pensare, che anche gli Angeli si meravigliavano guardando verso il basso.
“Hai sempre pensato che la fine fosse un abisso, Ophelia? E’... è possibile che tu la veda così?’”
“Forse. Credo dipenda dalla fine del libro che ho letto, immagino abbia una certa influenza.”
Sorrise e in quel momento giurai che ci fosse l’orgoglio e l’amore dello stesso Dio in quel sorriso.
“Ma, mio caro, ci tengo a dirti che la fine non è altro che un abisso. Puoi mai vederla, tu? Riesci mai a scorgerla nel fondo di una gola se non tratteggiata con l’aura inconsistente di un miraggio? Abyssum abyssum invocat, Candide "
Genere: Fantasy, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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IL CIGNO

 

Penso oggi a te Andromaca: quel così triste e vile

rivolo in cui un dì ti specchiasti commossa,

nel fulgore del tuo cordoglio vedovile, quel falso Simoenta che il tuo piangere ingrossa,

d’un tratto ha fecondato la mia fertile mente,

passando io per il nuovo Carosello. E’ cresciuta,

Parigi è un’altra ormai (ah, più volubilmente

del cuore d’un mortale una città si muta!);

e io solo in ispirito quel campo di baracche

rivedo, e l’erbe, i mucchi delle colonne cieche,

i macigni chiazzati di verdognole zacchere,

i bazar delle ingombre luccicanti bacheche.

Là, dove s’attendeva, già un serraglio, un mattino

vidi, nell’ora in cui il Lavoro si desta

sotto un cielo lucente e freddo, e lo spazzino

alza nell’aria tacita una fosca tempesta,

vidi un cigno che, evaso dalla gabbia, sfregava

con i piedi palmati le scabre selci, e tutto il candido piumaggio al suolo trascinava;

il becco proteggendo ad un rigagnolo asciutto,

bagnava nella polvere inquietantemente l’ali

e diceva, il bel lago nativo rimpiangendo:

“Acqua, non piovi, dunque? folgore, e tu non cali?”

Questo infelice io vedo, mito strano e tremendo,

talora, come l’uomo d’Ovidio, verso il cielo

azzurro, verso il muto implacabile scherno

del cielo azzurro, torcere dal collo il capo anelo,

quasi a Dio rivolgesse un rimprovero eterno!

(Charles Baudelaire- Il Cigno)

 
 
 
 

In tutta la sua vita, per quanto fosse stato soltanto un fugace respiro durante la vigilia di un lungo e arido inverno, Cloris non aveva mai veduto un essere più bello dell’incantevole creatura il cui androgino e sinuoso corpo si piegava sulla sedia con una grazia e una sensualità di movenze da ricondurre l’occhio alla figura di un giunco flesso sull’acqua, di una maledetta pantera dal corpo allungato in un fuso di muscoli e passione.

Si dipingeva con i floreali ricami della seggiola sul quale sedeva, la maglia spessa e i colori di una lugubre e consunta sfumatura di capretto, un colore incerto tra il marroncino e un avorio macchiato dalla sottile polvere cittadina, quella stagnata negli angoli più remoti che finiva con lo stanziare la propria residenza tra i peli più sottili del volto, tra le folte ciglia scure, tra le pieghe del capello, tra le articolazioni e le giunture del corpo e infine, nei polmoni colmandoli di una sensazione di depressa secchezza, la sua pelle di porcellana riluceva come una margherita nel grigio dell'asfalto. Era, nonostante l’antiquata e precisa finezza della lavorazione del mobilio, una misera cornice intonacata di un sottile filamente d’oro, appena accennato e tremolante sulle pieghe del legno, che serviva un quadro della più somma e agghiacciante bellezza.

La bellezza risiede nel male, Cloris solevano dire quelle labbra turgide e peccaminose quanto un sogno consumato nel cuore della notte, le medesime che stavano colorando di una sfumatura argentea e voluttuosa, il salottino barocco che aveva visto rincorrersi, che aveva visto gonfiarsi, l’amore della figura più scialba e ordinaria di un mondo straordinario nei confronti di quanto più eclettico fosse stato generato da Madre natura, da una figura di una tale, maligna perfezione, che ahimé, madre Natura non poteva che rivendicare come una gobba matrigna.

Tentò di rimembrare, gli occhi di uno sciatto marrone moribondo, a chi si fosse riferito un giorno che non si allontanava troppo nel passato, quando gli aveva raccontato della duplice forma della Natura. Gli era così facile dimenticare ognuno dei suoi insegnamenti! Ogni qualvolta la sua voce melanconica e piena, come un bel fiore dai ricchi petali, si prostrava in una massima, si prostrava in una lezione, la mente del giovane Cloris trovava sempre la degna via di fuga, d’evasione, al fine di mutarle, di piegarle al proprio volere e ad un suono più gradito per le sue orecchie. Alle volte dimenticava persino di attribuire un senso alle parole del suo tutore, poco più che un fanciullo, perduto com’era per la silva tenebrosa che lo intrappolava nei suoi occhi.

Conveniva con quell’affermazione e l’aveva assaporata a pieno ogni giorno che quel dono del cielo vestito da demone, che quello splendido cigno, sedeva sulla stessa poltroncina, sempre con un sigaro come ornamento al suo volto privo di pecche e privo di clemenza che si portava sempre con sé, un bagaglio di lussuria e una tristezza velata e trasparente, una tristezza che sbiadiva il suo sorriso e accendeva le sue parole, accendeva lingue che solo il grembo della Terra teneva ancora in memoria.

Acconsentiva con lui, nel dire che la bellezza risiede nel male e il male erano i suoi stessi occhi.

Alla tremolante luce ad olio che si stava consumando, la stessa luce che gettava ombre avide di un bel volto di fanciullo, la luce che stava lasciando alla sua anima ben poco, i rimasugli cinerei e ancora vagamente fumanti che ogni sera, gli ricordavano che avrebbe dovuto salutarlo, condurlo alla porta e stringere la sua mano come quella di un amico virile, con una poderosa stretta nella quale avrebbe visto soltanto un nebbioso ricordo di quella notte da lui ricordava con sorprendente affetto, con l’agape che si mescolava all’eros, nella notte in cui divenne lui stesso il ladro di cuori, gli occhi del giovane tutore lo conducevano ad un’immagine di una bellezza così onirica, che gli dei stessi avrebbero impallidito di stizza di fronte al suo peccato di tracotanza.

Afrodite sarebbe discesa dall’Olimpo e lo avrebbe punito, un giorno, lo avrebbe gittato in una latrina melmosa dove neanche il vento avrebbe ricordato il suo nome.

Gli occhi di Zephyr erano i prati battuti dagli zoccoli delle fiere di Lucifero, erano i bacini nei quali gli angeli intingevano le loro ali e si abbeveravano, si dissetavano fino all’ebbrezza.

Allora, Cloris…le parole si plasmarono in un anello di fumo e con questo, si sciolsero nell’aria dopo aver raggiunto un apice in una sottile nebbiolina di colore appena accennato, il cui odore restava come un eco perpetuo intorno a loro. Cloris sussultò appena nella redingote sbiadita sui polsini bianchi e inamidati. Era vestito con cura raffinata, nel complesso, il titolo nobiliare che si cuciva nei polsini d’oro e nelle mani vergini da qualsiasi fatica, eppure serbava, quasi un marchio di fabbrica, un’aura che avrebbe suscitato la più sfacciata indifferenza. In lui c’era la banalità dell’ordinario, un elemento scontato, quasi la retorica del sorgere del sole, mancava del riflettore d’amore della bellezza e di quello di scherno della bruttezza.

Mantenendo il più ostentato controllo, i grandi occhi che parevano aver assunto il colore paglierino dei capelli appiccicati sulla nuca, si rivolse allo stregone con una smorfia di confidenza, valicando il muro di distanza tra tutore e allievo, violandolo.

Spero vivamente tu ti sia portato avanti nella lettura di Edipo re, Cloris.

Come sei fiscale, Zephyr! Nella vita d’un gentiluomo ci saranno ben altri piaceri che quelli intellettuali, non ne sei forse tu la più viva dimostrazione? Al che, negli occhi di Zephyr si illuminò una stella lontana e lungimirante nel pieno della pupilla, una luce abbastanza intensa da schiarire il torbido verde degli occhi e ammorbidirlo con un fare così blando da farli luccicare come un berillio ancora aderente sulla sua roccia. Si formò sulle labbra, o piuttosto lungo la guancia, un sorriso sbilenco, una cicatrice che si sollevava come una frivola pozzanghera sollevatosi dal passo turbolento di un bel giovane.

Cloris non avrebbe mai saputo definirlo un vero e proprio sorriso, non avrebbe mai potuto dire di aver scorto, nei suoi occhi, impigliato agli angoli della sua bocca il rimasuglio di una pallida felicità o soltanto il riflesso di questo. Si rese conto, dal primo momento che lo vide, che era la persona più triste ch’egli avesse mai incontrato e quella tristezza, lo rendeva lucente, lo faceva crepitare come un fuoco acceso nel cuore di una casa.

Piaceri, Cloris? Ahi, taci tu, razza di ignorante in materia! Il piacere è ben altro dal bel corpo d'una fanciulla si arrestò un solo istante, un lampo di furbizia maliziosa sul fondale degli occhi. Di sicuro saprei parlarti per ore delle grazie femminili - e delle maschili s’intende -, ma ti dimentichi in cos’altro si nasconda nel piacere aveva abbassato la voce, resa malapena il sibilo di un serpente velenoso dal capo inanellato di una corona regale, pareva essere intento a confidargli un segreto.

Poi, riportò nuovamente la schiena sul dorso della sedia, si adagiò alla sua forma con un sospiro di fumo, e si portò le lunghe dita affusolate nella piega al di sotto della mascella, costringendo il polpastrello ad una mesta carezza che suonava di un evidente autocompiacimento.

Persino Narciso mancava di una tale passione e un tale peccato nel tocco.

Non ti sembra villano fare un vanto della tua professione di fronte ad un gentiluomo?

In una città dove i bordelli sono il più gettonato luogo di incontri, nonché il grembo d'ogni matrimonio che si rispetti, io non dovrei vantarmi del mio venerando mestiere?

Ah, Zephyr, quando avrai il mal francese piangerai le tue scelte!

Ti correggo subito, Cloris: quando avrò il mal francese diverrò un bruco morente, non avrò alcuna voglia di piangere, anzi! Ti chiederò dei sigari, di alta qualità, per carità, voglio godermi gli ultimi esali di respiro, del vino francese e sarò l’uomo più felice al mondo! Cloris, ormai vinto dalla peccaminosa beffa sul volto di colui che per te aveva considerato il suo più ardito desiderio e la sua più cara speranza, si arrese con una scrollata annoiata delle spalle così strette che tra le mani di Zephyr sarebbero risultate quelle di un’amante graziosa come un fiore.

Ho preparato il bagaglio per domani, Zephyr, mi auguro che la diligenza sia puntuale, domattina

Negli occhi del giovane gigolò balenò una scintilla dal sapore vagamente agrodolce, insipido sulla lingua, quasi uno strato di cenere la stesse dissipando con premura mortale.

Negli occhi del colore di una bottiglia trafitta dal mare, si scorgeva quella nota malinconica in rare occasioni, in quei momenti nei quali, il capo gettato all’indietro, ammorbidito nelle sue androgine e spigolose forme dall’onda dei capelli sul viso, la gola che presentava il pomo d’Adamo come la mela di Callisto, il pensiero rapiva i suoi sensi in assuefazione e li avvolgeva della sensazione di trasporto velenoso concesso dall’oppio.

In quei momenti, la violenta vampa della gelosia assaliva il volto pallido di Cloris, imporporandolo sdegnosamente, mentre toglieva colore alle nocche serrate nel pugno. Nel suo cuore, in quella che era stata spesso definita una landa desolata, una solitaria goccia d’acqua ad infrangere la superficie d’acqua d’un pozzo, il più delle volte, ribolliva avidamente della bramosia di possedere quel momento di pura malinconia, di farsi largo ancheggiando, comprimendo nelle remote pareti della mente, gli altri profani pensieri che l’affolavano così che lui divenisse un fulcro, il perno delle sue brillanti riflessioni.

Lasciamo finalmente la triste, grigia e oppiomane Londra per raggiungere la grigia, triste e oppiomane Parigi? Ah, la mia sorellina starà mettendo in ginocchio tutti i suoi pretendenti con i suoi tacchi sguainati!

Oh, Zephyr! Quello di piantare la polvere nei cuori dei vostri pretendenti è un vizio dei Blackashes?A questo punto si disse Cloris piegando gli angoli delle labbra verso il basso, vittime di un’amara medicina Il mio cuore dovrebbe essere già stracolmo di ragnatele e ragni.

Ma certo che no! Da dove trovi questi patetici volgarismi al riguardo della mia famiglia? No, no, qui non ci siamo. mio caro. Il vizio dei Blackashes è quello di essere così irresistibili da essere come api per i fiori: certo, non possiamo impollinarle tutte, non credi?

Cloris, un’amarezza ostentata nello sguardo che sperò bruciasse la pelle di Zephyr, scrollò il suo discorso con l’agitazione di una mano in aria, nel quale i bottoni d’oro si scontrarono tra loro in un prezioso suono che diede l’impressione di essere circondati da ricche monete che si contendevano l’acquisto delle merci più ricercate.

Quanto abbiamo intenzione di restare? Parigi è un Calvario da quando Haussman ha deciso di metterla a ferro e a fuoco

Oh, il vecchio Haussman! Non trovi che sia assolutamente lodevole per un umano ergersi a dio per rovesciare dall’interno una città? Zephyr si drizzò in piedi, le gambe agili e flessuose come quelle di una pantera, la schiena arcuata di un gatto stuzzicato impudicamente. A Cloris traballò il cuore nel petto a quell’incantevole visione.

Ma tornando alle tue dozzinali quisquiglie burocratiche da uomo che non sa spremere il momento e necessita sempre un punto d’arrivo - puah, che spreco, che spreco! - deduco che il ritorno tarderà. Su, cos’è quell’espressione, mio caro? Vedrai che ti troverò una fumeria d’oppio anche a Parigi. O forse la tua delusione deriva dal fatto che tu tema una conversazione in una lingua non natìa? Tranquillo, fratello mio, il linguaggio dei segni è abbastanza ricco per il tuo desiderio di conversazione con le belle donzelle!Non era mai stato un peso per Cloris la sfacciata arroganza di Zephyr, la teatralità nella sua voce e nelle sue movenze e la sinuosità con la quale una misera proposizione, diveniva, tra le sue labbra, carisma puro. Nessuno, al mondo, poteva dirsi sordo di fronte alla sua voce, cieco di fronte alla sua bellezza, ma tutti erano muti al cospetto della sua corona; un re nero, un re della notte e della lussuria.

Ma, per quanto mi dolga, sono costretto a tornare tra voi mortali Nella sua voce scomparve la beffa, venne annegata nello sguardo improvvisamente serio, negli occhi socchiusi che emanavano una leggera fiammella diafana che proiettava, sugli zigomi, le lunghe ciglia nere come i deliziosi riccioli ad accarezzargli le orecchie. Cloris, come ogni dì, desiderava tenerli tra le dita, vederli scorrere come acqua corrente tra le falangi e portarli alle labbra.

La lampada ad olio, rivestita nel suo cappello color smeraldo stava iniziando a farsi più debole, ad agonizzare contro al femmineo fianco del giovane stregone.

Segnava la prossima fine del loro incontro, il dissolversi dell’odore di fumo e ombre nel salotto.

Parigi ci tratterrà almeno fino a quando le sue viscere non prenderanno a sanguinare, almeno fino a quando la Senna non porterà a galla le putrescenze dei dimenticati Il ragazzo, ancora ancorato sulla poltroncina, si irrigidì in una spasmodica tensione, purpureo dall’urgenza maligna e bollente della sentenza di morte appena pronunciata. Il respiro si fece gelido, i capelli biondicci si appiccicarono sulle tempie in un moto di protezione per il freddo gelido che pareva emanare il cuore della stanza. Ad ogni battito, il ghiaccio si estendeva, disegnava una fitta rete di intrecci che minacciavano di serrarsi sulle gambe di Cloris.

I... Nascosti di Parigi…? ansimò in un rantolo orripilato, gli occhi incatenati in quelli verdi di Zephyr, così lucenti da far impallidire la stessa Luna.

La lampada, oramai, proiettava solo ombre nella stanza.

Io non ho detto nulla di tutto ciò, Cloris, mio caro. Io ho semplicemente parlato di derelitti e rifiuti, sta a te l’interpretazione del mio verbo un sorriso spiazzante, di disprezzo e arcigna burla si era sollevato sulle sue labbra gonfie di baci. Il giovane si sentì intrappolato nel suo voluttuoso e riverberante di un amplesso, che, mai prima d’allora gli parve più fastidioso.

Ma ammetto di avvertire una fitta di stanchezza, giovanotto caro. Sarà meglio che torni a casa prima che tu ti veda costretto a portarmi di peso sulla diligenza, domattina! A Cloris, o forse al mondo stesso, forse alla vita che gli aveva sottratto il cuore, l’anima e il corpo, rivolse il profondo inchino di uno sfacciato teatrante. Le mani si erano piegate all’indietro, le ali di un cigno che si ripuliva dall’acqua stagnante che corrode le sue bianche e pure piume.

Cloris pensò che l'avrebbe visto spiccare il volo, un giorno, che sarebbe stato gaio soltanto nel congiungersi con un ente di gran lunga superiore all’umano.

Buonanotte, mio genuino, Cloris! E non stare sveglio fino ad ora tarda nello studiare i saggi che ho acquistato per te, mi raccomando!Cloris tralasciò il sarcasmo della sua voce, teso come una corda nel bel mezzo della stanza che, in quel momento più che mai, gli parve incisa in una lastra di ghiaccio.

Fece in tempo a scrutare le spalle larghe e armoniose di Zephyr avvolte nel cappotto in gessato scomparire dall’uscio della porta per ricongiungersi con le sue sorelle ombre, prima che la lampada ad olio si abbandonasse esanime all’oscurità.

Cloris era solo al freddo e al buio.
   
 
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