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Autore: charliespoems    25/11/2016    1 recensioni
[Malec]
Alec Lightwood, venticinque anni, capelli di un nero che più nero non si può, occhi chiarissimi e pelle pallida, quasi eterea.
Amante dell'arte sin da piccolissimo, adesso deve combattere con un fratellastro tutto carisma e pepe, la sua fin troppo rossa ragazza - nonché sua collaboratrice artistica - e un gatto che, ancora non lo sa, gli farà perdere la testa.
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AU senza pretese dove vediamo per la prima volta (credo) un Alec sommerso da tempere e colori, con una Clary al proprio fianco che lo farà impazzire ma che al tempo stesso gli farà conoscere persone che si riveleranno parecchio importanti.
Faccio pena a scrivere trame e questa è pure la mia prima storia in questo fandom, ma spero di avervi incuriosito almeno un pochino.
Dal primo capitolo:
Adorava il corso d’arte. Adorava il silenzio. Adorava alla follia ciò che studiava, ma lei. Lei, che diamine.
Nelle sue vite precedenti doveva aver fatto qualcosa di terribile per meritarsi una compagna così.
[...]
Come aveva pensato quell'idiota di ficcarlo in una situazione del genere? Con lui, poi? Il cervello doveva esserselo bevuto al posto della prima minestrina.
«Clary Fray, un giorno ti ucciderò con le mie stesse mani. È una promessa»
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Clarissa, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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2.

Famiglia.

     Il viaggio per tornare a casa era durato troppo, come tutte le cose che si aspettano impazientemente. L’unica cosa che Alec desiderava al momento era stendersi sul divano del suo salotto e aspettare che la morte lo venisse a prendere come una vecchia amica. Dopo aver pensato che Harry Potter non lo avrebbe salvato dal suo freschissimo problema, aprì la porta di casa pregando che Isabelle non stesse cucinando. Aveva un principio di desiderio di morte, sì, ma morire avvelenato gli sembrava un tantino esagerato. «Ciao fratellone, com’è andata oggi?» vide il centro dei suoi pensieri scendere le scale con passo svelto, dargli un sonoro bacio nella guancia e poi svoltare proprio verso la cucina. Ad una sua occhiata interrogatoria la ragazza lo rassicurò: stava cucinando Jace, il che non fece altro che preoccuparlo ulteriormente.

      «Rimarrai vedovo ancora prima di sposarti» proclamò entrando in cucina e salutando suo fratello. «Quello che hai appena detto non ha senso, Alec» gli rispose l’altro, mentre leggeva attentamente un libro che doveva sicuramente essere traboccante di ricette. «Lo avrà, se mai avrai intenzione di sposare Clary. Perché ho intenzione di strangolarla prima che accada» sbuffò, sedendosi e poggiando la testa sul grande tavolo della cucina. Sentì Isabelle ridere e pensò che non ci fosse nulla di divertente, in tutto quello. «Andiamo, non è così male» disse. «È che l’hai presa in antipatia. Lo sappiamo che ti ci vuole del tempo prima di andare d’accordo con persone nuove, ma prima o poi andrete d’accordo, fidati di me» «Oh, ma certo. Infatti una rompiscatole con un chiacchiericcio assordante, la risata più brutta del secolo e lo sguardo più stupido del mondo che tra l’altro impiccia nei suoi casini persone praticamente estranee che lei tratta come amici intimi è sicuramente l’essere umano più piacevole dell’universo!» sbottò, scattando in piedi.

      «Ti ha messo nei casini?» chiese Jace, alzando lo sguardo su di lui, accigliato. Un po’ Alec si sentiva meglio, vedendo quello sguardo. Per un momento aveva pensato che liquidasse la faccenda come solo lui sapeva fare, ma dal suo sguardo si capiva che qualunque cosa lei avesse fatto per metterlo in una situazione scomoda non gli facesse piacere. Infatti Jace le aveva ripetuto diverse volte di non prendersi troppe libertà con Alec, ma testarda com’era non aveva ascoltato una parola. E un po’, doveva ammetterlo, a lui piaceva anche per quello. Jace Herondale/Lightwood era consapevole di essere un bellissimo ragazzo e faceva di tutto per metterlo in mostra. Se voleva un qualcosa lo otteneva, non perdeva tempo in ragionamenti vari, non pensava come un quasi adulto faceva, se era necessario avere un “piano d’attacco”, il suo piano era attaccare e basta. Soprattutto, non si sprecava in ragionamenti inutili e contorti perché insomma, perché ci sarebbe Alec altrimenti? Quando aveva conosciuto Clary molte cose erano cambiate, specie nella sua testa.

     Ciò che provava per lei non cambiava, però, ciò che provava per la famiglia. L’aveva sempre messa al primo posto, dopo di che c’erano gli amori occasionali. Jace era uno che si amava il sesso, ma aveva avuto anche qualche storia seria nella sua vita. Non sapeva amare perfettamente, ma ci provava. Secondo lui amare era difficile, era distruttivo, ma portava a sensazioni imparagonabili ad altre. Nonostante questo l’amore per la famiglia era un qualcosa in indistruttibile. Avrebbe protetto i suoi fratelli e i suoi genitori adottivi a qualsiasi costo, o almeno questo era quello che si ripeteva fin da bambino. Il suo rapporto con Alec, soprattutto, era sempre stato particolare. Era la sua guida, la schiena a cui poggiarsi, la sua guardia. Sapeva che per quel qualsiasi cosa Alec sarebbe stato lì, col cipiglio arrabbiato e le braccia conserte, ad aspettarlo. Anche se lui delle volte non c’era. Il rapporto che aveva con il ragazzo più grande era diverso da quello che avrebbe mai potuto avere con qualsiasi altro e in un certo senso ne era felice, fiero.

       Quando Alec finì di raccontare ciò che il piccolo impiastro aveva fatto, Isabelle si era dovuta tenere la pancia dalle risate. «E tutto questo per un gatto? Oddio, sto per piangere» rise, facendo sospirare Alec, che si girò a guardare il suo migliore amico in cerca di conforto. «Bè, vediamo di trovare il gattaccio e poi rispediamolo al mittente. Son curioso di sapere chi è il pazzo che tiene così tanto ad un animale» sollevò un sopracciglio, scettico. «Jace, tu hai paura delle anatre» protestò Alec, beccandosi quasi una sediata in viso. Pensò che quello fosse il momento buono per svignarsela e buttarsi a capofitto nel letto della sua camera, cercando di trovare la poca pace rimasta nei suoi pensieri.

      La sua camera aveva le pareti totalmente dipinte di blu, sfumato con delle onde a formare l’oceano marino visto dal fondale. Il soffitto andava pian piano verso il celeste, a rappresentar il cielo fuori dall’acqua. Era piacevole da guardare. Qualche anno prima aveva pensato di decorare la camera disegnando qualche pesce qua e là, giusto per renderlo un po’ più realistico, ma i pupazzetti di Nemo e del migliore amico di Ariel – non ricordava nemmeno come si chiamava, non aveva mai visto La Sirenetta – bastavano a sufficienza. A primo impatto Alec Lightwood sembrava una persona anonima, probabilmente con la tipica stanza dalle pareti monocolore e l’ordine maniacale. Sì, era una persona ordinata, ma non sempre. Aveva letto da qualche parte che l’ordine mentale rispecchiava esattamente l’ordine fisico che lo circondava. Trovava quella frase molto appropriata alla sua vita. Quando si sdraiò – finalmente – spostò il mega pupazzo di Dori e se lo strinse in grembo, cercando di chiudere gli occhi e appisolarsi un pochino. Già sapeva che prima che il pranzo fosse pronto sarebbero passati minuti, forse ore e certamente qualche padella ustionata.

 
~~
 
      Senza saperlo, Simon aveva lasciato sgattaiolare Charmain Meow fuori dalla finestra e, quando se n’era accorto, era ormai troppo tardi. Aveva cercato ovunque, persino nello scarico del water, ma niente: del micio non c’era traccia. Era una palla di pelo così piccola che poteva essersi rintanata da qualsiasi parte, e l’immagine del gattino completamente schiacciato sull’asfalto da una macchina continuava a terrorizzarlo. Sapeva quanto Magnus tenesse a quell’animale: ci dormiva insieme, lo portava a lavoro con lui, gli faceva fare delle passeggiate – gli comprava persino i giubbottini! – e ci parlava, ci parlava continuamente nemmeno fosse il suo migliore amico. Magnus non era psicopatico – al contrario, aveva un’intelligenza fuori dal comune – ma quello stupido gatto era un qualcosa per cui avrebbe dato la vita e il fatto che proprio lui lo avesse perso lo faceva sentire malissimo. Sperò solo che Clary arrivasse il prima possibile ad aiutarlo.
Charmain Meow, per quanto gli riguardava, era tranquillamente acciambellato sul tetto della casa: una stupida farfalla aveva cercato di dargli fastidio e, tra una cosa e l’altra, mentre cercava di afferrarla era salito sino al tetto. Dal cunicolo del camino usciva fumo e calore, lui stava bene e, perché no?, una bella dormita ci stava eccome.
 
     Mentre Clary, appena arrivata, cercava di dare una bella lezione a Simon – perché come diavolo aveva fatto a farselo scappare? Era un micetto indifeso, poteva essere sotto le grinfie di chissà quale cane, al momento – il ragazzo restava in silenzio, cercando di far sfogare l’amica e arrivare al punto della situazione. «Che hai detto a Magnus?» «Che Alec vuole uccidere me e te insieme» Simon rimase perplesso da quella risposta. «Alec? Che c’entra Alec?» chiese. «Già, appunto. L’ho dovuto mettere in mezzo perché non sapevo come uscirne fuori. Ho detto a Magnus che Charmain è da lui perché tua madre è allergica al pelo del gatto» spiegò lei, mentre metteva sottosopra il cassetto pieno di magliette con i loghi di Star Wars, mischiandole con quelle di Harry Potter e de Il Signore degli Anelli. «Emh, ho impiegato così tanto per separar-» «Il tempo che non hai impiegato per guardare Charmain, non è così?» alzò la voce lei: era evidentemente ancora furiosa. Non aveva idea di come fare. Non poteva chiedere a Jace di aiutarla, perché lo avrebbero saputo anche i suoi fratelli e Alec la odiava già abbastanza per i suoi gusti. «È stata un’idea geniale, comunque. Alec come l’ha presa?» «Lasciamo perdere. Se non mi vede per i prossimi tre anni è meglio»

    Simon cercava di pensare a qualcosa per migliorare la situazione: avrebbe potuto chiedere a Magnus quale fosse il cibo preferito del gatto, ma bisognava contare se questo fosse troppo lontano per sentire l’odore, o nel peggiore dei casi una mandria di altri gatti sarebbero apparsi dal nulla e tutto sarebbe finito a catafascio. Oppure avrebbero potuto dividersi e setacciare ogni zona da casa sua a Brooklyn, avrebbe certamente funzionato, ma e se il gatto avesse completamente cambiato strada? Forse se fossero stati più di due delle idee sarebbero arrivate. «E se chiedessimo agli altri?» «Gli altri chi? Jace, Isabelle e Alec? Non hai sentito che mi vuole morta e sepolta? E non posso nemmeno biasimarlo, che rabbia!» sbatté un piede a terra, lanciando all’aria un calzino. «Sai che ci aiuterebbe, è troppo mamma-della-questione per lasciarci soli. Soprattutto ora che è dentro al casino quanto noi» continuò, cercando di convincerla.  «Sai cosa? Hai ragione, tanto vale provare» I due uscirono di casa con passo veloce, cercando di arrivare il prima possibile in casa Lightwood. Avevano molto di cui parlare e decidere.

     Isabelle aprì la porta e, vedendoli, non poté fare a meno che sorridere estremamente divertita dalle loro facce sconvolte. «Se non fossimo in questo stato non saremmo qui, te l’assicuro» bisbigliò Clary, imbarazzata. Si erano fatti una corsa dell’ultimo minuto: avevano i capelli appiccicati alla fronte, il sudore che gocciolava un po’ ovunque e i vestiti quasi come una seconda pelle. E dire che fuori faceva un freddo polare. La donna di casa gli fece accomodare in salotto, facendogli togliere tutti gli indumenti in eccesso. «Emh, I-Isabelle, ti dispiacerebbe dirmi dov’è il bagno?» chiese Simon, improvvisamente arrossito. La bellezza della ragazza lo metteva ancora in soggezione nonostante fossero passati dei mesi da quando la conosceva. Bè, d’altronde tutto si poteva dire di Isabelle, ma non che fosse brutta. Con quei capelli ed occhi color ebano, le curve morbide perfettamente modellate nei punti giusti, le labbra piene e quel sorriso luminoso faceva girare la testa a chiunque la guardasse per più di qualche secondo. E lui non era di certo immune, anzi. Quello sguardo da cerbiatta lo stregava ogni volta.

      «Di sopra, vai pure: ultima porta a destra. Solo, attento a non svegliare Alec» gli disse, per poi sparire in una parte della casa a lui ignota. Probabilmente stava andando a chiamare il biondone ossigenato. Continuava a chiamarlo così solo per dargli fastidio, tra l’altro. Lui e Jace non erano andati molto d’accordo agli inizi e – diciamo – stavano ancora imparando a conoscersi. Tra una battuta sarcastica e l’altra, certo, ma era pur sempre qualcosa. L’unico problema era che non riusciva a fidarsi totalmente di lui: era in costante appresione per Clary. Non lo vedeva come una persona reale e sicura, non per lei. Un po’ perché sapeva che avrebbe dato tanto per essere al suo posto, un po’ perché c’era qualcosa nella sua faccia che proprio non andava, nossignore. La sua cotta per Clary durava da anni, non si ricordava nemmeno lui da quando era iniziata, ma in fondo aveva sempre saputo che lei non vedeva il posto accanto a sé riservato a lui, bensì a qualcuno di più misterioso, virile, macho, biondo (ossigenato, ovviamente) e con occhi d’ambra.

     Preso da quei pensieri non si accorse dell’ultimo gradino e finì addosso ad una porta completamente nera. Fu un miracolo che non l’avesse aperta, perché aveva dato una botta assurda e adesso la sua spalla doleva. Pregò solo dopo di non aver fatto così tanto rumore, fin quando Clary non accorse alla base delle scale per chiedergli se andasse tutto bene, seguito da un «Ssssh!» di Isabelle e da quella porta nera che ormai stava fissando aprirsi molto – troppo – lentamente. Simon trasalì quando vide la faccia un poco assonata di Alexander osservarlo con un misto fra curiosità e fastidio. «Oh, emh, sì, buongiorno!» aprì le braccia, quasi a stringergliele contro sperando di non averlo fatto arrabbiare troppo, mentre le sopracciglia del ragazzo di fronte a lui quasi si toccavano dal disappunto. «Io non ci posso credere» lo sentì sbuffare, per poi chiudergli la porta in faccia con un più o meno sonoro bam. Intanto Jace era salito per le scale – forse sperando che Simon fosse caduto faccia in terra o che Alec lo avesse rispedito a calci giù dagli scalini. In ogni caso, scoppiò a ridere. «Appena scendi vieni in cucina, seconda porta a destra» gli disse, prima di sparire. Non si era mai sentito tanto frustrato in vita sua.

      Una volta riuntiti intorno al tavolo, piatti e posate al loro posto, due invitati in più e un po’ di nervosismo generale – specie da parte di una persona – tutti iniziarono a parlottare e a mangiare. «Pensavo che dovremmo dividerci e cercarlo, più siamo meglio è» annunciò Simon, seguito da un «Che pensata, non ci sarei mai arrivato!» di Jace. Dopo che i due si lanciarono un’occhiataccia, Clary prese la parola. «Il punto è che: e se è andato troppo lontano? Se si è allontanato da Brooklyn e da New York? Quel gatto è davvero minuscolo» sospirò. «Prendetegliene un altro, no? Che sia identico, della stessa grandezza e con gli stessi colori. Possiamo passare al gattile più tardi, se volete» disse Isabelle, alzando le spalle. «Izzy, questo qui vuole il ritratto del suo gatto per il suo compleanno, ti pare che non lo riconosca?» chiese Jace, sempre più scettico. «Non vuole il ritratto del suo gatto, è la tua ragazza che vuole fargli un regalo del genere» commentò Alec, per la prima volta. «Potresti non parlare come se io non fossi qui, per piacere?» commentò Clary, stufandosi. Alec alzò semplicemente gli occhi al cielo.

      «Possiamo dividerci ulteriormente: io posso andare al gattile, dato che conosco bene Charmain lo potrei riconoscere più in fretta, mentre Clary può andare con Jace e controllare vicino a casa mia, mentre voi due controllerete a New York. Vi passiamo una foto così da riconoscerlo più facilmente» propose Simon, sempre più convinto della sua idea. «Sì, sarebbe perfetto! Ma sei sicuro di voler andare da solo?» gli chiese Clary, guardandolo attentamente. Lui le sorrise, tranquillo: era solo un gatto. «Commovente, sul serio. Avete finito?» chiese Alec, alzandosi. «Alexander, la frutta!» lo rimproverò lei. «Il ruolo di mamma apprensiva non ti si addice, Izzy» le diede un bacio sulla tempia, per poi uscire dalla cucina. «Tutto questo lo rende nervoso» commentò Jace. «È qualcosa in cui non c’entra assolutamente niente» «Sì, e poi mi odia» sorrise ironicamente Clary. «Ad Alec non piace nessuno, non particolarmente almeno. Se non noi» fece l’occhiolino a sua sorella, che ammiccò.  «È perché di noi si può fidare e lui lo sa» lo appoggiò Izzy, lo sguardo perso nel vuoto, probabilmente pensando a qualche ricordo con il fratello maggiore. «Il nome Alec gliel’ho dato io» rise, poi, chiedendosi se Alec lo ricordasse.

      E il fratello, poggiato al muro accanto alla porta, lo ricordava eccome. «Mamma e papà lo hanno sempre chiamato Alexander. Lui lo odiava, non so nemmeno il perché. Alexander è proprio un bel nome. Comunque, al tempo non riuscivo a dire la x, quindi chiamarlo anche solo Alex era un problema. Lo chiamavo Auec» rise al ricordo di lei, piccolissima, che lo inseguiva da una parte all’altra per improvvisargli chissà quale capigliatura. Era piena di nastrini e fiocchetti multicolore e Alec era un santo perché non si lamentava mai abbastanza per quel trattamento giornaliero. Jace aveva ragione: quando si trattava di loro due, il fratello maggiore aveva una pazienza fuori dal comune. Erano l’eccezione alla regola per la maggior parte delle cose, specie dopo vari avvenimenti. «Così ha iniziato a farsi chiamare Alec. Sono sempre stata piuttosto fiera di quel soprannome, in realtà» accavallò le gambe, spostando una ciocca di capelli dietro la spalla. Vista da fuori sembrava una vera regina. «É piaciuto a tutti, effettivamente» alzò le spalle Jace, per poi cominciare a pulire la tavola.

       «Da come ne parlate voi sembra una persona completamente diversa. Io mi prendo delle libertà con lui, è vero. A volte faccio commenti che non devo fare, anche questa mattina mi è capitato, ma non me ne rendo conto» bisbigliò Clary, sentendosi in colpa. Si chiese come fosse vedere Alec dal loro punto di vista. «È perché sei un po’ impicciona» le rispose Isabelle, priva di grazia. Jace la guardò di traverso, mentre Clary sentiva le guance andare a fuoco. «Che c’è?» chiese la mora. «È la verità. Sai com’è fatto Alec, potresti tenere la lingua a freno qualche volta, tutto qui. E per la cronaca, metterlo in un pasticcio simile non ti ha avvantaggiata di sicuro» continuò. «Lo so» rispose lei, a voce bassa. «Ma anche lui potrebbe cercare di capire, insomma. Non gli stiamo chiedendo di fare il simpaticone, ma sforzarsi un poco non-» «Alec fa quello che si sente di fare» Isabelle interruppe Simon, per poi uscire dalla stanza prima di iniziare qualsiasi tipo di discussione.

      «Iperprotettività. Siamo miracolosi in questo, lo so. Volete andare a riposarvi e poi iniziamo le indagini sul gattaccio?» chiese dunque Jace, guardando l’orologio. «Possiamo vederci per le tre e mezzo» «Per le tre sarebbe meglio. Se non è un problema per te, ovviamente» abbassò la voce nell’ultima parte della frase, alzandosi in piedi anche lei. Simon si sentì costretto ad uscire dalla stanza, lasciandoli soli. «Sai che non lo è» rispose Jace, accarezzandole una guancia e dandole un delicato bacio a fior di labbra. «E io so che il gattaccio è importante per te, quindi faremo del nostro meglio» continuò. «Anche Alec»









Angolo autrice:
dopo secoli, rieccoci.
Chiedo venia per il ritardo: sono stata a Berlino e successivamente l'influenza (ancora in corso, tra l'altro) ha deciso di farmi visita.
In questo capitolo abbiamo visto molto più rapporto familiare - come dice il capitolo stesso - tra i Lightwood.
Ho voluto mettere in chiaro che il rapporto Parabatai esiste ugualmente, nonostante non siamo nel mondo Invisibile. Mi sembrava giusto che fosse così. E poi l'iperprotettività mi sembrava una cosa buona e giusta.
Nel prossimo capitolo è possibile che rivederemo Magnus, ma non voglio svelare niente.
[Quanto sono scemi con Charmain sopra il tetto di casa di Simon? Troppo.]
Spero di ricevere alcuni dei vostri pareri. Grazie mille a chi ha recensito, a chi ha messo nei preferiti/seguite/ricordate e a chi legge soltanto!
Perdonate eventuali errori.
Un bacione e a presto,
C;
   
 
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