All’interno il pullman era buio,
anche se dai finestrini, senza vetro, si vedeva una luce abbagliante
che lo
avvolgeva.
Lei era accovacciata, di fianco
alla paratia metallica di protezione al guidatore, con la schiena
appoggiata al
cruscotto del pullman.
Era pensierosa.
Aveva i capelli rossi, lunghi,
arruffati, raccolti in una coda a treccia.
Il viso era ovale, zigomi non
troppo sporgenti, labbra carnose: gli occhi erano nascosti da degli
occhiali
militari a doppia lente separata, con una cinghia elastica che gli
tenevano ben
aderenti al viso.
Da sotto gli occhiali spuntava il
naso adunco, unico difetto di quel grazioso viso, lasciato di qualche
suo
antico parente scozzese: d'altronde, una che si chiamava Kirsty MacRae
non
poteva che non avere tali origini.
La tuta militare nascondeva un
corpo graziato, ma ben strutturato e muscolo, con il giubbetto
antiproiettile che
non nascondeva del tutto il suo seno prosperoso.
La mano sinistra era appoggiata
al fucile mitragliatore che teneva con il calcio appoggiato al
pavimento del
pullman con la canna rivolata verso l’alto, la sicura tolta,
il selettore sul
fuoco rapido e un caricatore inserito, con un altro, con
l’ingresso dei
proiettili verso il basso, legato al primo con del nastro adesivo per
cavi
elettrici grigio.
Sulla tuta erano riportati i
gradi di colonnello dell’aereonautica militare, anche se lei
non aveva mai
volato su un aereo.
Il pullman viaggiava a folle
velocità su quel terreno sconnesso, sollevando, dietro a se,
enormi nuvole di
polvere.
L’autista del pullman, un certo
Gray Gronners, teneva gli occhi puntati davanti a sé.
Aveva i capelli corti, quasi
rasati, e portava occhiali militari a una sola lente, scuri.
Il viso rotondo era seminascosto
da una sciarpa con un disegno a scacchi che gli copriva parte del viso,
per
proteggerlo dalla polvere che passava dalla feritoia della piastra
metallica
messa davanti a lui, per proteggerlo da eventuali proiettili sparati
contro di
lui.
Indossava una maglietta a maniche
corte nere, da cui uscivano delle braccia da culturista.
Indossava anche pantaloni di una
tuta militare e stivali militari, neri, con lacci da scarpe marroni.
Teneva saldamente il volante,
guardando ogni tanto dalla feritoia posta sulla piastra alla sua
sinistra, per
vedere chi lo stava seguendo da quel poco che era rimasto dello
specchietto
retrovisore, e poi a destra, per vedere se il colonnello era ancora
lì, con
quella faccia impietrita che aveva da quando l’aveva
conosciuta.
Il colonnello guardava l’interno
del pullman, guardando ma non vedendo i suoi occupanti.
Erano una parte militari ed
alcuni civili, uomini e donne, pronti a tutto pur di salvare la pelle.
Dietro all’autista si era
posizionata il sergente addetto alle telecomunicazioni Mary Houng, un
tipo
minuto, che quando non indossava le lenti a contatto aveva un paio di
occhiali
da nerd.
E in effetti lo era: una vera
nerd, una a cui i computer non potevano dire di no.
Era finita lì perché era entrata
in un computer di un qualche laboratorio segreto e i militari, come al
solito,
le avevano proposto due soluzione: o la prigione a vita o diventare un
militare.
Certo, un po’ di disciplina le
avrebbe fatto bene e messa a posto la testa, ma lì la
disciplina serviva poco.
Davanti a sé aveva una
apparecchiatura elettronica, larga circa novanta centimetri, profonda
quarantacinque e alta altrettanto, da cui fuoriusciva, sulla parte
destra, un
monitor piatto, mentre il resto del piano era occupato da una tastiera
da
computer, una mouse a rotella e vari pulsanti ed indicatori elettronici.
Seguiva con gli occhi, nascosti
dietro a degli occhiali militari a una sola lente, chiari, i numeri che
il
monitor sputava e gli indicatori elettronici.
Una luce rossa illuminava la
parte sinistra dell’apparecchio, con di fianco una luce verde
che non voleva
saperne di accendersi.
Aveva la bocca protetta da una
mascherina antipolvere metallica con filtri sostituibili.
La sua tuta militare era di un
colore unico, forse kaki, alquanto sgualcita e con alcune bruciature
sulla
gamba destra.
Non portava guanti, per poter
usare liberamente la tastiera.
Oltre a quella apparecchiatura,
alla sua destra, ben protetta da una cassaforte senza portello,
appoggiata a
terra, vi era una radio satellitare.
Sul fondo del pullman, davanti alla
fossa in cui vi erano i due motori a scoppio che spingevano il pullman
a tutta
velocità, senza il cofano di copertura
dall’abitacolo, vi era un omino piccolo,
pelato, magrolino, a cui nessuno avrebbe dato un centesimo per la sua
vita.
Si chiamava Julius Fronteau ed era
seduto sul bordo del vano motore e controllava il funzionamento dei due
mostri,
con le turbine che fischiavano più di un locomotore a vapore
e i cui pistoni urlavano
il loro dolore, spinti al massimo su quel terreno accidentato, con gli
ammortizzatori degli assali che non riuscivano ad attutire le
vibrazioni e i
supporti dei motori pronti a rompersi da un momento
all’altro, con la gomma
quasi sfatta.
Il pullman aveva un carrozzeria
anni ’50, con una parte di essa sopraelevata.
Nella parte superiore, da cui si
accedeva da una scala posta a destra dell’addetta alle
comunicazioni, vi era un
buon numero di uomini, tutte con la tuta militare di colore blu,
elmetti del
medesimo colore, giubbotti antiproiettile e varie armi, dai fucili
mitragliatori ai fucili a pompa ai lanciagranate, più varie
granate e bombe a
mano.
Erano in venti, tutti seduti sul
fondo del pianale rialzato, con l’orecchio teso alla
auricolare della radio
portatile, pronti a sentire le informazioni date dal loro comandante.
Il comandante si chiamava Frazer,
solo ed esclusivamente Frazer: a nessuno era dato di sapere il suo nome.
Era un tipo brusco, con i
lineamenti del volto squadrati, una mascella da vero duro, occhi neri,
naso
aquilino, capelli corti, con taglio di capelli alla marines.
Il caldo di sopra era soffocante
e fastidioso, come lo era il rumore dell’aria che entrava dai
finestrini rotti
e il fracasso dei motori spinti al massimo.
All’improvviso una luce si accese
sul cruscotto dell’autista.
Gronnes, dopo un primo momento di
sgomento, premette il pulsante della sua radio
«Fronteau! Fronteau!… »
Urlò nella
radio, facendo sobbalzare tutti.
«Cosa vuoi?» Rispose Frontenau,
senza distogliere gli occhi dai motori, cercando di sovrastare il loro
rumore.
«Si è accesa la luce della
riserva del carburante!» Rispose Gronnes, tutto preoccupante,
grondante di
sudore più per la paura che il pullman si fermasse che per
il caldo
insopportabile.
Fronteau grugnì qualcosa alla
radio, si alzò e si diresse verso una delle botole poste sul
pavimento del
pullman, la alzò e si infilò dentro, con la
testa, fino alla cinta.
Dopo poco i motori tossicchiarono
e poi ripresero il loro rumore assordante.
Fronteau si alzò, chiuse la
botola e trotterellando si avvicinò al Colonnello.
La donna al momento non gli diede
retta, ma l’uomo la risvegliò dal suo torpore
scuotendola con la mano sinistra
sulla spalla destra di lei.
Lei lo guardò in faccia, con fare
interrogativo.
«Non è il caso che Gronnes urli
alla radio per una stupida spia! Abbiamo gasolio per parecchi kilometri
ancora!» Gridò alla radio, sovrastando il rumore
all’interno del mezzo e
facendosi sentire da tutti.
«Ormai non dovremmo essere
lontani da…»
La frase del colonnello fu
interrotta a metà da un urlo proveniente da uno degli uomini
del piano di
sopra.
«Colonna di polvere all’orizzonte!
Qualcuno ci segue!»
Il Colonnello si alzò e si guardò
intorno.
Per prima cosa prese atto della
posizione degli altri due pullman che li seguivano, uno allo loro
destra ed uno
alla loro sinistra, leggermente arretrati rispetto a loro.
A bordo di quei veicoli vi erano
solo uomini ben armati: avrebbero dovuto difendere a tutti i costi il
pullman
del Colonnello con sopra gli scienziati.
Il Colonnello contatto il primo
pullman.
«Maggiore Truman! Maggiore
Truman! Cosa vedete dietro di noi?»
La concitazione salì sul pullman
e i passeggeri e i militari si alzarono a sufficienza per sporgere le
teste dai
finestrini e cercare di vedere quello che succedeva fuori.
La polvere alzata dai pullman
copriva la visuale ed era impossibile vedere dietro a loro.
Il Maggiore Truman non rispose e
allora il colonnello salì al piano di sopra e con il
Capitano Frazer, con in
mano i lori binocoli, cercavano di vedere qualcosa che li seguiva.
All’improvviso la radio gracidò.
«Qui Maggiore Truman! Qui
Maggiore Truman! Vedo una colonna di fumo, a circa ore sette! Si, ore
sette!
Polvere di almeno altri tre mezzi! Dietro vede dell’altra
polvere, forse alzata
da altri mezzi, sicuramente più pesanti, ma non si vedono!
Sono bassi rispetto
all’orizzonte!»
«Dannazione!» Disse il
colonnello, abbassando il volto e passando le labbra sulla manica della
tuta.
Si inginocchio di fianco al
Capitano.
«Non ho idea di quando saremo al
punto di contatto! Speriamo di non dover combattere ancora! Non
potremmo
respingere un altro attacco!» Disse il Colonnello, guardando
il Capitano, il
cui volto era diventato ancora più duro di prima.
«Lei si preoccupi di arrivare là
dove siamo diretti, al resto ci pensiamo io e i miei uomini!»
La voce di Houng alla radio
raggiunse tutti.
«Colonnello! Colonnello! Quelli
che ci seguono hanno anche loro un ricevitore! Usano un’altra
frequenza! Lo
hanno appena messo in funzione! Però non posso dirle se sono
amici o nemici! ...»
«A tutti, ripeto a tutti! Parla
il Colonnello! Niente comunicazioni radio, se non indispensabili!
Niente
comunicazioni radio!» Le ultime parole furono ben scandite
dal Colonnello alla
radio, affinché tutti capissero bene l’ordine e
tutto quello che esso significava.
Il Colonnello scese da basso e si
avvicinò a Houng.
Guardarono tutte e due il
macchinario, silenzioso, che continuava a visualizzare numeri
incomprensibili e
uno degli indicatori si muoveva in modo anomalo.
Houng indicò, con il dito medio
della mano sinistra, quella anomalia.
All’improvviso un cicalino suono
dentro la macchina e la luce rossa si spense e, dopo un po’,
quella verde si
accese.
Sul monitor apparve una pianta,
che indicava a circa cinquanta kilometri un bunker.
Il Colonnello afferrò il bottone
della radio e chiamò l’autista.
«Gronnes! Gronnes! Svolta a
destra per quindici gradi! Quindici gradi! Gira adagio, non diamo ai
nostri
inseguitori indicazioni di dove stiamo andando!»
Lasciò il pulsante e parlò con
Houng. «Tra quanto ci raggiungeranno?»
«Quelli dietro di noi non ci
raggiungeranno mai, vanno più lenti! Quegli
altri… non so!» Disse Houng,
scuotendo la testa.
Il Colonnello si alzò in piedi e
si avvicinò all’autista, cercando di vedere dove
erano diretti.
Il pullman del Colonnello e gli
altri due continuavano nella loro folle corsa.
Le modifiche effettuate ai motori
da Fronteau erano state efficaci e i mezzi si erano dimostrati
all’altezza della
situazione.
Erano di una compagnia di viaggio
chiamata “Greyhound” (il levriero), molto famosa in
quella parte del pianeta.
Il Colonnello prese in mano il
binocolo e incominciò a cercare davanti a sé il
bunker.
Il pullman viaggiava a
centocinquanta kilometri orari su quella distesa, per cui il bunker si
sarebbe
dovuto vedere in meno di venti minuti.
Il Colonnello controllò l’orologio,
ma il tempo sembrava non passare mai.
Poi, all’improvviso, una
installazione militare si presentò di fronte a loro,
leggermente spostata sulla
loro destra.
Il Colonnello diede una botta
sulla spalla destra di Gronnes e gli indicò la costruzione.
Gronness girò lentamente il
volante, posizionando il mezzo verso quella che sembrava una apertura
nell’edificio.
Tutti si alzarono in piedi e
guardavano il bunker avvicinarsi.
Il Colonnello voltò per un attimo
il volto per vedere dietro a sé, per controllare la
posizione degli altri due
pullman e vide tutti i suoi uomini in piedi.
«Tutti a terra!» Urlò
inferocita.
Tutti si inginocchiarono e
tacquero.
Lei si rivolse verso il bunker,
che si stava avvicinando sempre di più.
Houng si avvicinò, a carponi,
tirandoli i pantaloni.
Il Colonello abbassò il volto.
«Anche gli altri hanno il codice
verde!» Disse Houng, urlando.
Il Colonnello rispose scuotendo
la testa in modo affermativo.
Il bunker si avvicinava sempre
più e le sue dimensioni diventavano impressionanti.
Solo nell’ingresso i tre pullman
sarebbero entrati così, come erano in formazione, lasciando
abbastanza spazio
di manovra e di sicurezza verso i muri perimetrali
dell’imboccatura.
All’esterno nessuna luce dava
indicazioni sul fatto che il manufatto fosse o no in funzione e fosse o
no
occupato da umani o umanoidi.
Il nero che si nascondeva dietro
il portone di ingresso faceva abbastanza paura da far alzare il piede
dall’acceleratore
da Gronnes.
Il Colonnello gli diede una
scoppola dietro alla nuca e Gronnes, lamentandosi,
rischiacciò il pedale fino
in fondo.
I pullman iniziarono a rallentare
prima di imboccare il portone, frenando improvvisamente dopo
l’ingresso.
L’interno si illuminò di colpo,
rischiarandolo a giorno.
Il Colonnello
scese e diede subito ordini.
«Mette i pullman davanti all’ingresso,
ma lasciate abbastanza spazio per far passare chi ha un pass dal
sistema! Svelti!
Capitano, i suoi uomini dietro ai mezzi, non sopra! Svelti! Svelti!
Hougan,
scarica i tuoi materiali! Metttee al riparo gli scienziati!»
Hougan scarico il materiale con l’aiuto
di un’altra donna scienziato, mentre alcuni uomini del
Maggiore Truman cercavo
un posto dove mettere al riparo gli scienziati.
Quando tutto fu pronto, il
Colonnello andò da Hougan.
Non servirono domande da parte
sua.
«Sono a circa quindici minuti da
qui! Arrivano a centoquaranta kilometri orari. Il sistema continua a
dargli il
benestare! Quelli che li inseguono stanno rallentando! Sembra che il
sistema li
abbia riconosciuti come nemici e li sta ostacolando! Non mi chieda
come, Colonnello,
ma li sta facendo rallentare!»
Il Colonnello si tolse gli
occhiali e i suoi occhi azzurri apparvero in tutto il loro splendore.
«Tenente Closser. Prenda due
uomini e faccia un giro di ispezione. Si ricordi che non conosciamo il
posto. Solo
una perlustrazione e mi informi immediatamente di ogni
novità. E si ricordi che
le radio prendono anche sotto terra, per cui qualcuno potrebbe
intercettare le
nostre comunicazioni. Per cui siate brevi e precisi.»
Il Tenente Closser, un tipo
basso, muscoloso, tutto d’un pezzo, saluto il Colonnello,
prese due uomini e si
inoltrò nel bunker.
Il Capitano Frazen non era molto
contento: Closser era solo un marines, neanche tanto in gamba, non uno
dei
corpi speciali e di sicuro avrebbe fatto un casino trovando qualcosa
fuori
posto.
Ma il Colonnello sapeva che
Closser faceva il rigido solo per la forma: in realtà era un
uomo dei servizi
segreti, addestrato per anni da gente che uccideva un uomo con un dito
solo e
di certo una qualsiasi “anomalia” non lo avrebbe
messo in difficoltà.
Ma al momento quella cosa non la
interessava.
I pullman del secondo gruppo
erano ormai prossimi al varco.
Il Colonnello cercò dove erano i
sistemi di chiusura del portone e li vide, lì a
mezz’aria, sul muro di confine
con il portone.
Appena i pullman entrarono,
frenarono svoltando a destra, incanalandosi nello spazio lasciato
libero dai primi
pullman.
I due gruppi di militari si fronteggiarono,
armi alla mano, pronti a sparare.
«Fermi! Fermi! Grifon! Grifon! Non
sparate, lo conosco io!»
Il Colonnello corse incontro ad
un uomo emaciato, alto più di due metri, con una tuta da
militare a brandelli,
che sosteneva a mala pena un mitragliatore.
I suoi uomini erano più o meno
nelle sue stesse condizioni e i civili che erano con loro,
più numerosi di quelli
portati dal Colonnello, caddero sul pavimento dell’ingresso
esausti.
«Frazen, chiudete il portone!
Presto!»
Frazen corse ai pulsanti e
schiacciò quello rosso.
L’enorme portone in cemento prima
si mosse verso l’interno poi, scorrendo su delle guide, poste
sia a terra che a
soffitto, scricchiolando, con un rumore di motori che li trascinavano.
Quando le due parti furono a
contatto, il portone scivolò verso l’esterno e
chiuse perfettamente l’ingresso,
da cui non entrò più la luce esterna.
Improvvisamente l’aria dell’ingresso
da pesante e irrespirabile divenne fresca e leggera.
Tutti tirarono un sospiro di
sollievo, mentre il Colonnello e il nuovo arrivato se la ridevano,
abbracciandosi per terra.
«MacRae che ci fai qui?»
«E tu, Griffon, da che buco dell’inferno
sei uscito?»
I due furono distolti dai loro
convenevoli dal Tenente Closser, che giunse urlando.
«Colonnello! Colonnello! Di qua,
svelta! Abbiamo trovato una sala comando!»
«Sì! Calma! Non così!
Frazen, i
mezzi! Disponeteli davanti all’ingresso: due davanti e
quattro dietro! Fate un
muro! Se dovessero sfondare il portone, troveranno una
barriera!» Il Colonnello
non perse la calma e prima di muoversi dall’ingresso voleva
essere sicuro che
si sarebbero salvati.
Mentre spostavano i mezzi e
scaricavano i materiali e le armi, gli uomini in forza aiutarono gli
altri,
sfiancati da un viaggio lungo e irreale.
Dopo aver fatto la barriera,
aiutandosi gli uni con gli altri, trascinando il materiale e le armi
stoccate
in enormi cassoni, seguirono il Tenente Closser.
Le grida di dolore si mischiavano
agli incitamenti a camminare verso un posto più sicuro.
Quello che il Tenente Closser
aveva chiamato “una sala comando” non dava
l’esatta idea del posto.
Per accedere alla sala si doveva
scendere una rampa da garage larga almeno dieci metri e ruvida, che di
certo
avrebbe aiutato e permesso a qualsiasi mezzo di scendere o salire dai
piani più
bassi.
A circa cinquanta metri dall’ingresso
vi era un paratia stagna, che consentiva l’accesso ad una
sala a chiocciola
larga, con la singola rampa di scala larga almeno due metri.
Tutti guardavano quel luogo
enorme stupidi.
Uno degli scienziati, uno
anziano, piccolo, con i lineamenti tipicamente orientali, non sembrava
così
stupefatto.
Quando scesero le scale e si
trovarono davanti all’altra paratia che immetteva alla sala
comando, l’uomo
passò davanti a tutti, facendosi spazio a spintoni e
fermò tutti sulla porta.
«Ssssst!» Disse, mettendo il dito
medio della mano sinistra sulla sua bocca.
La luce all’interno riempiva l’ingresso.
L’uomo entrò e guardò
dentro,
dove i due uomini mandati in perlustrazione si guardavano intorno,
senza capire
cosa stesse succedendo.
Su dei monitor appesi alle pareti
comparivano i volti dei due uomini e del Tenente Closser, con i loro
nomi,
gradi, codici di riconoscimento e altro non ben definito.
Quando l’uomo entrò, i video
inserirono il suo volto, con il suo nome e altri dati.
«E’ un computer quantico! Legge la
mente! Non vi preoccupate e non allarmatevi! Andrà tutto
bene!»
L’uomo entrò seguito dal
Colonnello, preoccupato che il computer svelasse la sua vera
identità.
Ma il computer quantico sembrò
comprendere i timori del Colonnello e, quando la scansionò,
iniziò con una M,
per poi modificarla con una C.
Il suo nome e grado apparvero
esattamente come lei voleva.
Per cui il computer quantico non
solo poteva fare, ma poteva anche interagire con chi fosse stato
presente nella
stanza.
Il Colonello ebbe un attimo di
panico, sperando che gli altri non se ne accorgessero.
La sala comando, quanto tutti
furono entrati, autonomamente accese tutte le luci, facendo scoprire
una locale
lungo più di cinquanta metri, largo trenta e alto circa
dieci metri.
All’improvviso, una voce uscì da
alcuni altoparlanti, modulando la voce in modo buffo.
«Benvenuto Colonnello Kristy MacRae!
A lei e a tutti i suoi servitori!»
«Arretrato!» Disse il Capitano Frazen.
Il Colonnello, ridendo tra se e
se, disse:
«Non sono miei servitori, ma miei
aiutanti! Che non è la stessa cosa! Ma tu, come ti chiami,
visto che sai tutti
i nostri nomi! Ah, un’altra cosa: se puoi leggerci nella
mente, puoi anche
parlarci con tale sistema?»
In meno di un secondo, tutti
sentirono, nella loro mente, una voce suadente che parlava.
«Se è così che preferisci
che io
ti parli, lo farò! E scusate per il termine, ma i miei
costruttori avevano un gerarchia
piuttosto rigida! Io mi chiamo Omnia! Per quanto riguarda tutto quello
che
volete sapere, al momento non mi sembra il caso! Chi vi seguiva
è stato
rallentato ma non fermato! Sul monitor principale potete vedere chi
sono i vostri
inseguitori!»
Sul monitor più grande, posto
alla sinistra della paratia di ingresso, si vedeva chiaramente
più mezzi, di
forma strana, che rimanevano sospesi dal terreno e correvano verso
l’ingresso
del bunker, rallentati da una strana forza che li rallentava.
«Sono stati nemici per secoli dei
miei costruttori, e non sono mai riusciti a sconfiggerli. Poi i miei
costruttori se ne sono andati, con la speranza di poter tornare, ma non
li ho
più rivisti.»
«Omnia, hai una immagine dei tuoi
costruttori?» Chiese ad alta voce il Colonnello.
Su un tavolo apparve un
ologramma, ad altezza naturale.
«Ti assomiglia molto, Colonnello!»
Disse la voce nella mente di tutti.
“Un po’ troppo!”
Pensò il
colonnello.
Una copia: era un fedele copia
del Colonnello, solo con vestiti più succinti.
Una risatina corse sui volti di
tutti gli uomini presenti, squadrati dal Colonnello.
«Scusa, non volevo, ma questi
sono i vestiti che usavano i miei costruttori e aver trovato nel
database una
che ti assomiglia mi sembrava una cosa carina.»
«Omnia, direi di tenere a bada il
tuo database fino a che non ci avremo capito qualcosa in quello che sta
succedendo!
E ora facci capire come distruggere quelli, senza provocare ulteriori
danni al
pianeta. Cosa sai di quei esseri? E non perdere tempo con
classificazioni
inutili! I più stretti termici scientifici!»
Sbottò il Colonnello.
«Sì. Sono degli esseri come voi,
con una base di silicio anziché di carbonio. Hanno armi
avanzate per voi, ma
che i miei costruttori erano riusciti a riprodurre e usarli contro di
loro. Ma il
perché i miei costruttori se ne sono andati, io non lo
so.»
«Sì, ma per distruggerli senza
fare ulteriori danni?» Insistette il Colonnello, spazientita.
«Le loro armi possono essere
usate contro di loro, ma sono, in effetti, parecchio
distruttive.» La voce di
Omnia sembrava dispiaciuta di ciò.
Il Colonnello guardò gli
scienziati, che avevano ancora la bocca aperta per tale meraviglia.
No, così non andava.
Non voleva essere una dura con gli
scienziati, ma non aveva scelta.
«Allora, signori! Gli scienziati
seguiranno le indicazioni di Omnia per vedere di migliorare le armi e
provocare
meno danni possibili! I militari verranno con me e vedremo come sono
quelli
armi e impareremo ad usarle! E vediamo di fermare quei
maledetti!»
Omnia diede indicazioni agli
scienziati di dove trovare i dati nel suo database, mentre il Colonello
e gli
altri ripreso la scala e continuarono a seguire la rampa in discesa.
Dopo aver seguito la rampa in
discesa per dieci minuti, un enorme portone si aprì
d’innanzi a loro,
immettendoli in un enorme garage, dove facevano bella mostra di
sé parecchi
veicoli, di notevoli dimensioni.
«No, non ci siamo. Come è
possibile che per distruggere quegli esseri ci vogliono armi
così enormi. Dopotutto
sono simili a noi, perché tutto questo?»
La domanda del Colonello era più
che appropriata e il tenete Closser tentò una spiegazione.
«Sono dotati di esoscheletri che
resistono a qualsiasi nostra arma, tranne che a queste.»
Il Maggiore Frazen guardò il
Colonello e il Tenente, ben comprendendo che gli stessero nascondendo
qualcosa.
«Colonello! Ben comprendendo che
io non sono un fulmine di guerra e che non sono così alto in
rango come lei, ma
potrei sapere esattamente cosa ci facciamo qui? Non una spiegazione
generica,
una veritiera!»
Il Colonello guardò il Tenente,
poi indicò a tutti di mettersi seduti di fronte a lei.
«Tutto iniziò quando posizionammo
nello spazio la nostra base Cartagena nello spazio.»