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Autore: keska    18/05/2009    28 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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-Qui ci saranno i fiori, e qui le sedie

Capitolo riveduto e corretto.

 

Gli spruzzi d’acqua fresca raggiunsero il mio viso, rinfrescandomi. Avevo la bocca amara e lo stomaco chiuso in una morsa.

Calma, Bella. Sta bene. È lì fuori da qualche parte senza che tu lo possa vedere, ma… sta bene.

Presi un grosso respiro, guardando ancora una volta l’immagine del mio viso che si rifletteva allo specchio. I rumori provenienti dall’esterno erano un sottofondo nella mia mente: chi trasportava i fiori, chi le panche, chi addobbava gli alberi con nastri e lucine.

Bussarono alla porta.

Trasalii appena, affrettandomi ad asciugare il viso ed uscire dalla stanza. Mi ero nascosta fin troppo a lungo. Alice mi rivolse un’occhiata piena di disappunto. Era così nervosa… come se quella a doversi sposare fra quattro giorni fosse lei, e non io. «Siamo in ritardo, lo sai? Fra venti minuti arriverà il pastore».

Annuii mestamente, costringendomi a darle corda, piuttosto che dover subire le sue isterie. Strinse il braccio al mio, guidandomi verso il cortile. «Vorrei almeno darti un’idea di quello che dovrai fare. Hai scritto la tua promessa?».

«Ci sto lavorando» borbottai, scuotendo il capo.

«Ci stai lavorando? Bella!» esclamò, piantandosi al centro del giardino «devi fare solo quello, che diamine stai aspettando?». Sbuffò con un gesto eccessivo per il suo piccolo corpicino, portandosi una mano sul fianco e sollevando gli occhi al cielo, prima di puntarli su di me. «Si può sapere che diavolo hai, oggi?».

Scrollai le spalle, spostando lo sguardo per celare i miei pensieri. «Niente».

«Bella» mi richiamò con funebre serietà. Posò entrambe le mani sulle mie spalle. «Che diavolo succede? È perché ho mandato via Edward? Lo sai che non può stare qui mentre provi il tuo vestito. E si sta rendendo utile, andando a noleggiare l’auto per il vostro matrimonio».

«Non potevamo usarne una delle nostre?» protestai, imbronciata.

«No! E comunque… oh, al diavolo!» imprecò, mandando ancora gli occhi in gloria.

Non feci in tempo a domandarmi perché che: «Bella!» mi richiamò la voce di Edward, facendomi voltare di scatto nella sua direzione con un sorriso di sollievo stampato sulle labbra. Peccato che il tragitto della mia testa al suo indirizzo fosse ostacolato dalla cassapanca che Carlisle e mio padre - ho motivo di ritenere che effettivamente la presenza di quest’ultimo sia stata la causa dell’incidente, altrimenti evitabile - stavano trasportando.

Barcollai all’indietro, portandomi immediatamente una mano al punto leso, una smorfia sul viso. Più voci contemporaneamente mi chiamarono, e insieme si avvicinarono a me. Attraverso l’unico occhio che mantenni aperto vidi Edward correre - ad una velocità umana, a beneficio di mio padre - nella mia direzione.

«Merda, che male» imprecai sottovoce, strofinando con le punte delle dita la parte lesa.

«Non riesci a stare cinque minuti senza farti male, eh?» mi prese in giro Emmett, beccandosi un’occhiataccia.

Edward si avvicinò con un cipiglio, scostando senza tante cerimonie la mia mano e osservando da vicino la mia fronte. Infine sospirò, scuotendo il capo e posando le sue labbra fresche sul punto dolente. «Non è niente».

«Niente? Niente? Che ci faccio con la tua faccia se per caso ti viene un bernoccolo?! Me lo dici?! La sposa col bernoccolo, in tutti i cinema dal 13 Agosto!» sbraitò Alice, nervosa. Ancora non aveva smesso di fissarmi, con la bocca spalancata.

«Non dovremmo lasciare che la controlli qualcuno di più esperto?» obbiettò mio padre, fissando in malo modo il mio fidanzato.

«Sto bene, papà» borbottai, rossa di vergogna. Edward premeva il suo palmo contro la mia fronte. Meglio del ghiaccio.

«Chi ce lo dice?» borbottò con serietà «l’ultima volta sei finita in ospedale».

Edward tentò di ammansirlo, con voce gentile. «Le assicuro, signore, che sua figlia sta bene. Sarà solo un po’ indolenzita».

Ovviamente il suo commento non ebbe che l’effetto contrario, facendo infervorare ancor di più mio padre, che si era preparato a ribattere, un pugno per aria.

«Possiamo controllare. Un minuto, non costerà nulla» intervenne prontamente Carlisle, un sorriso conciliatore. «Vieni, Bella. Ci impiegheremo solo un attimo, davvero».

Mio padre borbottò quello che sembrava un brontolio soddisfatto, mentre con un sospiro Edward accettò di guidarmi verso la panca a un lato del giardino. «Carlisle, davvero. Spero tu non voglia farlo sul serio» protestai quando mi si avvicinò. Eravamo abbastanza distanti e nascosti da mio padre perché non si accorgesse di nulla.

Mi sorrise, scuotendo il capo. «Fammi solo vedere un secondo» mormorò, posando le punte delle dita fresche sulla mia fronte, per meno di qualche secondo. «Un po’ di… ghiaccio andrà bene», continuò, lasciandomi un occhiolino e allontanandosi discretamente.

Sospirai, chinandomi verso Edward. Avvolse il capo con una mano, nascondendolo nell’incavo del suo collo e baciandomi la sommità della testa. Chiusi gli occhi, beata in quella posizione, e man mano sentii i muscoli del corpo riacquisire il giusto rilassamento, quello che per tutta la mattinata gli era stata negato, chiudendomi lo stomaco e impedendomi di fare colazione. Eppure… continuavo a sentire qualcosa che mi bloccava.

«Cosa c’è?» mormorò Edward, intuendo forse il mio stato.

Deglutii contro il suo petto. «Mi sei mancato».

Baciò ancora una volta i miei capelli. «Lo sai che non mi accadrà nulla. So badare a me stesso. E non si è più fatto vivo, lo sai».

Chiusi gli occhi, prendendo a respirare più superficialmente. Mi stava tornando la nausea - molto probabilmente avrei saltato anche il pranzo. «Lo so. È quello che mi sono ripetuta. Però…».

«Però?».

Mi morsi un labbro con forza. «Ho solo un cattivo presentimento. Un brutto, cattivo presentimento».

«Ehi» mormorò, separandosi dal mio corpo per guardarmi negli occhi «non ti accadrà nulla. Te lo prometto».

«E nemmeno a te» borbottai preoccupata.

Mi sorrise. «E nemmeno a me».

«E nemmeno a nessun altro».

Ridacchiò, avvicinandosi a sfiorare il naso col mio. «Mh-mh. A nessuno» soffiò sulle mie labbra prima di lambirle dolcemente con le sue. Un bacio dolce e amorevole che ben presto crebbe, sotto la spinta della mia frustrazione repressa. Meglio. Avremmo approfondito quelle che chiamavo “prove pre-matrimonio”.

Avevo le mani avvinghiate nei suoi capelli, e lui nei miei, quando il pastore Weber si schiarì la voce. «Non mi sembra di aver detto ancora “adesso può baciare la sposa”» scherzò, dall’altezza della sua posizione eretta.

Sollevai lo sguardo e avvampai. Mi affrettai a sollevarmi in piedi, dando un minimo di contegno alla mia aria strapazzata.

«Pastore Weber» lo salutò cordialmente Edward, impeccabile, porgendogli una mano e cingendomi con l’altro braccio, facendomi imbarazzare ancor di più.

«Buongiorno» cincischiai io, rossa come un pomodoro.

Ridacchiò, evidentemente per nulla toccato dalla nostra performance. «Buongiorno ragazzi. Allora, dov’è che mi devo mettere? Prima cominciamo e prima finiamo. Penso ci impiegheremo non più di un’oretta, poi io dovrei andare via…».

«Oh, pastore!» lo richiamò Alice, svolazzandogli intorno. Di sicuro lei non era dello stesso avviso. «Venga, le mostro dove ho intenzione di mettere l’arco. Lei che ne dice, quel posto lì infondo le piace? Oppure si poterebbe fare lì è lì. Di solito come sono disposte le sedie? Come le sistemano? C’è abbastanza spazio?».

«B…beh, signorina. Io sono abituato a celebrare anche in chiesa, per me non fa molta differenza…» balbettò il pastore, imbarazzato.

Sospirai, voltandomi verso Edward che scrollò le spalle, noncurante. Venti minuti dopo stavamo provando. Ero sull’ingresso, con mio padre (più imbarazzato di me) al mio fianco. Alice mi aveva messo un pezzo di tulle a mo’ di velo fra i capelli, e ora svolazzava al vento che contraddistingueva quella giornata. Il cielo era denso di nuvole di pioggia ancora non scesa.

Lei camminava davanti a me, con estrema grazia e leggiadria, sussurrandomi di tanto in tanto “attenta a dove metti i piedi”, “non inciampare”. Mi aveva costretto ad indossare i tacchi, come prova per il giorno del matrimonio. A nulla erano servite le mie proteste per cercare di ottenere un paio di ballerine. Non so come, riuscii ad arrivare accanto a Edward, che se ne stava impeccabile, sorridendo accanto al pastore. Ci spiegò tutto quello che dovevamo dire e come si doveva svolgere in teoria la funzione.

Così, cominciammo a provare. Cominciammo, e circa due ore e mezzo dopo eravamo ancora lì. Mio padre sbuffava a non finire, borbottando circa impegni improrogabili. A me dolevano incredibilmente i piedi, la nausea non accennava a passare, e la noia mi rendeva più difficile contenere il mio cattivo umore.

Il pastore Weber, spazientito come tutti gli umani privi di resistenza e pazienza illimitata, lanciava continue occhiate all’orologio al suo polso. «Signorina Alice, mi dispiace, ma devo proprio andare, mi sembra che gli sposi siano perfetti, non c’è nulla che non vada. Sono in ritardo per il mio appuntamento» disse, squagliandosela.

«Ma, pastore! Non si può intrattenere ancora altri cinque minuti! La prego!» provò a trattenerlo Alice.

Lui fece un cenno lontano con una mano, mentre apriva la portiera dell’auto e se ne andava.

«Mi dispiace Alice, ma devo andare anch’io» si accodò mio padre, cogliendo la palla al balzo «Ho proprio un… umh… impegno improrogabile» ciancicò prima di fuggire.

Sospirai, stringendomi a Edward. Libera da quella tortura.

Ma non per Alice. «Bella, noi continuiamo a provare. Jasper, tu fai la parte di Charlie. Emmett, tu quella del pastore».

Gemetti, sollevando gli occhi al cielo.

«Alice, smettila» la interruppe Edward prima che potessi farlo io «è tardi e siamo stanchi, e a me e Bella non importa che sia tutto perfetto. L’importante è sposarci. È ora di pranzo, ormai».

A quelle parole sentii un conato, represso prontamente. Non sarei stata in grado di inserire nulla nel mio stomaco in subbuglio. «Beh… forse… potremmo provare ancora un paio di volte» balbettai, provando a sembrare convincente. Non volevo rendere Edward parte del mio stato di agitazione.

Si voltò nella mia direzione con un’espressione perplessa. Questo, prima che una folata di vento improvvisa soffiasse nella nostra direzione, e tutti i vampiri si bloccassero, smettendo di respirare e voltandosi verso l’ingresso di casa Cullen. Tutti in posizione di difesa. Edward aveva il volto impregnato di un’espressione di puro odio. Ringhiava, fra i denti.

Il mio cuore aumentò esponenzialmente i battiti, mentre il respiro si mozzava in gola. Il mio presentimento. Il mio terribile presentimento.

«Cani…» sibilò Edward, contenendosi a stento.

Il mio cuore, che in quei pochi secondi aveva accelerato repentinamente, si bloccò. Si udì un tuono, e il suono di qualcosa che veniva spostato dentro casa. Era lì, a pochi metri da me. Era lì, e i miei ultimi peggiori incubi si stavano realizzando, letteralmente.

«Calma» intervenne Carlisle, cosicché tutti, lentamente, abbandonarono la loro posizione di difesa, mantenendo uno stato di tensione. Facilmente palpabile.

Edward si mosse rigidamente ponendo un braccio intorno alla mia vita, stringendomi a sé, in un istinto di protezione.

«E’ in casa» bisbigliò Jasper.

«Non vedo niente» disse risoluta Alice.

Carlisle annuì. «Dobbiamo organizzare un piano. E’ solo uno?» chiese a Edward.

Lo percepii irrigidirsi ancor di più. «Lui. Solo lui» sputò con disprezzo.

Era tornato. L’aveva detto e l’aveva fatto. Era tornato. A nulla erano servite le raccomandazioni e le rassicurazioni che Edward mi avevano fatto in quei mesi. Gli incubi peggiori ritornano sempre, e questo, pretendendo il suo posto nella mia mente. Il mio timore non era affatto vano, accresciuto dalle immagini e la situazione così simile a quelle dei miei incubi: il velo al vento, il pericolo a pochi metri da me, la terribile preoccupazione. E… la morte di Edward. Mi gelai completamente, incapace di muovermi o parlare.

Carlisle si mosse per organizzare un piano. «Jasper, cosa proponi?».

Lui lanciò un’occhiata a Edward che gli rispose sicuro quanto arrabbiato. «Lo sento a intervalli, non chiaramente. Vuole combattere».

«Già, ma perché è venuto da solo? Sa benissimo che così non ha speranze… mi sembra troppo facile» meditò Jasper, una ruga di preoccupazione sul volto.

Si udì un nuovo rumore provenire dall’interno.

«Ci dobbiamo sbrigare» intervenne Esme, che camminando si era avvicinata a me e Edward, aumentando la protezione nei miei riguardi.

«Lo uccidiamo, o lo imprigioniamo e chiamiamo i licantropi per farlo venire a prendere?» chiese Alice determinata.

Sentii un brivido attraversarmi la schiena.

«Uccidiamolo, non possiamo permettergli di ritornare» ringhiò Rosalie.

Carlisle sollevò le braccia, bloccando il dibattito che si era venuto a creare. «Vi ricordo che non siamo assassini, se non sarà necessario, non lo uccideremo. Non sappiamo con precisione cosa voglia».

Sentii che la presa di Edward si faceva più forte intorno al mio corpo, possessiva e protettiva, impedendomi di cadere in pezzi.

Jasper cominciò a dare istruzioni: «Va bene, proviamo a capirne le intenzioni, ma se non funziona attacchiamo. Esme e Carlisle, entrate dall’ingresso principale. Rosalie, tu entra dal secondo piano, dalla stanza di Edward. Alice, tu vieni con me, entriamo dal retro. Edward, anche tu verrai con noi» ordinò con decisione, facendomi sbiancare. Significava che… «Emmett, prendi Bella e nascondetevi nel bosco, non allontanatevi troppo, rimanete nei dintorni».

«Cosa? Ma io voglio combattere!» si lamentò lui.

«Edward…» sussurrai solo, quasi involontariamente, stringendomi maggiormente contro il suo petto. Mi stupii di quanto la mia voce fosse distorta e acuta.

Posò le sue labbra sulla mia testa.

Jasper scosse il capo nella mia direzione. «Edward mi serve, non possiamo rischiare di non leggergli nel pensiero. Dobbiamo capire le sue intenzioni, la situazione è troppo strana». Si rivolse al fratello. «Emmett, mi dispiace, sei l’unico che da solo può proteggere Bella, devi stare con lei. Sbrighiamoci».

Ma ero completamente pietrificata, incapace di muovermi o parlare. Mi sentii girare, il mio volto si ritrovò di fronte a quello di Edward. Mi accarezzò, dolcemente, freneticamente. Poi mi lasciò un delizioso quanto rapido bacio sulle labbra, denso di promesse e significati.

«Verrò presto da te, te lo prometto. Fai quello che ti dice Emmett, e non compiere azioni stupide. Non mi accadrà nulla, capito?! Ti amo».

«No, Edward, no» mi lamentai, un basso lamento gorgogliato.

«Shh» mormorò dolcemente, posando ancora le labbra sulle mie.

«No, Edward, no! Ti prego, no!» esclamai, stringendomi a lui con tutto il peso del mio corpo.

Emmett, mi separò facilmente dalle sue braccia, caricandomi in spalla come fossi un sacco di patate. Edward mi fissava con uno sguardo desolato.

«No!» urlai ancora, scalciando, facendo uscire dai miei occhi lacrime di paura e rabbia, mentre il mio corpo si allontanava dal suo. Finché non fummo nella foresta.

Tutto sfrecciava confusamente intorno a me, mentre mi dibattevo nella morsa di Emmett, che comunque manteneva la presa ben salda sulle mie gambe. Improvvisamente mi lasciò andare facendomi atterrare con il sedere per terra. Eravamo in un piccolo spiazzo fra gli alberi. Disperata mi sollevai, velocemente, correndo malamente sui tacchi, verso il punto da dove credevo fossimo venuti. Ma lui mi riacciuffò e mi mise di nuovo in terra. Ancora una volta tentai di sollevarmi, per poi ottenere il medesimo risultato.

«Lasciami andare, lasciami andare, ti prego, lasciami andare!». Era qui. Era qui. Ci avrebbe fatto del male.

«È inutile. Anch’io vorrei stare lì a combattere anziché stare qui a farti da baby-sitter» si lagnò.

«No! Io devo andare, devo andare!» esclamai, la testa fra le mani. Era tutta colpa mia. Se solo non gli avessi dato corda. Se solo avessi messo a tacere, subito, le sue inclinazioni perverse e i suoi ricatti. Se solo avessi compreso la distorsione malata dei suoi pensieri nei miei confronti. Cosa, se non la distorsione e la malattia potevano infatti spingerlo a volermi addirittura rapire per i suoi scopi? Contro la mia volontà?

Mi sollevai ancora, presa da un moto di paura e rabbia, e Emmett mi trattenne ancora una volta. «Bella, per favore, torna qui!» mi bloccò il polso con una mano. «Edward ti ha detto che devi fare quello che dico io, perciò stai ferma».

«No» singhiozzai, scoppiando involontariamente a piangere. «È tutta colpa mia, Emmett. L’ho fatto soffrire fin troppo con la mia ingenuità e con la mia ignoranza. Jacob è sempre stato arrogante, invadente. Pensavo che fosse solo un lato del suo carattere. Invece è malato, è perverso! Guardaci! Siamo qui in un bosco! A nasconderci! Come posso condurre la mia vita in questo modo? Come può ancora Edward soffrire in questo modo a causa mia? Non posso sopportarlo, io… non posso» singhiozzai, nascondendo il viso fra le mani. La voce mi usciva graffiata per il pianto.

Emmett mi strinse nella sua presa finché non finii di sfogarmi. «Edward non ti farebbe mai una colpa di una cosa del genere. Ehi, persino io, che non vado tanto d’accordo con i cani immaginavo che quel tizio lì avrebbe dato di matto in questo modo. Fai proprio perdere la testa agli uomini, eh?» ridacchiò, «anche Edward, sai… non era così, prima che arrivassi tu. Anche lui ha perso la testa per te» ammiccò, facendomi l’occhiolino.

Risi, e poi piansi ancora fino a non avere più acqua in corpo. Esausta, mi abbandonai seduta al centro dello spiazzo, schiena contro schiena con Emmett. Il vento fischiò e gli alberi protesero verso di noi le loro fronde. Sembrava così buia la foresta, sovrastata da quel cielo nero. Iniziai involontariamente a tremare. L’ansia accumulata si stava scaricando in quel momento, facendo vibrare il mio corpo.

«Edward…» mi uscì dalle labbra, fra gli innumerevoli sospiri.

Emmett sospirò. «Non c’è niente di cui preoccuparsi».

Mi voltai nella sua direzione con un cipiglio in volto. «Come fai ad essere così calmo? Anche Rosalie è lì che rischia la vita».

«Vita?». Scoppiò in una fragorosa risata. «Nessuno rischia niente qui! Sono cinque contro uno, diamine».

«Non ti sembra strano? Perché dovrebbe fare qualcosa di così stupido? Sapendo di essere in inferiorità numerica?».

Scrollò le spalle. «Non lo so. Non pretendo di entrare nel cervello del cagnaccio. Se la caveranno comunque. E poi, ehi…» continuò con un ghigno sinistro, stringendomi in quello che doveva essere un abbraccio «se venisse dritto dritto qui… ci penserei io a lui».

Il vento fischiò tra le fronde degli alberi, producendo fruscii sinistri. Un fulmine squarciò il cielo e dopo pochi istanti si udì un tuono.

Mi strinsi maggiormente al suo corpo. E ancor di più quando si udì un altro tuono. Passammo così, abbracciati, diverso tempo, senza che nessuno dei due parlasse rompendo il silenzio, con il suono del temporale in avvicinamento. Le nuvole ci guardavano dall’alto, minacciose e cariche di pioggia. Il mio velo, ancora fra i capelli, scorrazzava al vento. Non c’era secondo in cui non pensassi a Edward, a cosa stesse facendo, al fatto che era in pericolo e che, intimamente, speravo che lo uccidesse. Mi sentivo un mostro, pensandolo, ma volevo che Jacob non esistesse più.

Mi distrasse dai miei pensieri Emmett, con un commento sarcastico. «Beh, è passata quasi un’ora. Forse hanno deciso di giocarti a poker».

Un piccolo sorriso mi piegò le labbra. «Oh, si. M’immagino già Edward vestito stile Chicago: cappello in testa, sigaro in bocca, il completo gessato e le bretelle rosse».

«Oh, beh, tu immaginatelo, io l’ho visto conciato così».

«Davvero?» esclamai, al limite fra il divertimento e la disperazione.

Rise. «Certo! Avresti dovuto stare lì a sentire come pretendeva le calze rosse abbinate!».

Scossi il capo lentamente, il sorriso che scemava, mentre immaginavo la figura del mio fidanzato conciato a quel modo. «Comunque lo straccerebbe».

«Lo ha già stracciato» mormorò Emmett, con un chiaro riferimento a qualcosa che non comprendesse solo la partita.

Mi strinsi le braccia al grembo, sistemandomi meglio contro la spalla di Emmett.

Le sue sopracciglia brune si sollevarono contemporaneamente. «Hai fame?» imbronciò le labbra «in effetti voi mangiate ad orari preimpostati. Dovrebbe essere, umh… un po’ tardi per te».

Scossi il capo. «Non ho fame».

Mi osservò scettico.

«Dico sul serio, ho lo stomaco chiuso» insistetti.

«Se mi svieni Edward non me lo perdonerà mai! Vado a cercare qualcosa da farti mettere sotto i denti, va bene? Rimani qui, e non ti muovere. Starò via meno di un minuto».

Feci roteare gli occhi al cielo. «Non dovevi farmi da baby-sitter?» lo sfidai. Non avevo intenzione di mettere sotto i denti proprio nulla, se non volevo vomitarlo l’istante dopo.

«Ah-ah. Non attacca. Aspetta. Qua» sibilò, prima di scomparire nel nulla.

Frustrata, mi presi le gambe fra le braccia, facendomi piccola piccola. Fu in quel momento che mi ricordai di avere un cellulare ultimo modello in tasca. Pacchetto matrimonio. Edward me l’aveva regalato, per stare sempre in contatto anche nei momenti più impensabili e per chiamarlo per le possibili emergenze nel caso fosse stato a caccia. Inizialmente mi ero lamentata, dicendo che a me non serviva, ma quando poi mi aveva spiegato le sue motivazioni, mi ero dovuta ricredere. Rassicurarmi circa le sue condizioni, rimanere in contatto con lui, era diventato un bisogno primario.

 Tuttavia in questo momento non avrei potuto chiamarlo, l’avrei solo allarmato e messo in difficoltà. Però era passata più di un’ora…

«Ecco qui!» disse Emmett ritornando con le braccia piene di frutta, e scaricandole in un cumulo davanti a me. C’erano mele, pesche, pere e uva. «Magari avresti preferito qualcosa di più sostanzioso» disse grattandosi la testa «ma anche se t’avessi preso un po’ di carne non avresti potuto mica mangiarla cruda!».

«Nemmeno cotta» borbottai, scuotendo la testa. «Grazie, davvero, ma non ho fame».

«Su, prendi qualcosa! Mangia questa» m’invitò Emmett, passandomi una mela rossa.

«No Emmett, non ce la faccio, davvero».

Prese la mela in una mano, porgendomela, e facendole strani gesti intorno con l’altra mano «Dai bambina mia, è una mela magica, dalle un morso» fece imitando la strega di Biancaneve.

Mi sfuggì un piccolo sbuffo simile ad una risata. «Oh, davvero?».

«Ma certo, questa mela avvera tutti i tuoi desideri. Mordila e vedrai».

Roteai gli occhi al cielo, e decisi di accontentarlo. «Beh, se è così allora mi fido» sibilai sarcastica. Afferrai la mela e me la rigirai fra le mani. Mi venne da ridere. «Emmett, lo sai che alla fine Biancaneve viene avvelenata?».

«Certo, ma poi chiamo Edward così ti sveglia!» ammiccò.

«Ah, beh, allora…».

Nello stesso istante in cui cedetti, addentandola, si udì il suono di uno scoppio e mi ritrovai di fronte ad un muro di fuoco.

   
 
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