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Autore: Road_sama    27/11/2016    1 recensioni
Ogni singola persona vivente in questo Pianeta ha due singoli occhi unici. Dentro questi occhi si nasconde un Universo. Da piccolo capii che la macchina fotografica era strutturata proprio come l’occhio umano. Le immagini prendono forma attraverso la luce che passa nella lente. E così cominciai a fotografare il maggior numero di occhi. Sono Joshua Dun e faccio il fotografo. Vorrei raccontarvi la storia degli occhi che hanno cambiato il mio mondo.
//JoshxTyler/Joshler//
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eccomi di ritorno con il secondo e ultimo capitolo di questa piccola fic. Ringrazio tutti quelli che l'hanno letta e spero vivamente che vi piaccia anche questa seconda parte (anche se boh a me non convince ahah)
Questo capitolo è un po' più lungo dell'altro e avrei potuto dividerlo però credo che leggerlo tutto di seguito renda di più.
Se vi va lasciate un commento, altrimenti no (lol)
Buona Lettura e a presto!
Road_sama




Feded Eyes




Il ricordo dei suoi occhi rimase vivido nella mia mente per tutta la settimana e così le sue labbra sulle mie.
La prima cosa che feci non appena ebbi un momento libero fu di far stampare i suoi occhi. Li appesi ai lati dello schermo del mio computer e li osservai in continuazione cogliendo ogni dettaglio che quella sera mi era sfuggito. Le lezioni all’Università erano normali, nulla di più e nulla di meno rispetto a prima. Non era il resto del mondo ad essere diverso, ero io ad essere cambiato. Le immagini non avevano più gli stessi colori, le fotografie non avevano più la giusta angolazione, i soggetti non erano abbastanza emotivi. Nulla era più uguale a prima dopo di lui.
Vedevo le solite facce anche se tra gli studenti cercavo sempre quel paio di occhi. Li cercavo nella metro che prendevo per andare da casa alla facoltà, li cercavo quando andavo a fare la spesa al Seven Eleven sotto al mio appartamento, li cercavo nel piccolo studio di fotografia in cui stavo facendo gavetta. Li cercavo e non li trovavo. I giorni passavano, le settimane si susseguivano e a due mesi da quella notte di Halloween avevo quasi rinunciato all’idea di poterli rivedere ancora.
Nonostante questo le due piccole foto erano ancora appiccicate sullo schermo e io continuavo a guardarle e i ricordi si facevano più sfumati. Sembrava essere scomparso nel nulla, sembrava non essere mai esistito.
 
Era circa metà Gennaio quando il mio amico mi trascinò ad un’altra festa.
-Amico, tu hai bisogno di trovarti qualcuno. Sempre a fissare quegli occhi! Sembri un po’ psicopatico, fidati di me.- avevo riso quando mi aveva rivolto quelle parole in taxi. Ci avevo pensato su ed effettivamente poteva sembrare il comportamento di un maniaco.
-Quindi, ti porto da qualche parte, hai bisogno di dimenticare.- feci un mezzo sorriso. Forse aveva ragione, forse dovevo solo liberarmi la mente e cominciare a pensare a qualcos’altro. Magari le cose sarebbero tornate come erano prima.
-Ok, ci proverò.- lui aveva annuito soddisfatto e mi aveva dato un’amichevole pacca sulla spalla.
-Siamo d’accordo allora.-
E fu così che finimmo in un piccolo Pub appena fuori New York. Era un posto carino tutto sommato, piccolo e senza pretese. C’era abbastanza gente per essere mercoledì sera ma non mi feci troppi problemi, in fondo ero lì con l’unico scopo di incontrare gente nuova. Fin da subito il mio amico attaccò bottone con suoi amici del liceo che fatalità conoscevano altri amici e un sacco di ragazze e già dopo un’ora buona avevo conosciuto tutto il locale. Nomi su nomi mi era stati detti e io non me ne ricordavo neanche uno.
-Josh giusto?- una ragazza con cui avevo già parlato quella sera si era seduta di fianco a me ad un tavolino. Io la guardai confuso e lei ridacchiò.
-Non ti ricordi il mio nome, vero?- io feci di no col capo. Lei sorrise ancora.
-Sono Debby e ti perdono per essertene dimenticato.- Mi grattai la nuca e cercai di nascondere come meglio potevo un sorriso imbarazzato.
-Dimmi, Josh, come mai sei qui sta sera? Non ti ho mai visto da queste parti.- mi sistemai meglio sulla sedia.
-Uh, un mio amico mi ha costretto a venire, dice che sembro un po’ psicopatico.- lei mi squadrò divertita.
-Come mai uno psicopatico?- ritornai a grattarmi la nuca in imbarazzo. Non sapevo esattamente se risponderle con la verità. Poi, però, qualcosa mi disse che non avrei potuto inventarmi una scusa decente in ogni caso e quindi le raccontai degli occhi.
-Ho conosciuto questo ragazzo ad una festa, circa due mesi fa e di lui mi rimane solo la foto dei suoi occhi.- mi schiarii la voce –Ho la foto dei suoi occhi attaccati sullo schermo del pc e diciamo che lo sto cercando da allora.-
Mi guardò in modo strano come se non credesse alla mia storia o come se non si fidasse pienamente.
-Lo so che sembra strano-
-No, non è questo…è romantico.- sbuffai e cercai di guardare da un’altra parte. Il silenzio calò tra di noi. Stavo per chiederle per quale motivo lei fosse finita in quel posto però la voce gracchiante del proprietario del locale parlò dal microfono.
-Oh, finalmente inizia.- mormorò la ragazza accanto a me e solo in quel momento notai che in fondo al Pub era stato allestito un piccolo palco. Quello spiegava perché ci fosse tutta quella gente lì il mercoledì sera. Il signore al microfono annunciò una band di cui non avevo mai sentito parlare prima. Notai che gli occhi di Debby brillarono quando il proprietario scese dal palco per far iniziare lo spettacolo.
-Li conosci?- le chiesi e lei mi guardò come se avessi appena bestemmiato.
-Se li conosco? Io li adoro. Ho una specie di cotta per il cantante, è totalmente diverso dal normale!- alzai un sopracciglio divertito. Lei mi picchiò affettuosamente il palmo della mano.
-Se non ci credi guarda tu stesso, magari è la volta buona che dimentichi quegli occhi.- mi fece la linguaccia e io le sorrisi.
Le luci si abbassarono e fecero il loro ingresso tre ragazzi. Un piccolo faro illuminò il palcoscenico dal fondo del Pub e tra tutti, solo la figura dietro al microfono attirò la mia attenzione. In qualche modo sembrava familiare. Osservai i suoi capelli scuri un po’ arruffati, le guance leggermente rosse, un accenno di barba sul mento. Solo in quel momento notai che indossava una canottiera nera larga che gli lasciavano le braccia scoperte. Le luci si alzarono di intensità e rivelarono dei tatuaggi che avevo già visto. Feci un paio di respiri profondi nel vano tentativo di calmare il mio cuore. No, non poteva essere davvero lui.
Alzai il mio sguardo e mi focalizzai sugli occhi e il respiro mi si bloccò in gola. Lo avevo cercato così tanto. Avevo scrutato quegli occhi in silenzio per così tanto tempo.
Cominciò a cantare e la sua voce era proprio la stessa che mi aveva urlato nelle orecchie, era proprio la stessa che mi aveva insegnato il significato della parola “fasianidi”. Lui era proprio lì a poco più di tre metri da me e non riuscivo a crederci.
-Beh, che ne dici?- mi chiese Debby cercando di sovrastare la musica con la sua voce. Io la sentii appena.
-E’ lui.- non distolsi per un attimo gli occhi dal palco. Non mi mossi di un millimetro, ero come pietrificato. Avevo troppa paura che ad una minima distrazione lui sarebbe potuto sfuggire via dalle mie dita ancora una volta.
-Chi?- chiese lei non capendo.
-Gli occhi. Sono i suoi. E’ lui.- ripetei ancora e non appena pronunciai quelle parole tutto sembrò diventare tutto più concreto.
-Tyler? Tyler Joseph è il ragazzo che hai conosciuto?- io distolsi per la prima volta gli occhi dal ragazzo e la guardai.
Tyler Joseph. Allora è quello il suo nome.
Annuii mentre il suo nome continuava riempirmi le orecchie. Lei mi parlò ancora ma io non la sentii.
Cercai la mia macchina fotografica che però non avevo portato con me. Mi morsi un labbro. Avevo davanti il soggetto perfetto e non avevo alcun mezzo per immortalarlo.
Fecero quattro canzoni e il tempo sembrava aver perso la sua solita consistenza. Solo nel momento in cui la band scese dal palco io mi alzai di scatto e uscii dal locale. Feci il giro completo del Pub fino ad arrivare alla porta sul retro. Mi nascosi appena dietro al muro del locale e attesi. Questa volta non me lo sarei lasciato scappare. Qualche secondo più tardi uscirono i membri della band con i rispettivi strumenti.
-E’ andata bene, no?- disse uno.
-Beh, direi di si.- disse l’altro ragazzo. Tyler annuì semplicemente. Si avvicinarono ad un furgono nero e depositarono gli strumenti nel bagagliaio.
-Noi andiamo all’after party di Jason, tu che fai?- Tyler si grattò la nuca.
-Andate, io torno in metro.- gli altri due annuirono e salirono nel furgone un momento prima di lanciare a Tyler una giacca nera.
-Domani sera abbiamo un altro concerto, non fare cazzate, ok?- Tyler annuì di nuovo e si infilò la giacca. Si salutarono e il cantante della band cominciò a camminare da solo per le strade della città. Io lo seguii. Poteva sembrare parecchio inquietante, anzi, era piuttosto inquietante, ma cercavo solo il momento giusto per potergli parlare. Lo seguii nella stazione della metropolitana più vicina. Passai il mio abbonamento sulla macchinetta e lo seguii fino a che non arrivammo alla corsia della metro verde. Salii sul suo stesso vagone. Lui prese posto vicino a due signore. Mi morsi la lingua: sarebbe stato troppo facile potersi sedere vicino a lui fin da subito. Optai per un posto poco distante dal suo.
Lo fissai per tutta la durata del viaggio. Le fermate si susseguivano e lui continuava a guardare fuori dal finestrino. Sperai intensamente che si voltasse verso di me e fu proprio quello che successe quando la metro entrò nelle gallerie sotterranee. I nostri occhi si incrociarono per la prima volta dopo mesi e un brivido mi percorse la spina dorsale nel constatare che quegli occhi erano veri, erano vivi e non erano solo una semplice foto scattata col flash. Sembravano aver acquistato un senso completamente diverso visti nel complesso di quel viso così diverso da come me l’ero immaginato.
Lui non mostrò alcun tipo emozione, si limitò ad osservarmi intensamente, proprio come la prima volta.
Si alzò all’improvviso e si avvicinò alle porte. Mi alzai a mia volta e lo affiancai. Lui estrasse dalla tasca un pacchetto di gomme da masticare alla fragola, me ne diede una. La accettai. Non saprei spiegarne il motivo ma presi il mio ipod e gli appoggiai le cuffie sulle orecchie. Feci scorrere velocemente il dito sullo schermo e premetti “play” non appena trovai la canzone giusta. Era “Cancer” dei My Chemical Romance, la stessa della sera di Halloween.
La metro si bloccò e si aprirono le porte, lui uscì e cominciò a camminare. Io cercai di stargli dietro, accelerai il passo a mia volta cercando di non tirare ulteriormente il filo delle cuffie. Non avevamo nemmeno raggiunto le scale per tornare in superficie che lui si bloccò di colpo, si voltò e mi venne incontro. I nostri petti si urtarono e per poco non fecero lo stesso le nostre fronti. I nostri sguardi si incontrarono e fui in grado di vedere ancora quelle iridi marroni dalle sfumature verdi guardarmi come se potessero leggermi dentro, come se potessero osservare tutto quello che avevo fatto in quei due mesi e mezzo.
Fu tutto così veloce che a malapena me ne accorsi. Le nostre labbra si toccarono con foga, con urgenza. Appoggiai i palmi delle mani sulle sue guance e lui posizionò le sue sulle mie spalle. Non percepivo più l’ambiente intorno a noi, il vento che si infilava sotto alla mia giacca. In quel momento c’erano solo le sue labbra che sapevano di fragola e le sue mani su di me. Sentivo appena il suono della musica che proveniva dalle cuffie e tutto aveva assunto i tratti della prima volta. Non sembrava che fossero passati mesi, non mi sembrava nemmeno di aver vissuto in quei due mesi. La fine era stato incontrarlo e non vederlo più, l’inizio era averlo di nuovo tra le mie braccia.
Mi scostai da lui quando sentii la gola bruciare per mancanza di ossigeno. Schiuse le palpebre lentamente e i suoi occhi mi guardarono: sorridevano.
-Ciao Josh.- soffiò sulle mie labbra lasciando la presa alle mie spalle. Gli tolsi le cuffie dalle orecchie e riposi l’ipod in tasca non distogliendo per un attimo lo sguardo dal suo viso.
-Ciao Tyler.- infilai le mani in tasca indeciso su cosa dire dopo.
-Che ne dici se, mm, andiamo da qualche parte?- gli sorrisi mostrando i canini.
-Certo.-
 
Non ero mai stato al Taco Bell sulla 57esima ma fu proprio lì che andammo. Entrambi ordinammo una RedBull, dividemmo i burrito.
-Uhm, allora, da dove vieni?- chiesi dopo aver preso un sorso dalla lattina. Lui si sistemò un po’ meglio il cappello grigio sulla testa come se non sentisse il caldo infernale che c’era in quel posto.
-Da tanti posti.- mi rispose grattandosi la punta del naso.
-Tipo quali?- gettò un’occhiata veloce all’esterno, ritornò a guardarmi come se fosse un argomento un po’ scomodo per lui, ma rispose comunque.
-Sono nato in Ohio, ma è da quando ho memoria che viaggio. Prima in Canada dai miei zii, poi in Francia dai miei nonni e ora qui.- lo squadrai per un attimo.
-E i tuoi genitori?- Lui prese un sorso dalla sua RedBull. Si leccò le labbra per pulire una goccia che gli era sfuggita. I miei occhi tornarono a fatica sui suoi.
-Altra domanda.- disse semplicemente. Ci pensai un po’ su.
-Cosa, uh, fai oltre ai concerti nei Pub il mercoledì sera?-
-Un’altra.- alzai un angolo della bocca in quello che doveva sembrare un mezzo sorriso.
-Perché mi hai baciato alla festa?- questa volta anche lui accennò un sorriso.
-Mi piacevano le tue orecchie da topolino, mi ricordavano un po’ Disneyland.- diede un morso al suo burrito. –E quella cosa delle foto agli occhi…non avevo mai pensato a quel modo per rimorchiare.-
Ridacchiai.
-A dire la verità tu sei l’unico con cui ha funzionato.-
-Mm, mi fai sembrare patetico così.- prese un altro lungo sorso dalla sua RedBull prima di parlarmi ancora.
-Tu? Cosa fai?- mi schiarii la voce.
-Studio fotografia qui a New York, sono all’ultimo anno.- lui piegò le labbra verso l’alto.
-Perché hai fotografato solo i miei occhi?- finii di mangiare il mio burrito.
-Perché amo l’occhio umano. Fin da quando ero piccolo lo disegnavo ovunque, i miei appunti di scuola erano disseminati di occhi e poi, beh, ho scoperto la fotografia e ho cominciato a fotografare gli occhi dei soggetti più interessanti.- feci una pausa, soppesando le parole che avrei voluto usare dopo.
-E poi ti ho trovato, ti ho perso e i tuoi occhi mi hanno riportato da te.-
 
Quella sera andammo a casa mia.
Lo spogliai lentamente e scoprire ogni centimetro della sua pelle fu la sensazione più bella che avessi mai provato. La luce della città che filtrava dalla finestra illuminava il suo corpo donandogli delle sfumature completamente nuove. Nessun minuto che avevo passato dietro ad una macchina fotografica in attesa della luce giusta valeva gli istanti trascorsi ad osservare la sua figura nuda distesa sul mio letto.
Il sesso con lui fu lento, fu intenso come gli sguardi che mi rivolgeva. Aveva un che di destabilizzante vedere le sue iridi profonde liquefarsi e perdersi nel piacere. Le sue mani erano delicate su di me, sembrava che dovessero pizzicare appena le corde di una chitarra. Il mio corpo era diventato la sua tastiera personale e il suono dei nostri respiri era la musica migliore che avessi mai ascoltato.
Per la prima volta nella mia vita potei dire di aver sentito cosa fosse fare l’amore.
 
La sera successiva lo seguii ad un altro dei suoi concerti. Dopo ritornammo a casa mia. Fu più bello della prima volta. La luce dell’alba ci colse impreparati, ma ringraziai il rosso intenso che si disperse per tutta la mia camera perché le foto che feci a Tyler furono le più belle foto che feci in tutta la mia vita.
-Fammi provare.- mi tolse la macchina fotografica dalle mani. Ribaltò le posizioni e si posizionò sopra di me. Le sue cosce ad avvolgere la mia vita. Mi puntò l’obiettivo sul viso. Mi rilassai sopra alle coperte del mio letto sfatto e lo lasciai fare. Scattò una foto ma non appena ne vide il risultato storse la bocca in una smorfia.
-E’ venuto tutto nero.- io risi, lui mi lasciò un pugnetto sulla spalla.
-Devi mettere il flash.- gli consigliai un momento prima di premere una levetta. La piccola piattaforma argentata spuntò all’improvviso dalla macchinetta. Lui portò di nuovo l’occhio dietro al mirino.
-Cosa vedi?-
-Te.- io risi ancora.
-Com’è l’immagine?- lui parve concentrarsi.
-Un po’ appannata.- ammise. Presi la sua mano sinistra nella mia e lo guidai lungo la rotellina sull’obiettivo.
-Devi mettere un po’ a fuoco.- la rotellina ruotò verso destra.
-Com’è ora?-
-Sembra…opaco, il colore dico.- lo vidi mordersi un labbro. Questa volta guidai la sua mano sulla rotellina più avanti.
-Cambia un po’ il diaframma. Come sono i numeretti verdi in basso?- lui strizzò un po’ l’occhio.
-C’è una piccola freccia, è in mezzo, credo.-
-Perfetto.- le nostre voci erano ridotte a due sussurri. I clacson delle macchine all’esterno erano suoni lontani quasi come se noi fossimo in un’altra dimensione.
-E ora?- mi chiese in attesa di nuove istruzioni.
-Scatta.- dissi semplicemente sorridendogli un po’. Attese qualche secondo, poi il flash mi colpì in pieno viso. I miei occhi ci misero un po’ per abituarsi al cambio di luce repentino. Tyler allontanò l’occhio dal mirino per vedere com’era venuta la foto. Non disse nulla e io pensai che fosse uscita male.
-Com’è venuta?- gli chiesi mettendomi a sedere. Lui scivolò sulle mie gambe. Appoggiai i palmi della mani su i suoi fianchi per mantenermi in equilibrio. La macchina fotografica rimase l’unico ostacolo a frapporsi tra di noi. Lui spostò gli occhi su i miei.
-Non mi piace.- ammise. Diedi un’occhiata allo schermo.
-Non è venuta male.- gli dissi ma non per incoraggiarlo. La messa a fuoco era giusta, il flash non mi aveva reso gli occhi troppo rossi e il contrasto dei colori non era proprio il massimo però nemmeno così brutto.
-Non rende.- aveva continuato.
-Cosa?-
-Non rende questo momento. Non rende tutte le sfumature del tuo viso, non si vedono bene i tuoi capelli blu. Non si capisce cos’è appena successo, cosa sta per succedere. Non rende te.- non riuscii a trattenere un sorriso.
-Spegni la macchina.- lui mi lanciò un’occhiata strana per un momento, poi fece come gli avevo detto.
-Ora riaccendila, prendi di nuovo quella foto.- spostò lo sguardo dai miei occhi alla macchina e premette il pulsante di accensione, poi quello per vedere le immagini.
-Cosa vedi?- lui non mi disse di nuovo quello che aveva detto poco prima.
-Sei tu, senza maglietta, sdraiato sul tuo letto nel tuo appartamento. Il sole entra dalla finestra alla tua sinistra. Si vede anche il mio ginocchio in basso.- Tyler tornò a guardarmi negli occhi.
-Cos’è appena successo nella foto?-
-Abbiamo fatto l’amore, mi hai fatto delle foto, mi hai insegnato come riuscire a fare foto fatte bene.- la luce del sole si fece più chiara.
-Guardando questa foto tu sai quali sono le sfumature del mio viso? Lo sai che ho i capelli blu?- lui annuì passandosi la lingua tra le labbra.
-Cosa sta per succedere dopo la foto?-
-Sto per dirti che non mi piace, che non rende come sei tu dal vivo.- fece una pausa. –Sto per rendermi conto che da questa foto io so comunque tutto.- sollevò un angolo della bocca.
-E’ questo il bello della fotografia: anche se non rende perfettamente la realtà, sei tu che la guardi a dare ad ogni cosa un senso. Sei tu a ricordarti i particolari di quel momento. Però, senza di essa non saresti riuscito a farlo in modo così dettagliato.- gli spiegai e lui prestò attenzione ad ogni mia singola parola. I suoi occhi mi sorrisero di nuovo.
Pose la macchina fotografica tra i nostri visi. Posizionò l’occhio destro nel mirino. Seguì tutte le istruzioni che gli avevo dato poco prima e scattò un’altra foto. Osservò il risultato sul piccolo monitor e per la prima volta lo vidi sorridere così tanto da scoprire i denti.
-Perché hai scattato questa foto?- gli chiesi incuriosito dalla sua reazione.
-Voglio ricordarmi com’era la tua espressione prima che ti dicessi che mi piaci un sacco, Josh.-
 
Le sere in cui uscivamo insieme si susseguirono. Quelle in cui lui veniva a casa mia erano ancora di più. Certe volte veniva a trovarmi in negozio e ogni volta mi chiedeva quando avrebbe potuto vedere una galleria con le mie foto esposte. Io gli rispondevo molto presto anche se in realtà non ne avevo la più pallida idea. La sua band stava diventando famosa. Sentivo moltissimi miei compagni di corso parlarne ed ero veramente felice che Tyler fosse riuscito a colpire così tante persone. Ero veramente contento per lui ma allo stesso tempo avevo paura che il successo avrebbe potuto fargli dimenticare di me.
Mi laureai un anno dopo averlo conosciuto. E lui era lì con me mentre festeggiavo insieme a tutti i miei conoscenti. Quella sera, andammo per la prima volta a casa sua. In un qualche strano modo era diversa da come me l’ero aspettata eppure allo stesso tempo era esattamente come me l’ero aspettata: era la casa di un artista. Fogli sparsi sul pavimento, mezzi scarabocchiati e mezzi  stropicciati. Una chitarra vicino al divano e un ukulele sul comodino. C’era anche una tastiera addossata al muro della sala da pranzo. Fu tutto quello che riuscii a vedere prima che le sue labbra potessero strapparmi via alla realtà. A malincuore gli sfilai di dosso la cravatta rossa e la camicia nera che si era messo per venire al ristorante, gli stavano veramente bene. Baciai i tatuaggi sul suo petto, tatuaggi che non mi stancavo mai di vedergli addosso. Mi spinse verso la camera da letto e io rischiai di inciampare sulle mie stesse scarpe. Lui rise tra le mie labbra quando per sbaglio urtò la maniglia della porta con il gomito. La risata contagiò anche me.
La sua camera da letto era spoglia, non c’era molto se non il minimo indispensabile. Il suo letto, però, era molto più comodo del mio e fu proprio lì che trascorremmo le ultime ore di notte che rimanevano.
-Cosa sai suonare con l’ukulele?- gli chiesi guardandolo dal basso. Lui si era messo a sedere sul cuscino, la schiena contro la testiera del letto e l’ukulele tra le braccia. Stava pizzicando distrattamente qualche corda.
-Cosa vuoi che suoni?- abbassai le lenzuola azzurre fino alla vita mentre il sudore del sesso faticava ancora ad asciugarsi.
-My Heart Will Go On.- lui alzò un sopracciglio.
-Celine Dion?- mi chiese con un sorrisetto sarcastico.
-Io adoro Celine!- ridacchiai, lui mi arruffò i capelli che da poco avevo tinto di rosso.
-E va bene.- si schiarì la voce e poi posizionò le dita sulle corde giuste.
-Every night in my dreams I see you, I feel you- la sua voce mi accarezzò I timpani come la migliore delle melodie. Adoravo ascoltarlo cantare ai suoi concerti, ma quella volta era per me. Lui stava cantando solo per me. Mi sentii privilegiato e unico perché quei momenti erano solo nostri, c’eravamo solo noi due e nessun altro avrebbe potuto condividerli.
-Near, far, wherever you are. I believe that my heart will, my heart does go on.- era incredibile come riuscisse a tenere testa a Celine Dion seppure in un modo totalmente diverso dalle aspettative.
-You’re here, there's nothing I fear, and I know that my heart will, my heart will go on.- la sua voce grattò in gola quando arrivò alla nota più alta. Mi ricordò la prima volta che ci incontrammo alla festa di Halloween e il suo urlo nelle mie orecchie. Sembrava essere passata una vita intera da quel giorno e invece era trascorso appena un anno e qualche mese.
Terminò di cantare Celine Dion ed io ero pronto a fargli il più grande applauso della mia vita ma lui continuò a suonare l’ukulele. Le note cambiarono e lui spostò lo sguardo dalle corde per incontrare i miei occhi.
-Wise men say, only fools rush in. But I can’t help falling in love with you.- gli sorrisi mostrando i canini. Lui fece lo stesso ma non si fermò e io continuai ad ascoltare la sua bellissima voce. Non interrompemmo per un attimo il contatto visivo e io, davvero, mi stupivo di quanti dettagli nuovi potessi distinguere in quegli occhi. Erano cambiati in un certo senso o forse ero io ad essere cambiato, forse lo eravamo entrambi.
-Take my hand, take my whole life too ‘cause I can’t help falling in love with you.- si soffermò più a lungo sulla “o” di “love”, trascinò le lettere come se il respiro gli si fosse bloccato in gola.
Fece una pausa. Istanti in cui le sue dita non si mossero e così i nostri sguardi.
-But I can’t help falling in love with you.- proseguì solo dopo attimi che mi parvero minuti e l’occhiata che mi rivolse mi fece perdere un battito. Non riuscivo a capire come facesse eppure sembrava poter vedere qualcosa dentro di me che io non riuscivo a percepire.
Lo vidi mordersi un labbro come se si aspettasse una mia reazione. Mi sembrò vulnerabile perché io non avevo ancora espresso un mio parere. Non avevo sorriso, non avevo detto qualcosa, ero rimasto esattamente immobile.
Schiusi le labbra e davvero volevo dirgli quanto mi piacesse sentirlo suonare o quanto non mi sarei stancato di sentire la sua voce nemmeno tra cent’anni ma quello che uscì dalla mia bocca fu di gran lunga diverso e l’espressione sbigottita che mi rivolse Tyler ne fu la conferma.
-Sposami.-
 
Non mi sarei mai aspettato che il mio matrimonio potesse essere così. Fu una cosa per pochi e per la maggior parte erano miei conoscenti, a quanto pareva Tyler non voleva contattare la sua famiglia. Non mi aveva dato fastidio, anzi, non ci avevo fatto caso. Io, d’altro canto, ero piuttosto impegnato a combattere la voglia di fare mille foto a Tyler e al suo completo bianco.
Fu una cerimonia veloce anche se durò un giorno intero. Fu tutto troppo veloce perché dopo di essa il nostro mondo parve sgretolarsi sotto ai nostri piedi. Le certezze che avevamo avuto fino a quel momento si dissolsero. Non eravamo più solamente noi due.
-Devo cominciare il tour.- aveva detto una volta Tyler.
-Dove?- gli chiesi non ancora esattamente allarmato.
-Una città per ogni stato d’America.-
-Per quanto?- lui non rispose subito.
-Un mese e mezzo.-
Avevo mandato giù quel boccone amaro e avevo accettato. Non potevo seguirlo nei suoi concerti come avevo fatto fino a quel momento. Prima si trattava di poche settimane, un mese al massimo e potevo lasciare chiuso il mio negozio di fotografia. Ma questa volta era diverso: un mese e mezzo era troppo. Lo lasciai semplicemente andare. Si trattava pur sempre dell’America. Si trattava pur sempre del suo sogno. La mattina presto quando partì per l’aeroporto lo salutai con un bacio e gli chiusi la portiera del taxi proprio come nei film.
 
Fu quando il successo si fece incontrollato che la situazione precipitò del tutto. Si parlava di tour in Europa, si parlava di tour in Australia, Nuova Zelanda, Giappone. E io dicevo di si perché mi stavo costruendo una vita a New York, qualche mio lavoro stava per essere esposto in alcune gallerie famose, anche il mio nome stava diventando importante seppure in ambienti diversi rispetto a quelli di Tyler. Però le cose stavano diventando insopportabili. All’inizio ci parlavamo su skype, poi, piano piano cominciò a dirmi che era troppo stanco dai concerti. Le settimane diventavano mesi e quei pochi giorni in cui lui tornava a casa li passava in studio a registrare oppure io li trascorrevo al mio negozio che era stato trasferito poco lontano da Central Park. Era difficile stargli lontano, era così difficile da farmi stare male. Un dolore insopportabile. Lentamente smettemmo di baciarci perché sapevo cosa stava per succedere e la parte più difficile era dover lasciarlo andare.
-Perché non vieni con me per questa volta? Tre mesi sono tanti e diventa difficile-
-Diventa difficile cosa? Vederci, fare quello che facevamo prima di sposarci?- lui annuì.
-Io non voglio stare tre mesi senza poterti vedere.- ammise e qualcosa si incrinò nel mio cuore.
-Non sei venuto ieri a vedere le mie foto esposte nella galleria più famosa di New York.-
-Mi sono già scusato per questo, dovevo registrare il nuovo disco non potevo fare altro.- la sua voce era leggermente alterata e così lo stava diventando la mia.
-Non posso lasciare il lavoro qui e venire con te in giro per il mondo, Tyler.-
-Sapevamo sarebbe stato difficile, Josh, non renderlo impossibile.- il suo tono sembrava ferito.
-No, non sapevo sarebbe stato difficile. Non sapevo ti sarebbe successo tutto questo.- mi si chiedeva di scegliere tra la mia carriera e lui. Tyler mi chiedeva di scegliere se passare le notti insonni sperando di potergli parlare per almeno qualche minuto al telefono oppure vivere una vita normale. Non mi ero nemmeno accorto di essere diventato uno qualsiasi dei suoi tanti fan.
E poi dissi la peggior cosa che avrei potuto dirgli.
-Sarebbe stato meglio non averti mai incontrato.- Vidi i suoi occhi marroni dai riflessi verdi sgretolarsi sotto il mio sguardo duro. Vidi i suoi occhi ritornare malinconici e tristi proprio come la prima volta che lo avevo visto. Mi sentii uno schifo ma non lo fermai quando lo vidi prendere le sue cose ed andarsene da quella che era diventata casa nostra.
 
Dopo tre mesi che non rispondevo più ai suoi messaggi arrivarono i fogli per il divorzio. Fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso, fu come sentire una parte di me staccarsi e rompersi per sempre. Non avrei mai immaginato che dalla foto di due occhi sarei arrivato a quello, non avrei mai potuto immaginato che si potesse amare una persona fino a quel punto. In fondo, però, non avevo alcun diritto di impedire a Tyler di realizzare i suoi sogni, sapevo che la musica era la sua vita come del resto la fotografia era la mia. La nostra storia, probabilmente, era stata solamente una fonte d’ispirazione momentanea o forse un semplice ostacolo in vista del nostro futuro.
Firmai ogni documento in silenzio. Le giornate erano tornate ad essere grigie. I colori erano tornati ad essere opachi e tutti uguali. Le fotografie non avevano più la giusta angolazione e i soggetti non erano più abbastanza emotivi. Non stavo bene, non stavo bene per niente e sentire quanto la band di Tyler stesse diventando famosa non faceva che trascinarmi sempre più verso il basso. Non c’era giorno in cui non mi passasse per la mente l’idea di tornare indietro, non c’era giorno in cui non provassi a mandargli un messaggio. Non lo facevo mai perché ero consapevole che se mi fossi riappacificato con lui tutto sarebbe ricominciato da capo e saremmo ritornati al punto di partenza.
 
Dopo quattro mesi da quando Tyler se ne era andato da casa e io mi ero trasferito nel mio vecchio appartamento, cominciai a frequentare un’altra persona. Non era nulla in confronto a Tyler, non aveva gli stessi occhi che sapevano da vissuto, non aveva la stessa mente brillante, la stessa bellezza magnetica. Fare sesso con qualcuno che non fosse Tyler mi fece sentire sporco, fu la sensazione peggiore della mia vita essere toccato da mani che non fossero le sue. Ancora ed ancora mi pentii di aver firmato per il divorzio ed ancora e ancora non feci nulla per tornare indietro.
 
Cominciai a non uscire più di casa. Il mondo non capiva. La fotografia, l’unica cosa che fossi in grado di fare non aveva più senso. Non mi era rimasto più niente. La mia esistenza non aveva più senso. L’occhio umano, la macchina fotografia, i premi che avevo vinto e che avevo appeso alle pareti, i miei lavori migliori sulle copertine delle riviste di fotografia più famose erano solo oggetti vuoti ed incorporei. Forse, era quello che mi meritavo.
 
Non so perché la vita mi diede un’altra possibilità.
Era un sabato sera, mi ricordo ancora ed ero sdraiato sul divano a guardare la tv. Quello era diventato il mio unico passatempo. Cambiai qualche canale distrattamente e solo quando capitai sul live di un concerto le mie dita si bloccarono. Si trattava di Tyler e la sua band, al Madison Square Garden. Un dolore familiare si impossessò del mio petto quando sentii la voce che un tempo era stata solo mia cantare al microfono davanti a migliaia di persone. Era la fine del concerto con ogni probabilità perché era veramente tardi. La canzone terminò e la folla proruppe in un boato. Si zittirono immediatamente quando Tyler cominciò a parlare ancora.
-L’ultima canzone di questa sera è una cover.- altre urla si levarono dalla gente.
-E’ una cover che non abbiamo mai suonato Live ma che dovevo cantare qui stasera perché- la voce gli morì in gola. La telecamera inquadrò i suoi occhi marroni dalle sfumature verdi. Erano lucidi, erano tristi, erano segnati da quelli che sembravano anni di sofferenze. Erano vecchi dentro. –Perché questa è la città in cui vive l’amore della mia vita e l’ho conosciuto grazie a questa canzone e ad un paio di occhi.-
Quando le parole di “Cancer” cominciarono a risuonare nello schermo del mio televisore la terra mancò da sotto i miei piedi. Per qualche minuto rimasi completamente immobile senza riuscire a fare nulla. Sentivo solo la musica, la sua voce, vedevo tutto quello che era successo, vedevo quello che avrei voluto succedesse. Qualcosa dentro di me esplose: una rabbia cieca si impossessò di me, mi pentii di avergli detto quelle cose, mi pentii di averlo lasciato andare. Solo in quel momento compresi che le mie foto non avevano senso se non era lui a dargli un senso. Come avevo anche solo potuto pensare di cercare di dimenticarlo? Con che presunzione avevo potuto darlo per scontato?
Mi infilai di corsa un paio di pantaloncini bianchi e una maglietta gialla con scritto “Bycicle doesn’t pollute” e mi lanciai fuori dal mio appartamento. Andai alla prima stazione della metro ma la persi quindi uscii in strada e cominciai a correre. Corsi più veloce che potei tra la gente che mi guardava malissimo. Superai incroci, percorsi interi isolati e rischiai di essere investito ma arrivai lo stesso al Medison Square Garden. Il concerto era appena finito e la gente stava già cominciando ad uscire. Cercai l’entrata per i backstage che conoscevo benissimo perché ero stato lì per la prima volta con Tyler. Mi si pararono davanti due uomini della security.
-Non può passare senza un pass.-
-No, voi non capite. Io devo passare tipo ora.- dissi col fiato corto e cercai di superare i due.
-E io le ripeto che ci sono tipo migliaia di fan la fuori in fila che aspettano che questi ragazzi escano, quindi aspetterai lì con loro.- lo guardai con lo sguardo più cattivo che mi riusciva. Io non ero un fan qualsiasi. Io ero suo marito, dannazione.
Cercai di calmare il mio cuore e di pensare ad una soluzione logica. Non ci riuscii.
Da giovane avevo fatto un po’ di boxe, me la cavavo anche bene, non sapevo se avrebbe funzionato ma valeva la pena provarci. Sferrai il destro più forte di tutta la mia vita sullo stomaco dell’uomo di destra. Fu così forte che sentii le ossa del polso scrocchiare. L’uomo si piegò in ginocchio e io ne approfittai per saltarlo e sgusciare dentro ai backstage. Sentii qualcuno urlare di fermarmi, altra gente rincorrermi e cercare di afferrarmi ma corsi come se fosse l’ultima cosa che avrei fatto nella mia vita, i polmoni minacciavano di scoppiarmi nel petto. Lessi di sfuggita i nomi sulle porte e mi fermai solo davanti a quella con scritto “Tyler Joseph”. Non riuscivo più a respirare. Stavo per collassare a terra ma non mi importava. Mi gettai letteralmente all’interno del camerino e lo vidi lì seduto sul divanetto in pelle. In testa il suo cappello rosso e un asciugamano intorno al collo. Lessi stupore e sorpresa negli occhi che mi avevano ossessionato da sempre e che non avevo mai smesso di amare. Non riuscii a dire nulla che subito mi sentii prendere da dietro e sbattere violentemente sul pavimento del camerino.
-Piccolo stronzo, adesso ti sbattiamo dentro per aggressione a pubblico ufficiale così ci penserai due volte prima di fare a scazzottate con uno della security.- il gomito dell’uomo sopra di me era piantato sulla mia spina dorsale mentre l’altra mano mi teneva la faccia pressata a terra.
-Lascialo.- sentii dire da Tyler e il mio cuore si riempì di una felicità malata non appena sentii la sua voce dal vivo ancora una volta. Cercai di alzare lo sguardo ma l’uomo sopra di me pressò ulteriormente la mia faccia sul pavimento.
-Ha tirato un pugno sullo stomaco ad un mio collega ed è entrato in un’area riservata. Non posso semplicemente lasciarlo.- mi sentii tirare per i capelli e fui costretto a sollevarmi. Finalmente i miei occhi poterono incontrare quelli di Tyler. Erano indecifrabili proprio come ogni volta che alzava le barriere contro il mondo. Proprio come quando non voleva che le sue emozioni fossero comprese.
Non gli chiesi scusa, a dire la verità non gli dissi una parola mi limitai a guardarlo dritto negli occhi. Come sempre. Mi sentii trascinare via e non opposi resistenza. Non abbassai nemmeno una volta lo sguardo, nemmeno quando mi portarono fuori dal backstage, nemmeno quando mi fecero salire sulla macchina della polizia sotto lo sguardo perplesso di tutti gli altri.
Passai tre ore nella cella comune del carcere di New York, poi qualcuno pagò la mia cauzione. Mi aspettavo di vedere Tyler fuori ad attendermi. Trovai gli altri due membri della sua band. Quando io e Tyler stavamo ancora insieme ero diventato molto amico dei due. Poi, c’eravamo semplicemente persi di vista. Mi fecero salire in macchina con loro.
-Tyler ci ha raccontato cos’hai fatto.- disse uno.
-Noi conosciamo sia te che Tyler, anzi conosciamo lui ancora meglio.- continuò l’altro.
-Lasciaci andare dritti al punto. Se sei qui per sparire di nuovo fallo subito perché l’ultima volta Tyler ne è uscito distrutto. Mentre eravamo in tour ha provato ad uccidersi per te. Abbiamo dovuto cancellare le date perché non riusciva nemmeno a reggersi in piedi. Lasciarti lo ha devastato.- una stretta allo stomaco mi impedì di respirare. Solo in quel momento mi resi conto di quanto egoista ero stato. Solo in quel momento capii che gli occhi di Tyler avevano chiesto fin subito aiuto, un aiuto che io non gli avevo fornito ma anzi lo avevo affogato ancora di più nell’abisso.
-Quindi, Josh, pensaci attentamente questa volta, fallo per lui se lo hai mai amato.- la macchina si fermò all’improvviso. Scesi e mi trovai di fronte ad un albergo. Mentre salivo le scale insieme agli altri due non pensai veramente a quello che sarebbe potuto succedere dopo. La mia mente era vuota, non riuscivo a pensare a nient’altro se non a Tyler che provava ad uccidersi. Per colpa mia.
Entrai nella stanza numero 215. La porta era aperta. Gli altri non mi seguirono. Mi diedi un’occhiata in giro ma di Tyler nemmeno l’ombra. Lo trovai solo dopo cinque minuti buoni, era fuori, seduto sulla ringhiera del piccolo terrazzino. Lasciava le gambe a penzoloni davanti a lui. Il suo sguardo si puntò su di me non appena si accorse della mia presenza. Soppesai ogni passo e mi fermai solo quando fui a poco più di mezzo metro da lui. Decisi che era così che doveva andare.
-Tutto bene?- lui non rispose subito.
-Sto guardando la Luna.- spostai i miei occhi verso il cielo e lo scoprii più scuro di quanto mi aspettassi. La Luna piena sembrava dovesse essere inghiottita dall’oscurità da un momento all’altro.
-Posso fare una foto ai tuoi occhi?- gli chiesi e lui non si mosse subito. Lo vidi fare un respiro profondo e poi scendere dalla ringhiera ed arrivare vicino a me. Non avevo il suo corpo così vicino al mio da quasi un anno. Faceva così dannatamente male. Presi una boccata del suo profumo che sapeva di alberi e di silenzi.
-Perché?- mi chiese e riuscii a sentire il suo fiato caldo sul mio collo.
-Perché una volta ho fatto la foto di un paio di occhi e quegli occhi hanno cambiato il mio mondo…lo stanno cambiando.-
-Una volta hai detto che sarebbe stato meglio non averli mai visti quegli occhi.- mormorò e la voce gli tremò ma non abbassò lo sguardo. Non smise un secondo di fronteggiarmi con fierezza.
-Quegli occhi sono stati gli unici a dare un senso alle mie fotografie.-
-Ok.- disse semplicemente e io feci uno sforzo enorme per estrarre il cellulare dalla tasca. Le dita mi tremavano mentre premevo sulla fotocamera. Non ero più abituato ai semplici gesti del fotografo, la mia mano non era più così ferma. Cercai di mettere a fuoco come meglio potevo e scattai una foto ai suoi occhi.
-Cosa sta per succedere nella foto?- mi chiese.
-Sto per dirti che sei sparito dalla mia vita troppe volte, non ti lascerò andare mai più.- risposi e cercai le dita della sua mano.
-Mai più.- le nostre dita si intrecciarono.
-Mai più.-
 

Ogni singola persona vivente in questo Pianeta ha due singoli occhi unici. Dentro questi occhi si nasconde un Universo. Da piccolo capii che la macchina fotografica era strutturata proprio come l’occhio umano. Le immagini prendono forma attraverso la luce che passa nella lente. E così cominciai a fotografare il maggior numero di occhi. Sono Joshua Dun e sono il fotografo ufficiale di una band composta da tre ragazzi. Con il passare del tempo ho capito che la fotografia non è un semplice atto meccanico in cui le immagini prendono forma attraverso la luce che passa nella lente. La fotografia è di più: è dare un senso all’immagine, è sentimento, è intrappolare un momento, incastonarlo nella memoria e farlo diventare parte della propria anima. La fotografia è trovare l’ispirazione grazie alla giusta angolazione e il soggetto perfetto. Dopo quasi quattro anni io sono riuscito a scoprire il senso di tutto e non lo lascerò andare mai più perché a volte, quello che ci serve è proprio sotto ai nostri occhi e noi, semplicemente, non ce ne rendiamo conto.
  
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