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Autore: _Frame_    27/11/2016    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Rinfrescatina di memoria! Il flashback della battaglia di Inghilterra è ambientato nel piccolo arco che è andato dal capitolo 39 al capitolo 41. Per intenderci, quelli del drago e del troll (xD).

Buona lettura!

 

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104. Il re e I suoi sudditi

 

 

Diari di Danimarca

 

Era dannatamente frustrante. La sconfitta al Nord, l’occupazione dei nostri paesi, la sottomissione ai crucchi, l’idea di essere ingabbiato e trattato come una marionetta da tirare fuori dall’armadio solo quando ne hai bisogno, e soprattutto la separazione a cui eravamo tutti forzati. Tutto bruciava come un diavolo di palo infuocato ficcato su per lo stomaco. Per essere fini di linguaggio, no?

All’inizio ero incazzato. Semplicemente incazzato. Incazzato con me stesso per non essere stato abbastanza forte da proteggere Fin durante la guerra al Nord, per aver permesso a Russia di portarselo via, per non essere riuscito a rimanere freddo e lucido come Svezia che aveva accettato di fare la cosa giusta, seguendolo senza sollevare troppi casini, e per essermene stato immobile a guardare anche mentre Inghilterra ci strappava via pure Islanda, separandolo dalla sua famiglia e da suo fratello. Sentivo un fiume di lava scorrermi dentro al posto del sangue. Se avessi avuto una pentola a pressione al posto della testa, probabilmente mi sarei messo a fischiare fumo dalle orecchie.

Quella è stata un’umiliazione. L’umiliazione più grande che noi nordici ci siamo mai ritrovati ad affrontare come gruppo – come famiglia. La sconfitta di per sé non sarebbe stata insopportabile da affrontare, se fossimo rimasti uniti a sorreggerci e a farci coraggio a vicenda, ma quei dannati bastardi hanno osato dividerci!

Finlandia e Svezia erano via, Islanda era stato trascinato dall’altra parte del campo. Dopo tutto questo, è ovvio che sia io che Nor abbiamo finito per cedere. Eravamo a pezzi, senza più nemmeno un briciolo di energie fisiche e mentali per resistere all’invasione. È stato tremendo.

Poi, sì, tutti e due pensavamo che sarebbe finita così, che avremmo dovuto limitarci a starcene buoni buoni a casa nostra e ad aspettare, guardando il mondo fatto a pezzi dagli altri idioti.

Venne l’estate. Germania decise che era il momento di invadere Inghilterra, e a quanto pare aveva bisogno di noi.

La prima cosa che pensai fu: “Wow, ma mi pigli per il culo? Prima ci dividete e poi anche ci costringete ad ammazzarci fra di noi?” Ovviamente non gliene fregava niente. Voglio dire, eravamo in guerra, e non è che uno si mette lì a pensare a cosa fare e a come fare della serie: “Oh, poverini. Poveri, poveri prigionieri di guerra. Ora farò di tutto in modo che soffriate il meno possibile, che rimaniate per sempre al sicuro, senza farvi del male...” Ma cazzo! Islanda era sotto la protezione di Inghilterra. Come potevo attaccare l’unica nazione che contribuiva a tenerlo al sicuro? C’era la possibilità di riconquistare Islanda e di farlo passare dalla nostra parte, è vero, ma proprio non ci pensai, non mi saltò nemmeno in testa. Poi, farlo passare dalla parte di Germania avrebbe significato vederlo stretto alle stesse catene che imprigionavano me e Nor. Forse, era davvero meglio che stesse con Inghilterra piuttosto che finisse in ginocchio e umiliato come noi due.

Lo ammetto, va bene, il primo motivo che mi ha impedito di combattere dalla parte di Germania è stato il mio orgoglio. L’idea di essere usato come una mera pedina... No, dannazione, non mi andava proprio giù! Piuttosto avrei preferito essere ammazzato lì di colpo.

Pensavo di stare facendo una scelta coraggiosa, pensavo che in questo modo mi sarei fatto valere, che avrei dimostrato di essere ancora una nazione viva. La verità è che Nor è stato mille volte più coraggioso di me nel decidere di combattere per Germania. All’inizio non lo capivo, ero incredulo, indignato. Come poteva combattere per le stesse nazioni che lo avevano sottratto a suo fratello, che avevano distrutto la nostra famiglia? Ma lui è stato più forte di me. Si è fatto coraggio e ha affrontato la realtà dei fatti che a me faceva così tanta paura: né io né lui potevamo farci nulla, e combattere era forse l’unica soluzione per non scordarsi di essere vivi.

Quella volta sbagliai, lo... lo ammetto – Dio, se mi brucia ammetterlo – e la cosa peggiore fu che mi accorsi di aver sbagliato tutto proprio quando mi ritrovai a stringere il corpo di Nor, dopo che si era sacrificato ed era stato sconfitto da Inghilterra. Anche se dopo sparai tutta la mia rabbia imbastendo quel discorso sul non arrendersi anche se si ha perso tutto, penso ancora che in realtà me la stavo prendendo con me stesso e non con Inghilterra o con Germania. Non ero riuscito a sostenere Nor nella sua decisione, e ora pagavo il prezzo di vederlo fatto a pezzi, mentre io stavo bene.

Dopo quel combattimento di agosto – era agosto, vero? Sì? Sì, era agosto – passò un mese prima dell’ultima battaglia su Londra. Trascorsi quelle settimane stando solo vicino a lui, a tenergli la mano, ad asciugargli la fronte quando si agitava nel sonno, e per fortuna si rimise in sesto prima dell’ultimo scontro di settembre. Dormii pochissimo. Ricordo che ogni tanto mi sdraiavo nel letto vicino a lui, che gli tenevo stretta la mano, e che gli dicevo: “Ti prego, puoi farcela, non mollare”, con la costante paura addosso che non si potesse mai più... Guarda, non voglio nemmeno pensarci.

Durante quelle notti insonni in cui vegliavo solo su di lui, però, ebbi modo di discutere seriamente con me stesso.

Non volevo più vedere Nor ridotto in quelle condizioni, non volevo mai più vedere Fin piangere di disperazione davanti ai miei occhi, non volevo più vedere soffrire nessuno di noi. Io ero il capo, dannazione, non potevo permettermi di rimanere impassibile davanti a cose del genere! Ero io che avrei dovuto proteggerli, ero io che avrei dovuto sostenerli, che rimanere sempre forte abbastanza da tirarli fuori dai guai. E ora ero impotente, messo all’angolo, umiliato e con le catene ai polsi. E la cosa mi fa ancora parecchio incazzare, per la cronaca! Merda, se avessi in mano la mia ascia giuro che farei a fette il muro e –

Allora decisi di farmi avanti. Restare in disparte mi era sembrata fino a quel momento la scelta più azzeccata. All’inizio pensavo che una sorta di ribellione contro Germania mi avrebbe permesso di conservare almeno quel briciolo di dignità che mi permetteva di guardarmi allo specchio, ma a quanto pare non è stato così. “Perfetto,” mi dissi. “Se non è questa la soluzione, allora buttiamoci nel conflitto. Quanto mai potrà cambiare la situazione? Più nella merda di così non potremo di certo finirci.” E poi la vita tornò a venirci addosso come un calcio dritto nelle palle.

Sembrava quasi uno scherzo.

Avevo deciso di mia volontà di non aiutare Germania per far valere il mio orgoglio da nazione, e Nor ci era andato di mezzo da solo, soffrendo, e facendomi stare ancora più male di come mi sentivo. Poi decisi di darmi una mossa, di farmi avanti io – sempre per far valere il mio orgoglio da nazione! –, di pormi di mia volontà davanti a Germania per non far succedere mai più una cosa del genere davanti ai miei occhi. Passarono giusto pochi mesi dalla dichiarazione che gli feci a dicembre, e la catastrofe decise comunque di pioverci addosso.

Hai presente, no? Quelle situazioni in cui non hai nemmeno la forza di disperarti, di prendertela con qualcuno, nemmeno con te stesso.

Fu devastante. Durante la guerra, a quanto pare, non ne feci davvero una di giusta.  

Gran bel Re del Nord che sono stato. Proprio grande.

 

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13 agosto 1940

 

Belgio precipitò discendendo la camera di comando, picchiò le ginocchia a terra, parò il colpo aprendo le mani sul pavimento e sbatté una spalla a terra, “Ghn!”, i capelli scivolati in avanti le coprirono il viso contratto in una smorfia di dolore e spavento che le fece tremare le labbra ristrette. Lei fu l’ultima a cadere. Nelle orecchie ronzavano ancora i suoni dello schianto, dei rombi delle esplosioni e dei ruggiti delle due creature. I polsi pizzicavano, sottili segni rossi le macchiavano la pelle sotto le maniche della giacca.

Belgio scosse il capo facendo dondolare i capelli sulle spalle, tirò su la schiena facendo leva con il gomito e si coprì la bocca. Diede due colpi di tosse, “Coff, coff!”, e si massaggiò il braccio nel punto in cui aveva sbattuto a terra.

Una mano le cinse il braccio, la raccolse delicatamente e la aiutò a mettersi sulle ginocchia. Belgio fece solo in tempo a scostare una ciocca di capelli e a sollevare lo sguardo sul profilo di Olanda che un’altra mano la aiutò con l’altro braccio.

La voce di Francia accanto a lei ruppe il silenzio della camera sotterranea. “Tutta intera?”

Belgio sollevò la gamba che ancora traballava un po’, il muscolo debole e il ginocchio dolorante, e premette il piede a terra. Rivolse a Francia un sorriso rassicurante. “Sì, grazie.” Si mise su entrambi i piedi, e Olanda e Francia la sorressero fino a che non smise di oscillare. Belgio si spolverò i pantaloni dalla polvere. “Non mi sono fatta niente.” Lanciò un’occhiata preoccupata a entrambi, sollevò le sopracciglia. “Voi?”

Olanda le sfilò la mano dal braccio e annuì. Francia si pettinò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e impennò il pollice, strizzò l’occhiolino nonostante il viso ancora un po’ pallido e gli occhi meno luminosi del solito.

Belgio sospirò, si posò una mano sul cuore alleggerito dal sollievo, ma un’altra voce rimbalzò nel silenzio della camera.

“Ehi, Nor.”

Belgio, Olanda e Francia voltarono gli sguardi nella penombra, nel punto da dove era arrivata la voce di Danimarca.

Danimarca si tirò sulle ginocchia, si appese con una mano al bordo del tavolo di comando e strinse l’altro braccio attorno al corpo di Norvegia raccolto contro il suo grembo. Il viso bianco, i capelli spettinati sulla fronte e incollati sulle guance, le palpebre abbassate e annerite, tremanti come il respiro flebile che sibilava fra le labbra socchiuse.

Danimarca aveva ancora il fiatone, gli occhi colmi di paura che vacillavano nella penombra, e il viso ancora rosso di rabbia dopo la sfuriata sbraitata contro Inghilterra. Scostò i capelli dalla fronte di Norvegia, sudata e pallida, e gli tenne la mano sulla guancia che scottava. “Norge, tieni duro, non mollare.” Gli fece un’altra carezza sulla guancia con le nocche, e gli diede una scossetta di incoraggiamento attorno alle spalle. “Adesso ti porto via.”

Un respiro più profondo fece tremare il corpo di Norvegia. Il viso si strinse in una contrazione di dolore, gli occhi strizzati vibrarono, fra i denti serrati scivolò un singhiozzo di respiro che rimase soffocato in gola, contraendogli il petto. Le sue dita strinsero sulla manica di Danimarca. Bianche e sottili, ancora brillanti di sudore e macchiate dell’aura viola che stava sbiadendo.

Danimarca sentì tutto il dolore di Norvegia riversarsi in lui, forte e violento come un pugno nello stomaco che sprofonda nella carne e pugnala le viscere, attraversando il cuore da parte a parte e scavando un vuoto nel petto.

Danimarca accoccolò Norvegia contro di sé, gli tenne il capo accostato alla sua spalla, le labbra fra i capelli. “Mi dispiace,” sussurrò. Il nodo di dolore, rabbia e frustrazione gli salì in gola, bloccò il respiro. Chinò la fronte e mormorò di nuovo accanto alla sua guancia. “Mi dispiace tanto.” Una fredda ondata di rimorso schiacciata sulle spalle lo fece tremare assieme a Norvegia.

Belgio flesse le sopracciglia in un’espressione avvilita, un riflesso di compassione le luccicò negli occhi, le fece stringere la mano sul cuore. Mosse un primo passo traballante, sentiva i muscoli dei polpacci ancora pesanti come sacchi di sabbia, e si avvicinò a Danimarca. Chinò le spalle, le mani sulle ginocchia, e indicò Norvegia con un gesto del capo. “Come sta?”

Danimarca si sforzò di sorridere. Fu un sorriso buio, amaro e doloroso. “Starà benone.” Gli passò la mano che ancora tremava lungo il profilo della guancia, gli tolse una ciocca di capelli dagli occhi chiusi e gli aprì il palmo sulla fronte che già scottava. Annuì come per convincere se stesso. “È forte, si rimetterà presto.”

Belgio sospirò, posò una mano sulla spalla di Danimarca e abbassò la voce, divenne un sussurro. “Mi dispiace per quello che è successo,” confessò. “Se avessimo potuto fare qualcosa per lui, noi...”

Danimarca scosse il capo. “Non dipendeva da voi.” Strinse Norvegia a sé, un braccio attorno alle sue spalle e una mano dietro la nuca. “Ora devo stargli vicino io,” una fitta di dolore lo fece esitare, “più di quanto non sia riuscito a fare in battaglia.”

Belgio annuì con un gesto lento e stanco. Fece scivolare la mano dalla spalla di Danimarca e la raccolse in grembo. Capì.

Un’ombra sfilò attraverso il muro, aggirò il tavolo di comando, fece un passo zoppicante, si appoggiò al banco chiudendo le dita scricchiolanti attorno all’orlo, e riprese a camminare dopo un respiro basso e profondo. Il profilo di Germania si infilò nella penombra. Gli occhi infossati di stanchezza, celati dalle punte dei capelli in disordine, opachi come lenti sporche e rossi agli angoli delle palpebre, puntarono la porta della camera.

Lo sguardo di Danimarca scattò su di lui, si accese come una miccia, rughe di rabbia gli infossarono la fronte, arricciarono la punta del naso e gli fecero digrignare gli angoli della bocca. Stomaco e petto finirono divorati da fiamme di ira più scottanti di quelle che bruciavano ancora attorno ai polsi.

Danimarca tenne riparato il viso di Norvegia e buttò un ginocchio in avanti, si espose verso Germania. “Dove credi di andare?” abbaiò.

Francia sollevò il mento e lo guardò di sbieco, l’espressione distesa ma ancora affaticata, Olanda inarcò un sopracciglio, e Belgio si posò la mano sulla bocca, ebbe un piccolo sussulto.

Germania fermò il passo accanto alla porta. Un pugno ancora stretto al muro, i muscoli gonfi e tremanti, le spalle chine ma larghe e che fremevano a ogni respiro, e il viso scuro. Non si girò nemmeno a guardarlo.

Danimarca strinse i denti, trattenne il fuoco nella pancia. “Lui ti salva la vita ed è così che lo ripaghi? Nemmeno aiutandolo a tirarsi in piedi?” Aggrottò la fronte, chiuse le braccia attorno a Norvegia e il conato di rabbia gli ingroppò un nodo in gola, lo spinse a gridare di più, fino a sentire le guance bruciare. “Ed è per una nazione come te che dovrei accettare di combattere?”

Germania prese altre due boccate di fiato. Anche lui aggrottò la fronte, i capelli spettinati e incollati alla pelle sudata nascosero il lampo di rabbia che gli attraversò gli occhi. Il pugno poggiato al muro strinse e le nocche scricchiolarono sul cemento. “Se mi stai accusando di essere il diretto responsabile di quello che è capitato,” altro boccheggio, “ti consiglio di rivedere le tue posizioni.”

Danimarca sgranò gli occhi, disgustato. “Le mie posizioni?” Sfilò un braccio da Norvegia e lo gettò in disparte, la mano spalancata e il polso sfregiato scoperto. “Non sono io a tirare le catene!”

“Ma sei tu a fare resistenza.” Germania voltò la guancia, ma metà del volto rimase oscurato nella penombra. Il suo sguardo raggelò la camera, l’aria divenne fredda e intensa, come soffiata da una lastra di ghiaccio. “Norvegia ha deciso di combattere di sua volontà, prendendo il ruolo che tu hai rifiutato di assumere. Se tu avessi deciso di combattere al posto suo, ora lui non sarebbe ridotto in quello stato.”

Danimarca inspirò fra i denti. “Tu...” Chinò la fronte, trattenne l’impulso di saltare in piedi e di piantargli un cazzotto in mezzo agli occhi. “Tu ti stai semplicemente nascondendo dietro di noi! Senza di noi... senza le nostre forze tu non saresti niente, perciò non osare venirmi a dire che –”

“E com’è che ho ottenuto le vostre forze, secondo te?”

Danimarca ammutolì, la bocca restò socchiusa, paralizzata, e gli occhi ancora larghi e lucidi di rabbia.

Germania fece scivolare il pugno lungo la parete, più su della spalla, e raddrizzò la schiena. Si passò la mano fra i capelli e fece un sospiro che gli distese l’ombra sul volto, gli calmò la voce. “Non l’ho forse fatto conquistandovi?” disse. “Non ho forse sfruttato le mie capacità per ottenere in cambio quelle degli altri e integrare la mia potenza?” Squadrò anche gli altri, occhiate fulminee. “Se voi foste riusciti a preservare la vostra libertà, non vi trovereste in questa situazione.”

Francia, Belgio e Olanda allontanarono gli sguardi. Francia si massaggiò un polso e arricciò una smorfia infastidita, punto anche lui da uno spillo di frustrazione.

Germania tenne lo sguardo in ombra, tornò a rivolgersi a Danimarca. “Sei tu che stai nascondendo la tua debolezza dietro la mia forza.” Si scollò dal muro, raggiunse la porta e si appese alla spranga di ferro che la sigillava alla parete. Flesse il gomito, diede una spinta verso di sé e la aprì trascinando un cigolio metallico. Schiuse la porta, entrò un fascio di luce più chiara che gli scivolò lungo la spalla, brillò sulla guancia lucida di sudore, si racchiuse fra le palpebre assottigliate in un’espressione affilata. Germania sollevò il mento, i suoi occhi freddi brillarono di una sfumatura crudele. Quello sguardo trafisse l’aria come un ramo di elettricità e penetrò in un brivido fin dentro le ossa di Danimarca. “Impara a rivalutare te stesso, prima di mettere bocca sulle azioni degli altri.” Scivolò via dall’ombra della camera e i suoi passi scomparvero lentamente, gli sguardi di Francia e di Olanda sbirciarono di traverso.

Le ultime parole ronzarono nella testa di Danimarca come un fitto e nero sciame di insetti pungenti. “Se voi foste riusciti a preservare la vostra libertà non vi trovereste in questa situazione, impara a rivalutare te stesso prima di mettere bocca sulle azioni degli altri, sei tu che stai nascondendo la tua debolezza dietro la mia forza.”

Danimarca schiacciò un pugno a terra reggendo Norvegia con un braccio solo, e si gonfiò il petto fino a sentire i polmoni andare a fuoco. Gridò contro la porta. “Figlio di –”

La mano di Norvegia gli arpionò il bavero della giacca. “Chiudi la bocca,” rantolò.

La fiamma si ritirò, gli occhi di Danimarca tornarono limpidi, colmi di un dolore liquido, e incrociarono il viso di Norvegia che lo stava fulminando dall’ombra. Norvegia gli staccò la mano dal colletto, scivolò di fianco, sgusciando via dalle sue braccia, e cadde con le ginocchia a terra, un braccio piegato davanti al petto e la fronte a sfioro del pavimento.

Danimarca scattò di nuovo in allarme. “No, fermo,” balzò con le mani verso le sue spalle, “non puoi alzarti, sei...”

Norvegia gli cacciò via la mano. “Falla finita.” Prese due respiri affannosi, il corpo vibrò come una corda di violino pizzicata, dal volto bianco di dolore e fatica gocciolarono sottili perle di sudore che brillarono sulle labbra e in mezzo alle ciglia socchiuse. Norvegia si resse il petto stando piegato su un braccio solo e rivolse a Danimarca quegli occhi febbricitanti e carichi di una rabbia gelida e grigia. “Credi che non sappia assumermi il peso delle mie scelte?”

Danimarca esitò. Quell’occhiataccia arrivò come una lama di coltello che trapassa il battito del cuore.

Belgio corse a chinarsi verso Norvegia, anche Olanda la seguì. “Aspetta,” disse lei, “ti aiutiamo.”

Entrambi lo aiutarono a tirarsi su. Norvegia li lasciò fare senza guardarli in faccia, ancora assalito da quei brevi tremori a singhiozzo che gli facevano vacillare le ginocchia. Olanda lo resse contro il fianco, Belgio gli tenne la mano, e lo portarono fuori dalla camera di comando.

Danimarca gettò lo sguardo a terra, rimase chino, gattoni, con il fuoco che ricominciava a ribollirgli nella pancia. I passi di Francia si avvicinarono a lui, la sua mano scese e gli batté due volte sulla spalla. “Io gli darei ascolto.” Francia indicò le ombre dei tre che se ne stavano andando. “Abbi un po’ più di fiducia in lui.” Si rialzò e uscì anche lui.

Danimarca rimase solo. Morsicò il labbro inferiore fino a sentire la carne vibrare e assumere il viscido sapore di ferro, bollente come la sensazione che gorgogliava nelle viscere e nelle vene, fumando fino alla testa. Cadde a sedere, il respiro rimbalzò fra i denti, e il senso di frustrazione e impotenza si appesantì nello stomaco, come se avesse inghiottito un pugno di ghiaia. Danimarca strinse i pugni a terra, le nocche schiacciate al pavimento tremarono come la sua schiena, come il suo sguardo incollato alle ombre degli altri che si stavano allontanando, specchiate sul lucido delle piastrelle. Inspirò forte dal naso, dalla bocca morsicata sgusciò fuori un breve mugugno di rabbia che gli fece infiammare il viso e gli occhi.

Sollevò un pugno dal pavimento, schiuse le dita, rivolse il palmo al soffitto, e le ombre della camera di comando si incresparono fra le pieghe della pelle ancora bianca per la tensione in mezzo a cui si vedevano le sottili vene blu ramificare verso le falangi e verso il polso lacerato, lucido e sporco di sangue.

Danimarca abbassò lo sguardo, il peso di vergogna gli colpì la nuca come una mazzata.

Non riuscì a guardare la mano che non era stata in grado di proteggerlo.

 

♦♦♦

 

dicembre 1940

 

Una spira di vento trascinò i fiocchi di neve sopra la mano aperta di Danimarca. L’aria fredda e pungente soffiò in mezzo alle dita arrossate, toccò le cicatrici bianche scavate attorno ai polsi, e depositò briciole di ghiaccio sulla pelle del palmo. Si sciolsero subito in piccolissime goccioline d’acqua che riflessero il colore grigio del cielo e quello verde, nero e bianco degli alberi innevati. Danimarca strizzò e riaprì la mano intorpidita dal freddo, le falangi scricchiolarono, le nocche sbiancarono nello sforzo, e agitò le dita facendo traballare la caduta di neve che gli danzava attorno. Sospirò. Soffiò fuori dal petto il peso che premeva sullo sterno e che gli schiacciava le spalle, la soffice e candida nube di condensa si sciolse pizzicandogli il naso e le guance, gli offuscò la vista lasciandogli un senso di vuoto nello stomaco.

Danimarca tirò le maniche del cappotto fino a metà palmo, coprendosi i segni bianchi che si erano cicatrizzati sui polsi, e infilò le mani nelle tasche. Si strinse nelle spalle e soppresse un brivido. Il lento sibilo del vento gli soffiò dietro le orecchie, pungendole, e gettò una spolverata di neve contro il collo scoperto.

Il primo passo scricchiolò sul suolo ghiacciato, spremette sotto la suola le foglie secche e congelate – crush! – che si sbriciolarono come sottili lastre di vetro, e la sua camminata proseguì attraverso il sottobosco innevato. Il vento ululò ancora, gli passò in mezzo ai capelli, si infilò sotto la stoffa del cappotto punzecchiandogli la pelle, e agitò i rami spogli che frusciarono sopra di lui. Sottili cristalli viola scivolarono trasportati dall’aria, come lucciole, e si mescolarono ai fiocchi di neve in un nastro fatto di polvere brillante. Danimarca sollevò lo sguardo, sbatté le palpebre e seguì con gli occhi il volo delle briciole di cristalli viola. Si dispersero nell’aria come le piume di un soffione, svanirono come sabbia gettata al vento, e l’alone viola sfumò verso un’ombra che se ne stava in piedi sotto i fusti degli alberi neri spogli.

Norvegia sollevò le mani davanti al petto, le rivolse alla cima dei rami, distese le falangi e il vento brillante di viola e di argento fece dondolare le maniche attorno ai polsi, spiraleggiò attorno alle punte delle dita nude, senza guanti, scoppiettando in scintille di un viola più chiaro che si sbriciolarono appena toccato il fusto dell’albero. Macchie di neve si incrostavano alla corteccia nera e umida, i cristalli di ghiaccio si depositavano sulle estremità dei rami formando luminosi boccioli bianchi. Norvegia si girò di profilo per rivolgere le mani a uno dei rami che sporgeva di più, inclinato verso il basso per il peso della neve che si era raccolta in mezzo all’estremità a forma di forca. Il vento disegnò un piccolo turbine attorno ai suoi polsi coperti dalle maniche, si inspessì all’interno dei palmi leggermente chiusi a coppa, risalì le dita che palpavano l’aria come stessero pigiando sui tasti di un pianoforte invisibile, e spinsero una soffiata di scintille viola verso l’alto, davanti al suo viso rivolto al cielo annuvolato. Il vento scosse le punte dei capelli sul suo viso piatto, davanti alle orecchie e sulle guance, le ciocche sfiorarono le labbra e gli occhi socchiusi che riflettevano il colore smorto e grigio della mattinata.

Danimarca si fermò. Rimase sotto l’ombra di uno degli alberi senza farsi vedere.

Norvegia restrinse le punte delle dita, flesse le prime falangi facendo diventare le nocche e le unghie bianche, increspò le estremità delle sopracciglia, gli occhi si fecero ancora più scuri, e un grumo di scintille viola si addensò all’interno dei palmi, scoppiettando a contatto con la pelle. Stese di nuovo le dita, allungò le braccia, e l’energia viola si accese attorno alle sue mani come la fiamma che si innalza da una candela. Le mani si contrassero, l’energia si spense, e Norvegia storse una smorfia pizzicandosi il labbro inferiore. Ritirò le braccia e abbassò le spalle, e irrigidì le dita che divennero dure e contratte come i rami dell’albero sopra di lui. Infilò una mano sotto l’orlo della manica, si strofinò il polso. L’espressione sbavata di dolore divenne grigia come i suoi occhi. Norvegia massaggiò il polso con movimenti circolari, da sotto la manica scostata sbucarono le cicatrici bianche e profonde incavate nella carne attorno alle ossa e ai tendini, dalla pelle pallida e sottile come carta emersero le vene gonfie e pulsanti per lo sforzo. L’aura viola sbiadì. La fiamma della candela si spense.

Danimarca impietrì. Dallo stomaco salì un conato di rimorso e dolore che gli riempì la bocca di un sapore amaro. Si strofinò anche lui un polso, chinò lo sguardo in mezzo alla neve e agitò le dita in aria, sciogliendo la sensazione di quel giorno, di quando aveva tenuto fra le braccia il suo corpo freddo e tremante di dolore. I polsi gli bruciarono come se avesse avuto ancora le catene a grattare e a scavare sangue e carne fino alle ossa.   

Norvegia sfilò le dita da sotto la manica. Passò un soffio di vento che gli graffiò la faccia, e le guance impallidite ripresero una spolverata di colore. Tornò a sollevare lo sguardo, storse lievemente un angolo della bocca in una smorfia scocciata, e gli occhi persero la scintilla di dolore che li aveva ristretti, tornarono opachi e spenti. Abbassò le maniche, coprì i polsi, e stuzzicò l’aria davanti al petto. Altre scintille di un viola più pallido nacquero in mezzo alle sue dita, si spansero in aria assieme alla neve e volarono via, dissolvendosi.

Danimarca prese un respiro di incoraggiamento, fece un passo in avanti calpestando un grumo di neve più soffice – frush – sfilò una mano nella tasca e la sventolò davanti alla spalla. Un gesto molle e avvilito. “Ehi.”

Norvegia ruotò la coda dell’occhio, fermò le dita abbassando l’aura viola attorno alle mani, e gli lanciò uno sguardo scuro. Gli fece un cenno col mento, “Ehi”, e tornò a spostare gli occhi sulle sue mani che tastavano l’aria spargendo polverina viola.

Danimarca rinfilò la mano nella tasca, si strinse nelle spalle e gli si avvicinò. Gli rivolse uno sguardo preoccupato, gli occhi più avviliti e lucidi. “Non vieni dentro?” Parlò senza fare condensa. Le labbra si mossero dentro il bavero della giacca tirato fin sotto la punta del naso. “Sei fuori da questa mattina.”

Norvegia scosse il capo. “Resto ancora un po’ qui.” Capovolse la mano destra, restrinse le dita e raccolse una soffiata di fiocchi di neve che si agitarono in mezzo alle punte senza depositarsi. Chiuse ancora la presa e le scintille viola riapparvero sopra il palmo, si mescolarono ai fiocchi candidi e il piccolo vortice accelerò, ingrossandosi. Norvegia stese le dita, gettò la manciata di polvere viola e bianca verso il ramo dell’albero e il braccio si contrasse, le vene si gonfiarono, salirono in rilievo e batterono sulla pelle cicatrizzata. Un’altra minuscola smorfia di dolore e frustrazione gli storse la punta del naso, lo fece sussultare in mezzo ai denti stretti.

Norvegia abbassò il braccio, diede le spalle a Danimarca e si massaggiò il polso sotto la manica. L’aura viola si sciolse assumendo un colorito grigio e spento come quello nei suoi occhi. 

Danimarca strinse i pugni dentro le tasche e rivolse uno sguardo preoccupato alla schiena di Norvegia, soppresse la fitta di dolore ai polsi che risalì le ossa. “Non ti sforzare troppo.” Fece un passetto cauto dietro di lui. “Sono i primi freddi di stagione e tu non ti sei ancora ripreso.”

Norvegia si guardò le mani puntinate di goccioline di neve sciolta. L’espressione rimase piatta, ma un lampo di disappunto gli attraversò gli occhi socchiusi. “Non è del freddo che mi preoccupo.” Gettò un’altra manciata di polvere e le dita sbiancarono, si contrassero di nuovo, e tornarono ad arricciarsi verso il palmo. Norvegia si prese di nuovo il polso e sbuffò, più arrabbiato che dolorante.

Danimarca non riuscì a guardare, si girò e si strofinò la nuca, nascondendosi il volto dietro il profilo del braccio. “Se solo non avessimo partecipato alla battaglia su Londra...”

Norvegia scosse la testa. “La battaglia su Londra non mi ha fatto nulla.” Fece scivolare la mano da sotto l’orlo di stoffa e rigirò entrambi i palmi davanti al viso. Inasprì il tono, ma il viso rimase vuoto e spento. “È colpa mia per aver ceduto durante quella sulla Manica.”

Danimarca vide i ricordi scorrere davanti al suo sguardo, le immagini rimbalzarono fra loro due, trascinate da una gettata di neve, buie e cupe come il cielo spaccato dai rami degli alberi. Gli occhi feroci di Inghilterra che vedevano da dietro il sangue trasudato dalle palpebre, l’ultimo colpo caricato dal braccio flesso, stritolato in mezzo alle dita contratte, e le schegge rosse esplose contro quelle viola, l’esclamazione che aveva fulminato tutti e due. “E Islanda?” E infine l’esplosione di energia che aveva gettato Norvegia direttamente fra le sue braccia.

Il vento soffiò via, sbriciolò le immagini dei ricordi facendo tornare il panorama grigio e bianco, spolverato di neve e offuscato dal freddo.

Norvegia distese le sottili rughe di cruccio, ma il viso rimase grigio e freddo come nebbia, gli occhi vuoti. “Da ora in poi non mi lascerò più confondere in quella maniera.”

Danimarca scosse il capo. “Non è stata colpa tua. Io...” I polsi tornarono a bruciare. Sfilò le mani dalle tasche, tirò su gli orli di stoffa e grattò le cicatrici come a scarnificare un esercito di formiche in marcia dentro le vene. “Io sarei dovuto intervenire al posto tuo e...”

“Dacci un taglio,” ribatté Norvegia, il tono calmo e gelido. “Quella di combattere è stata una mia scelta.”

Danimarca strinse i denti, trattenne il fiato sentendo salire il formicolio dai polsi al petto, la bocca vibrò facendo sbuffare nuvolette di fiato più corto. “Io ti prometto che non farò mai più succedere qualcosa di simile a nessuno di noi.”

Norvegia sollevò un sopracciglio. “Noi?”

Il vento soffiò in mezzo agli alberi, scosse i rami e sbriciolò i grumi di neve che si erano raccolti fra le fronde. La cascata cristallina scivolò fra Norvegia e Danimarca, infilò una spazzata di freddo sotto i loro vestiti, dentro i loro cuori.

Norvegia chinò lo sguardo e si spolverò l’orlo di una manica. “E cos’è rimasto di ‘noi’?”

Danimarca sbuffò. Gli occhi arsero, di nuovo agguerriti e combattivi. “Lo vedremo presto.” Tirò su un palmo e vi schiacciò sopra un pugno, sollevò uno schiocco sonoro. “Vedremo se non sarò in grado di dimostrarlo.”

Norvegia tornò a squadrarlo con occhi cinici. “Cosa stai macchinando, si può sapere?”

Danimarca ghignò esibendo l’arcata di denti aguzzi e brillanti, lo sguardo sfrontato e soddisfatto della domanda. Si avvicinò a Norvegia, si gonfiò il petto mostrando un sorriso rassicurante e pomposo allo stesso tempo. Gli posò una mano sulla sua spalla e usò quella libera per strofinargli i capelli. “È tempo che il Re del Nord si faccia avanti per proteggere i suoi sudditi.” Sfilò la mano dai capelli di Norvegia prima di dargli la possibilità di schiaffargliela via, e si girò marciando verso la strada di ritorno.

“Ohi.” La voce di Norvegia lo fece voltare, bloccò la marcia da galletto.

Norvegia sollevò la punta di un sopracciglio. Dietro la foschia di neve, gli occhi apparvero ancora più profondi, bui e cupi.

“Non fare idiozie.” Un soffio di condensa accompagnò le sue parole di ghiaccio.

Danimarca perse il sorriso da pallone gonfiato, si guardò la mano con occhi di nuovo velati di buio. Idiozie? La strinse, il pugno tremò e lui lo accostò alle labbra torte in un ringhio. La più grande idiozia sarebbe non provare a cambiare le cose.

Affrettò il passo, sparì in mezzo alla foschia e alla caduta della neve.

 

.

   

I passi di Danimarca frantumarono con più violenza i grumi di neve congelata e impastata nell’erba morta. Crunch, crunch, crunch! Le mani ficcate nelle tasche si strinsero a pugno, le unghie si infilarono nei palmi, le spalle si strinsero facendolo ingobbire, e la bocca digrignata in un sottile ringhio di rabbia si nascose sotto il bavero della giacca.

Farmi avanti per proteggere i miei sudditi...

Diede un calcio a un sasso. La pietra sbatté sulla radice di un albero e rimbalzò contro il muro di una delle caserme di cemento armato che sbucavano in mezzo al boschetto immerso nella nevicata.

Danimarca schiacciò ancora di più la pressione dentro i pugni infilati in tasca, digrignò i denti fino a sentire lo smalto stridere, aggrottò la fronte, e la vista puntata a terra, in mezzo ai piedi che marciavano frantumando i grumi di neve, divenne rossa. Il sangue ribollì alla testa.

Ma cosa potrebbe mai fare un re senza corona?

Calciò un’altra pietra. Il sasso sbatté sul tronco di un albero, schizzò contro una delle berline nere parcheggiate sotto gli alberi e grattò uno sfregio bianco sulla carrozzeria.

Danimarca inarcò un sopracciglio, si bloccò in mezzo alla neve, e lo sguardo volò sulla targa sotto il radiatore dell’auto. Una targa tedesca.

Sollevò gli occhi, sbatté due volte le palpebre per mettere a fuoco la vista appannata dalla foschia creata dalla neve di prima mattina, e spianò con lo sguardo lo spazio fra gli edifici cementati delle caserme. Li circondavano auto tedesche, guardie danesi immobili, le gambe tese, le braccia strette dietro la schiena, i fucili premuti sul fianco; e ufficiali in uniformi grigio-verdi, cinte di pelle attorno alla vita, colletti rossi che racchiudevano croci di ferro, aquile ad ali spiegate cucite sopra le tasche, e copricapo calati sulla fronte. Ufficiali tedeschi.

Danimarca irrigidì. Una folata di vento gelido gli soffiò in viso, attraverso i capelli e i vestiti, gli sbiancò le guance, e gli occhi sgranarono, le pupille ristrette in un lampo di confusione e timore.

Ma che...

Alcuni ufficiali in divisa tedesca si spostarono, fecero spazio a quelli che stavano uscendo da una delle caserme e si misero rigidi, impalati sull’attenti come le guardie danesi. I loro passi scricchiolarono in mezzo alla neve, i soffi di cristalli bianchi si incollarono alle loro giacche, alcuni abbassarono la visiera del copricapo riparandosi la fronte e si diressero verso le berline. Dietro il gruppo di persone, Danimarca udì alcuni sportelli aprirsi e richiudersi, uno dei motori si accese, fumo grigio scivolò fuori dalla marmitta, strisciò in mezzo alle gambe di guardie e ufficiali, e una seconda auto si mise in moto. Un primo scricchiolio di pneumatici sul terreno ghiacciato fece spostare un gruppo di guardie che aprirono il passaggio.

Danimarca accelerò il passo e andò vicino a una delle guardie danesi. “Che sta succedendo?” Si fermò alle sue spalle.

La guardia in tenuta kaki buttò lo sguardo all’indietro da sopra la spalla – anche il suo vicino spostò gli occhi alle sue spalle da sotto l’elmetto –, una scintilla di realizzazione gli brillò in viso. Pareggiò il fucile al fianco, scattò sull’attenti. “Signore.” Si girò fronteggiando Danimarca e batté il saluto sotto l’elmetto, il fucile a riposo sul fianco, allacciato alla bretella. “Ispezione tedesca, signore. Sono solo venuti a visitare gli impianti della Luftwaffe in vista di altri attacchi agli inglesi, signore.”

Danimarca storse un angolo della bocca e sollevò un sopracciglio. “Ispezione tedesca?” L’espressione scettica.

Un altro sportello si chiuse, una delle auto partì seguendo la doppia scia grigia lasciata dagli pneumatici delle altre berline. Il gas di scarico si dissolse lasciando una puzza aspra e metallica, scoprì l’entrata di una delle caserme da cui uscirono altri tre ufficiali tedeschi che si strinsero immediatamente nei cappotti appena abbottonati. Uno di loro abbassò la visiera del copricapo e guardò in alto, verso la neve che volteggiava attorno a loro.

Danimarca restrinse le palpebre, fece un passetto in avanti sgusciando fra le spalle delle sue guardie, e assottigliò la vista sorvolando il fumo delle auto e alla foschia della neve. Fissò l’uscita della casermetta.

Che ci sia anche...

Una figura più alta e scura delle altre abbassò la testa e uscì dalla porta scavata nel cemento armato, strinse il bavero del cappotto nero sotto la gola, e la luce lattea della mattina innevata si riflesse in due freddi occhi azzurri, pungenti come il ghiaccio che colava dai rami degli alberi. Due degli ufficiali si misero al fianco di Germania, si guardarono alle spalle, uno di loro fece un accenno a un altro degli uomini armati e sfiorò la sua P.38 allacciata alla cinta.

Danimarca spalancò gli occhi, assorbì il respiro, un nodo di stupore gli incrinò la voce. “Ah.” Una scintilla di lucidità gli rimise in moto il cervello.

Saltò in avanti, si infilò in mezzo ad altre guardie – una di loro scattò in allarme e mise mano al fucile – e corse verso l’uscita della caserma attorno a cui erano ancora parcheggiate delle berline. Gli ufficiali tutt’attorno si spostarono per far passare Germania.

Danimarca portò una mano attorno alla bocca per indirizzare la voce e cacciò un grido. “Germania!” Una nube di condensa si materializzò davanti al suo viso.

Guardie danesi e ufficiali tedeschi si voltarono, gli sguardi scuri sotto i copricapo e le braccia rigide già tese verso le armi allacciate in vita. Lo sguardo di Germania volò oltre i loro profili e incrociò quello di Danimarca, rosso di fatica e di freddo e avvolto dal fiato condensato per la corsa.

Germania sollevò gli occhi al cielo, giunse le mani dietro la schiena e abbassò la fronte, continuò a camminare fra i due ufficiali in direzione delle auto. Prima che si girasse di schiena, Danimarca riuscì a leggergli il labiale, “Andiamo”, che sfiorava il colletto nero della giacca.

Vedendogli voltare le spalle, a Danimarca salì il sangue alla testa. Pestò una falcata di corsa, si gonfiò di aria fredda che odorava di gas di scarico, e tornò a cacciare fuori la voce rabbiosa fino a sentire gola e guance bruciare. “Germania, fermo!” Riuscì ad allungare un altro passo in mezzo alla neve. Due pesi lo bloccarono agguantandolo per le spalle, una gamba si infilò fra le sue caviglie e gli diede un colpo al piede, facendolo sbandare. “Che ca –” Il terreno si ingrandì, il cielo cadde sottosopra, e Danimarca precipitò battendo la testa sulla neve ghiacciata. “Urgh!” Scintille bianche scoppiettarono davanti alla vista, l’eco del tonfo gli ronzò attraverso la testa facendogli vibrare l’osso del cranio, il sapore di neve gli entrò nell’orecchio e nella bocca sciogliendosi in mezzo ai denti.

Il peso di un ginocchio si spinse in mezzo alle scapole, un paio di mani gli raccolse le braccia e gliele strinse dietro la schiena, immobilizzandolo. “Non muoverti.” Dei passi scricchiolarono davanti al suo viso spremuto a terra.

Danimarca diede uno strattone a destra e a sinistra, il lampo del colpo si ritirò e lui riuscì a scorgere uno degli ufficiali tedeschi che lo aveva immobilizzato, in piedi davanti a lui. Aveva il braccio teso verso il basso, la pistola mirata verso la sua testa. Danimarca ringhiò contro la neve, i bollori di rabbia gli fumarono dalle orecchie. “Lasciatemi!” abbaiò. Diede una spinta con le ginocchia e ricadde subito, la guancia e l’orecchia di nuovo in mezzo alla neve.

Scatto metallico dietro l’orecchio. Un peso più duro e freddo gli premette dietro la nuca: la canna di una seconda pistola.

“Immobile, ho detto!”

Sottili brividi si arrampicarono lungo il suo collo e attorno alla testa, come se tanti ragnetti fossero sgusciati fuori dalla canna per zampettare attraverso la pelle.

Danimarca sbuffò contro la neve e diede un altro strattone con la spalla, i polsi scivolarono sotto la presa dell’ufficiale e il dolore delle cicatrici gli accese un’altra miccia di rabbia bruciante. “E mollatemi, idioti!” Si ribaltò sul fianco, le ginocchia dell’ufficiale ancora attorno alla sua gamba e la canna della pistola scivolò sotto la sua gola. Danimarca scagliò addosso all’uomo un’occhiata che fu come uno strappo dato dalla lama di un coltello piantato sotto la gola. “Avete idea a chi state mettendo le mani addosso?”

Tre delle guardie danesi gli corsero incontro. Tutti e tre imbracciarono i fucili e li puntarono verso l’uomo che aveva la canna della pistola mirata sulla gola di Danimarca. Una delle guardie fece un passo più avanti degli altri, aggrottò la fronte sotto l’elmetto e indicò Danimarca con un gesto del mento. “Lasciatelo,” ordinò.

Danimarca sollevò la guancia da terra stando sdraiato su una spalla sola. L’ufficiale tedesco in piedi abbassò la P.38 e rilassò la tensione delle spalle, quello che teneva bloccati i polsi a Danimarca irrigidì ma tenne la canna della pistola contro la sua gola. Ricambiò lo sguardo ostile con la guardia danese.

“Abbiamo l’ordine di proteggere la nostra rappresentanza,” disse con tono rauco.

La guardia fece un altro passo in avanti, spinse l’indice sul grilletto della carabina. “E noi abbiamo ordine di proteggere la nostra.” Anche le altre due guardie avanzarono allungando le loro ombre sulla neve.

Danimarca rivoltò lo sguardo contro l’ufficiale che lo teneva immobile e storse un ghigno di arroganza. “Già, l’hai sentito?” Diede un’altra spinta con le ginocchia, tirò su la spalla e ricadde di faccia. Aprì e strizzò le mani imprigionate dall’uomo – non sentiva più arrivare il sangue alle dita – e alzò la voce tornando a sentire le fiamme fino in bocca. “Levami le tue sporche mani crucche di dosso!”

Un’ombra si fece largo in mezzo agli uomini che avevano circondato Danimarca, si ingrandì lungo il suolo innevato arrivando davanti ai suoi occhi. “Evita di metterti in ridicolo più di quanto tu non lo sia già.” Gli occhi sottili e penetranti di Germania lo squadrarono da dietro il velo di neve che stava cadendo fra di loro. Le punte delle sopracciglia si restrinsero, assottigliarono le palpebre, e una spennellata di ombra si stese lungo il viso. “Abbi un minimo di amor proprio.”

Danimarca ricambiò lo sguardo d’odio, un ringhio basso e feroce gli fece tremare gli angoli della bocca, il gorgoglio di rabbia e frustrazione risalì lo stomaco e arroventò il flusso del sangue, gli incendiò gli occhi. Per un attimo, gli parve di poter sciogliere tutta la distesa di neve con un solo sguardo.

L’ufficiale tedesco che era rimasto in piedi buttò un occhio a una delle guardie danesi, compì un passo avanti facendo scricchiolare la neve sotto le suole, e abbassò la sua P.38. Si rivolse a Germania. “Lo facciamo arrestare, signore?”

Danimarca lo fulminò strisciando la guancia sulla neve.

Germania guardò l’ufficiale, e i suoi occhi si spostarono di nuovo su Danimarca. Sollevò le sopracciglia, tenne il mento alto, gli occhi sottili. Un moto di compassione e pietà lo fece sospirare. “No.” Si voltò stringendosi il lembo nero del cappotto sotto la gola, i suoi passi ruppero grumi di neve fresca che stava ancora cadendo spolverando gli alberi e i tetti delle piccole caserme. “Non perdo tempo con inutilità del genere.”

Danimarca sgranò gli occhi, una coltellata d’odio gli trafisse la testa, gli fece vedere tutto rosso. “Inut...” Strappò un braccio dalla presa dell’ufficiale, gettò il gomito in mezzo alla neve, davanti a lui, e fece uno scatto con le ginocchia. Riatterrò subito. “Urgh!”

Altri ufficiali si voltarono, uno di loro rimise via la pistola, e anche le guardie danesi abbassarono i fucili. Uno dei tedeschi passò vicino a loro, Danimarca sentì le vibrazioni dei suoi passi accanto all’orecchio, e fece un cenno col capo all’uomo che lo stava tenendo immobile. “Andiamo.”

L’ufficiale annuì e sciolse la presa sul polso sfregiato di Danimarca. “Sì.” Tolse il ginocchio dalla sua schiena, si rialzò, e infilò la P.38 nell’astuccio di pelle. Sollevò il mento, calò il copricapo, e buttò un’ultima occhiata di superiorità a Danimarca, la stessa espressione di un uomo ingioiellato che getta una monetina nel cappello bucato di un medicante.

Danimarca scosse il capo, prese un respiro più forte – la pressione in mezzo alle scapole era svanita – e si resse su un gomito solo, massaggiandosi il polso formicolante. Altri passi gli camminarono di fianco, lo seppellirono con le loro ombre, ribaltarono zolle friabili di neve umida che sparse un odore ferroso. I profili degli ufficiali si allontanarono verso le berline parcheggiate. Tutti di nuovo attorno a Germania.

Danimarca sussultò. Vedendolo andare via, uno schiocco di panico gli rimbalzò in testa. “Aspe...” Diede una spinta con il gomito, tese il braccio, spalancò la mano. “Aspetta!” Riatterrò sull’altro gomito, diede una spallata alla neve, batté la tempia. Il sapore del ghiaccio sciolto gli scivolò fra le labbra e gli fece battere i denti. “Usa...” Nessuno sentì il suo gemito.

Danimarca scosse la testa, gettò di nuovo il braccio in avanti, agguantò un grumo di neve, la stritolò con entrambi i pugni, e tirò su le spalle. Fece un respiro profondo, lasciò scendere l’aria fino allo stomaco, e strizzò gli occhi. Lo gridò prima di pentirsene.

“Usa me!”

I passi degli uomini si fermarono, cessò lo scricchiolio sulla neve, tornò il silenzio ovattato dalla caduta di fiocchi e attraversato solo da qualche soffio di vento. Un paio di ufficiali si voltarono, fecero un passo all’indietro lanciando occhiate storte a Danimarca, e anche il profilo di Germania tornò a girarsi. Germania sollevò un sopracciglio, incrinò l’espressione compassionevole ma gli occhi rimasero di ghiaccio. Scettici e sospettosi, offuscati dall’ombra e dal vento di neve che gli aleggiava davanti al viso unendosi alla condensa delle labbra.

Danimarca si morse la bocca, ingoiò un boccone amaro di sconfitta e umiliazione che arrivò allo stomaco come una cucchiaiata di bile. Tornò a stringere le dita nel ghiaccio, le braccia tremarono. “Usa...” Guadagnò un altro respiro, chinò il capo quasi per paura di vedersi riflesso negli occhi di Germania. “Usa me, questa volta,” gorgogliò. “Usa me e lascia in pace Nor. Se...” Il peso della frustrazione continuò a schiacciargli le spalle e a martellargli le pareti dello stomaco. Le braccia tremarono. “Se dovrai ancora combattere, allora voglio essere solo io a partecipare alle battaglie.”

Due delle guardie danesi si scambiarono uno sguardo preoccupato, gli ufficiali tedeschi guardarono Germania e alcuni di loro avevano ancora la P.38 fra le dita. Germania sospirò, tornò a camminare in mezzo agli uomini, verso Danimarca, e fece cenno di abbassare le pistole. Obbedirono.

Danimarca gettò un’occhiataccia a terra e inasprì il tono. “Ma non fraintendermi.” Piegò una gamba poggiando il piede per terra e si diede lo slancio. Si rimise dritto, spolverò la neve dalle maniche, tirando la stoffa oltre i polsi, e fronteggiò Germania che stava ancora camminando verso di lui. “Con questo non ti sto dicendo che mi piegherò a leccarti i piedi o che accetterò di essere manipolato come un burattino da te.” Strinse i pugni sui fianchi, cristalli di neve si sciolsero e gocciolarono dalle dita, e pestò un passo avanti. “Semplicemente,” tenne il mento alto, ma il suo sguardo era altrove, non guardava Germania negli occhi, “quando torneremo a combattere, voglio essere io a farlo al posto di Norvegia, in modo che non gli sia fatto più alcun male per causa mia.”

La rabbia di quel giorno bruciò fino alla testa, infiammò i ricordi, tinse di rosso l’immagine di Norvegia che cadeva fra le sue braccia in un’esplosione di scintille schizzate dalla barriera magica andata in briciole.

Danimarca buttò lo sguardo a terra. “Tu non hai mosso un dito quando si è trattato di difenderlo, quella volta. È chiaro che vorrei tirarti il collo ma non posso.”

Uno degli ufficiali tedeschi reagì tornando ad alzare la canna della pistola e sollevando il pollice sul cane. Una delle guardie danesi scattò di un passo in avanti e imbracciò il fucile sul fianco, allarmato.

Danimarca fece roteare lo sguardo e ignorò entrambi. Una punta di rabbia rimase a incrinargli la voce in un tono più aspro. “Così ho deciso che da ora in poi sarò io a proteggere lui, non aspettandomi nulla da te.” Si posò la mano sul petto, a viso basso. “Ti chiedo solo questo. Lascia in pace Nor e usa me.” Strizzò le dita, il braccio tremò, e la mano sul cuore raccolse tutto il fuoco di rabbia che ardeva sotto i vestiti, fra le costole, dentro la carne. Danimarca si strinse alla spalla e strizzò gli occhi. “Mi offro...” Le parole rimasero incastrate fra i denti. Un respiro profondo, e riuscì a buttarle fuori. “Mi offro spontaneamente per starti affianco durante la guerra.” Gli bruciò persino la lingua.

L’ultimo passo di Germania calpestò la neve davanti a Danimarca. “Tu ti offri?” domandò.

Danimarca tornò a ingoiare la cucchiaiata di umiliazione, tenne i denti affondati nel labbro, i pugni schiacciati ai fianchi, la fronte bassa, e annuì.

Germania socchiuse le palpebre. “Io invece temo, Danimarca,” si fermò davanti a lui, “che non ti sia ancora ben chiaro il ruolo che occupi in questa guerra.”

Danimarca sollevò lo sguardo, immerso nell’ombra di Germania. Si trovò davanti a quegli occhi freddi e pungenti che parvero trafiggergli il cuore.

“Non sei tu a offrirti,” disse Germania, “non sei tu a decidere la tua sorte e a porre condizioni sulle mie scelte.” Una soffiata di vento e neve gli passò attraverso. Agitò i lembi del cappotto nero attorno alle ginocchia, trascinò un’ombra scura sopra la luce lattea del sole e rabbuiò l’aria. Gli occhi di Germania divennero due scaglie di ghiaccio azzurro in mezzo al nero. “Sono io che ordino.”

I polsi bruciarono. Danimarca infilò le dita sotto una manica e si grattò le cicatrici, lasciò profondi segni rossi sul bianco.

Germania sollevò il mento, inarcò le sopracciglia. “Credi che io abbia bisogno della tua approvazione per prendere le mie decisioni?”

Danimarca digrignò i denti e gli gettò lo sguardo addosso. “Io non sono uno strumento.” Si premette il pollice sullo sterno, gonfiò il petto. “Io continuo a essere una nazione, che ti piaccia o meno. Ho ancora una volontà mia e posso ancora contrastarti, esattamente come ho fatto quella volta.”

Germania gli rivolse un’occhiata dura. “Proprio per ciò che è successo quella volta non permetterò ai suoi sensi di colpa di interferire con i miei piani.”

“Questi non sono sensi di colpa!” gridò, gli occhi iniettati di sangue. “Io non ho i sensi di colpa!”

Due degli ufficiali tedeschi si avvicinarono alle spalle di Germania e tornarono a impugnare le pistole. Germania non si voltò ma aprì una mano sul fianco, fece segno a entrambi di rimanere in disparte. Socchiuse le palpebre e distese lo sguardo, le nubi si spostarono dai raggi opachi di sole e stesero una lama di luce bianca e fredda che illuminò il suo viso.

“E invece hai iniziato a covarli subito dopo la Guerra al Nord,” disse.

Danimarca sussultò, impennò un sopracciglio e irrigidì lo sguardo. La fiamma del petto si abbassò, inghiottita dall’improvvisa ondata di gelo.

Germania ritirò la mano che aveva sollevato per fermare gli ufficiali e la strinse dietro la schiena con l’altro braccio. “La perdita di Finlandia ti ha impedito di difendere il tuo paese, e la perdita del tuo paese ti ha impedito di difendere Norvegia.”

Danimarca sbiancò sulle guance, il pugno di dolore gli fece tremare la luce negli occhi, ancora furente e gettata contro lo sguardo di Germania. “S-sta’ zitto,” gorgogliò. Le mani gli prudevano.

“Non serve che sia io a manipolarti,” ribatté Germania, “c’è già il tuo senso di colpa che lo fa al posto mio.” Si voltò di profilo, squadrò Danimarca di traverso. “Una nazione che ha perso fiducia in se stessa non merita la fiducia di nessun altro.” E si girò tornando sui suoi passi.

Danimarca scattò in avanti con la voglia di saltargli alla gola. “Brutto stronzo!” gridò. “Se non fosse stato per noi tu saresti ancora a berti l’acqua della Manica!”

Tese il braccio per afferrargli la spalla. La sua mano sfiorò la spalla di Germania. Ombre nere si ingrandirono davanti a lui, schiocchi metallici delle sicure scattarono nell’aria, le canne delle pistole si ingrandirono contro la sua testa.

Due strette agguantarono Danimarca per la giacca e lo tirarono indietro.

Le braccia delle guardie danesi gli incatenarono i gomiti e lo sorressero per la schiena impedendogli di cadere. Lo sottrassero alle P.38 puntate contro la sua fronte.

Danimarca tremò di rabbia, chiuso e protetto fra le due guardie che gli stavano ingabbiando le braccia. Il respiro denso e vibrante soffiò fra i denti stretti, formò dense nubi di fiato bianco che si condensarono battendo contro le canne delle pistole davanti al suo naso. Gli occhi si persero nei baratri neri di quelle bocche metalliche che sembrarono risucchiarlo.

Una delle due guardie strinse di più il gomito attorno al suo, gli sollevò le spalle e accostò la bocca al suo orecchio. “Signore, la prego, si calmi.”

Danimarca strizzò i pugni, ingoiò il fiato. Calmarmi un cazzo!

Strattonò un gomito e la guardia strinse di più la presa attorno al suo braccio, chiuse il pugno e glielo premette davanti alla spalla. L’altra guardia lo tirò di un passo all’indietro, lontano dall’ombra delle P.38, e Danimarca schizzò un calcio di neve contro Germania, “Ghn!”, grugnì fra i denti.

I due ufficiali tedeschi si misero davanti a Germania, tennero Danimarca sotto tiro, e Germania rimase di profilo: il viso calmo e disteso, gli occhi freddi come la neve che cadeva attorno a lui e che macchiava il cappotto di bianco. Quello sguardo penetrò attraverso lo strato di condensa che sbuffava fra i denti di Danimarca, incontrò i suoi occhi infossati dalla rabbia, brillanti come le scintille di un incendio, e tornò a gettargli addosso il peso dell’umiliazione. Arrivò come una secchiata di mattoni sulla testa.

“Non permetterò ai tuoi sensi di colpa di interferire con i miei piani.” Le sue parole rimbombarono nella testa. “Hai incominciato ad averli subito dopo la sconfitta al Nord, la perdita di Finlandia ti ha impedito di difendere il tuo paese, la perdita di Finlandia, la perdita del tuo paese, ti ha impedito di difendere Norvegia, di difendere Norvegia.”

Le labbra di Danimarca tremarono, il respiro passò a brevi singhiozzi che gli spezzarono una corda del cuore.

Danimarca chinò il capo in mezzo alle spalle, il peso molle fra le braccia delle sue guardie. “Come fai...”

Anche gli ufficiali tedeschi abbassarono le armi, rilassarono la tensione su spalle e braccia.

Danimarca risollevò lo sguardo, aggrottò la fronte e tornò a stringere i denti, ma gli occhi vacillarono annacquati, non fiammeggiavano più. “Come fai a non avere neanche un briciolo di riguardo per chi ti ha salvato la vita?”

Germania sollevò le sopracciglia, gli lanciò uno sguardo di superiorità. “Non è stato di certo grazie a te che ho vinto.”

Danimarca strappò via un braccio da una delle guardie, agguantò la mano dell’altro e si scollò anche da quello. Barcollò di un passetto e tornò in equilibrio, chiuso nelle spalle, a strofinarsi la giacca dai polsi fino ai gomiti. Schioccò la lingua fra i denti e gettò lo sguardo in disparte. “Hai pareggiato,” specificò.

Germania fece un passo avanti. “Tu sai cosa significa essere un leader, Danimarca.” Scosse il capo. “Non c’entra Norvegia e non c’entra nemmeno Finlandia.” Passò fra i due ufficiali e gli si piazzò di fronte, di nuovo la sua ombra gettata su di lui e il vento ghiacciato a fischiargli attraverso i vestiti. Guardò Danimarca con una punta di pietà. “Sei solo un bambino che fa i capricci perché ti è stato strappato lo scettro dalle mani.”

Danimarca tornò a serrare i pugni e gli scagliò un indice addosso. “Essere un leader non ti dà il diritto di sfruttare le nazioni in questa maniera.”

Gli occhi di Germania tornarono nel buio, freddi e accusatori. “Te l’ho già detto una volta, ma te lo ripeterò ancora.” Un altro passo, la neve scricchiolò, la sua ombra investì sia Danimarca che le due guardie ancora ai suoi fianchi. Germania guardò Danimarca dritto in viso, squadrò quello sguardo sfrontato e arrogante che lo fissava dalla sua stessa ombra, ricambiò l’occhiataccia. “Impara a rivalutare te stesso, prima di mettere bocca sulle azioni degli altri.” Un breve respiro. “Se ti trovassi nella mia posizione, agiresti esattamente come me.”

Danimarca abbassò gli occhi di colpo, un movimento inconscio. “Io non...” Si girò di profilo e diede un’altra grattata al polso, le unghie si infilarono sotto la manica e strofinarono il braccio nudo su cui era salita la pelle d’oca. “Io non sono più così,” disse fra i denti.

Germania sollevò un sopracciglio. “E allora perché hai lasciato andare avanti Norvegia al posto tuo?” domandò. “Non è stato il tuo orgoglio a impedirti di combattere per me e a ferire gli altri?”

Danimarca sentì il cuore battere nelle orecchie. Il palpito lasciò una fitta di vuoto e dolore nel petto. Strinse il polso conficcando le unghie nelle cicatrici, allontanò di più gli occhi dalla presenza di Germania, fitta e fredda come il cielo gonfio di neve, sentì un insulto annodarsi in fondo alla gola, come un cubetto di ghiaccio andato di traverso. Si rivoltò contro Germania ma non fece neanche in tempo ad aprire la bocca.

“Alt!” ordinò la voce di uno dei tedeschi, alle sue spalle. “Non può passare di qua.”

“Toglietevi di mezzo.”

La seconda voce unita a nuovi passi nella neve scaricò una scossa sulla nuca di Danimarca, gli fece rizzare le orecchie e sgranare gli occhi.

Danimarca e le guardie si voltarono. Una folata d’aria fredda spazzò via un’ondata di neve, ululò in mezzo ai rami degli alberi, e rivelò una figura scura che si infilò fra gli uomini in uniforme. Profondi occhi viola trafissero la foschia bianca, uno sbuffo di vento agitò i capelli biondi sulla fronte e agli angoli delle labbra appiattite, rigide come il resto del volto.

Norvegia sgusciò in mezzo ad altri due ufficiali, e un terzo uomo gli si avvicinò a passo accelerato. Tese una mano verso la sua spalla.

“È una zona protetta, non può...”

Norvegia voltò la guancia, lo sguardo appuntito tracciò un arco viola nell’aria e sfrecciò contro gli occhi dell’uomo. Gli rifilò un’occhiataccia di ghiaccio. L’ufficiale impietrì come una statua di sale, divenne bianco in volto, rabbrividì, e fece un passo all’indietro. Norvegia arricciò una minuscola smorfia disgustata incurvando l’angolo delle labbra, e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Danimarca trattenne un sospiro. “N-Nor?”

Norvegia sfilò le dita dai capelli, spostò lo sguardo su di lui, e gli rivolse la stessa occhiata di pietra. “Cosa sta succedendo?”

Un secondo ufficiale superò quello che era arretrato, tenne la P.38 in una mano e raggiunse il braccio di Norvegia con quella libera. “Deve allontanarsi di qui.” Gli sfiorò il polso, Norvegia retrasse il braccio con uno scatto.

Danimarca sentì un fulmine trafiggergli il cranio e schioccargli dentro la testa. “Ehi!” Corse addosso al tedesco in sole tre falcate, strinse una mano di Norvegia e lo attirò a sé, gli circondò le spalle e lo fece voltare. Un braccio attorno al suo torso e una mano fra i capelli biondi, a tenergli il viso protetto contro la sua spalla. La stessa occhiata di odio che aveva rivolto a Germania la scagliò addosso all’uomo. “Tienigli giù le mani di dosso.”

Norvegia sfilò il braccio dalla stretta di Danimarca, si appese al bavero della sua giacca e lo strattonò verso il basso strappandogli un gemito. Spinse la fronte contro la sua. “Cosa stai facendo, idiota?” La sua voce gelata graffiò sul collo di Danimarca come se gli avesse passato una strisciata di artigli sulla pelle.

Danimarca sollevò i palmi in segno di resa e si strinse nelle spalle. L’espressione di rabbia si sciolse in un risolino intimorito. “E-ecco, io...”

“Danimarca ha voluto informarmi che da ora in avanti contribuirà apertamente alle mie volontà e alle esigenze dell’alleanza,” si intromise Germania. Flesse leggermente il capo mostrandosi di profilo e scambiò una prima occhiata con Norvegia. “Ma questo ovviamente non esonererà te dai miei comandi.”

Norvegia stritolò le dita sul bavero di Danimarca, sollevò gli occhi gettandoli nel buio che si era creato fra i loro volti. Fiamme vive bruciarono nelle pupille, i fiocchi di neve si addensarono turbinando attorno a lui, soffiarono fra i capelli scossi dal vento. La mano serrata a pugno sotto la gola di Danimarca tremò e schizzò scintille viola come una brace scoppiettante.

Danimarca sentì il sangue diventare ghiaccio, il fuoco di rabbia di Norvegia gli entrò dentro e gli incenerì il cervello, il suo viso divenne bianco come la neve e si imperlò di sudore ghiacciato. “A-aspetta.” Gli posò le mani sulle spalle e lo guardò in faccia lasciando cadere il velo di paura. “Lasciami spiegare...”

Norvegia gli diede un altro strattone verso il basso, tenne il viso accostato al suo, nel buio, e sibilò fra i denti. “È bastata una battaglia per farti mettere la coda fra le gambe?”

Danimarca scosse il capo. “Non sto mettendo la coda fra le gambe,” rispose. “Voglio solo...” Allontanò lo sguardo, una soffiata di vergogna contro il viso lo fece esitare, le mani sulle spalle di Norvegia tremarono come il suo sguardo. “Voglio solo combattere per te.”

Norvegia sollevò un sopracciglio, sciolse il gelo degli occhi, ritirò la fiammata di aura viola che agitava il vento di neve attorno al suo corpo, e allentò la presa delle dita sulla giacca di Danimarca.

La voce di Germania parlò per lui. “Ed è stato questo il vostro errore.”

Danimarca e Norvegia si voltarono verso di lui. Stettero zitti, i corpi rigidi e gli sguardi ostili e distaccati.

Germania squadrò prima uno poi l’altro. “Tutti e cinque voi,” sottolineò. “È stato questo il vostro errore fin dall’inizio.”

Danimarca e Norvegia si scambiarono un’occhiata fugace. Norvegia mollò la presa, intrecciò le braccia al petto, e si voltò dando le spalle a Danimarca. Danimarca allentò il bavero e si massaggiò la gola. Anche lui tenne gli occhi bassi.

Germania diede le spalle a entrambi. Sfilò un paio di guanti dalla tasca, neri come il cappotto. “Pensa a combattere per te stesso, Danimarca.” Indossò il primo guanto. “Comincia a pensare a quello che è bene per te e non bene per gli altri.”

Danimarca scosse il capo con un gesto violento, come a scrollarsi di dosso quel pensiero. “Il mio bene è anche il loro!”

Germania infilò anche il secondo guanto e rivolse a Danimarca un ultimo freddo sguardo da sopra la spalla. “Ma non puoi salvarli tutti.” Gli arrivò come una frecciata di ghiaccio. “Se tu un giorno ti rifiutassi di combattere contro Svezia e Finlandia, allora costringeresti Norvegia a farlo al posto tuo. Difendendo Norvegia, saresti costretto a combattere contro Svezia e Finlandia.” Mosse un primo passo in mezzo agli ufficiali, si diresse verso una delle berline parcheggiate, e strinse le mani dietro la schiena dritta. La voce suonò più lontana e calma, la caduta di neve la velò di un silenzio offuscato. “Comincia salvando te stesso, e poi impara a difendere gli altri.”

Germania sparì dietro i profili degli ufficiali tedeschi, la foschia della nevicata si inspessì, i motori delle auto si accesero e i fumi dei gas di scarico gonfiarono la nebbia che scivolava fra i fusti degli alberi e le pareti delle caserme.

Le guardie danesi sciolsero le posizioni rigide, alcuni di loro fecero scendere i fucili dai fianchi, altri lanciarono occhiate scettiche a Danimarca, sguardi più impauriti a Norvegia, e si allontanarono. Danimarca non li notò nemmeno.

I fumi dei gas di scarico si dissolsero, i rombi delle auto svanirono nella foschia di neve, fecero scricchiolare il terreno già battuto, e scomparvero in mezzo alle piccole caserme.

Il paesaggio tornò bianco. Nubi basse e grigie si gonfiarono scendendo dal cielo e si unirono alla nebbiolina che galleggiava in mezzo agli alberi. Un rauco e lamentoso ululato di vento soffiò in mezzo ai rami congelati degli alberi, spazzò ondate di neve sottile come farina che vorticarono attorno a Danimarca, agitandogli la giacca e i capelli, e trascinò con sé un silenzio cupo e ovattato.

Danimarca inalò un risucchio d’aria pungente dalle narici, schiacciò i pugni ai fianchi e si chiuse nelle spalle, sentendo le orecchie e le guance andare a fuoco.

“Che razza di stronzo,” sputò. Pestò un passo avanti, si chinò a raccogliere una manciata di neve pizzicante e la appallottolò fra i palmi. Tirò il braccio sopra la testa, mirò nel punto dove erano sparite le berline tedesche. “Crucco figlio di – ghn!” Una pallonata di neve si schiantò sulla sua guancia.

Danimarca rimase pietrificato nello sconcerto. Gli occhi spalancati e annebbiati, un sopracciglio storto in una piega di confusione. La neve si sciolse fra i suoi capelli, rivoli tiepidi gli entrarono nell’occhio, percorsero il profilo dell’orecchio e gocciolarono dal mento. Danimarca guardò la sua palla di neve stretta in mano. Era ancora lì. La lasciò cadere e si strofinò la guancia colpita, asciugandola con la manica.

Si voltò – la mano ancora sul viso – e Norvegia calò il braccio che aveva gettato la pallonata. Lo guardò con occhi duri e severi.

La guancia ricominciò a pizzicare e Danimarca si strofinò di più, rivolse a Norvegia un’espressione offesa e pentita di un bambino che ha appena ricevuto un ceffone dalla mamma. “Ahu!” si lamentò.

Norvegia restrinse le punte delle sopracciglia, freddo in viso, “Che ti è preso, si può sapere?”, e soffiò una sottile nube di condensa.

Danimarca fece scivolare la mano dal viso, chinò il capo in mezzo alle spalle e sospirò. “Ascolta.” Gli camminò vicino, gli avvolse le mani stando attento a non toccargli i polsi e le sollevò fra loro due. Entrambi avevano le mani fredde e umide di neve. Danimarca guardò Norvegia negli occhi, tornò serio e cupo di colpo. “Io non voglio più che accada una cosa del genere,” disse. “Io...” Allontanò lo sguardo, la voce cedette un po’, e le dita strette a quelle di Norvegia tremarono. “Io avrei dovuto proteggervi. Non avrei mai dovuto permettere che ci dividessero.”

Quella scossetta di frustrazione si trasmise anche alle mani di Norvegia, incupì lo sguardo anche a lui, velò i loro occhi di una foschia scura e densa come quella che scivolava sotto la spinta del vento.

Danimarca scosse la testa. “Io non posso più starmene fermo a guardare, ho bisogno di fare qualcosa per... per...” Chiuse di più la stretta, un fremito balenò negli occhi tornati vivi e lucidi. “Per non impazzire. Anche se si tratta di fare la cosa sbagliata.”

Un alito di vento scosse qualche ciocca di capelli davanti al viso di ghiaccio di Norvegia.

Norvegia guardò le sue mani strette in quelle di Danimarca, in quelle mani che lo avevano sollevato dopo essere stato sconfitto e che avevano bruciato e patito assieme alle sue quando le righe di sangue erano gocciolate dai loro polsi. Guardò indietro, da sopra la spalla, e puntò le scie lasciate dagli pneumatici delle berline.

Sospirò. La sua voce glaciale e dura. “Germania ha ragione, sai?” Sfilò le mani da quelle di Danimarca, lo guardò negli occhi. “Questo è un problema tuo. Non si tratta di noi cinque, si tratta di te e basta.”

Danimarca mostrò uno sguardo ferito. “No,” scosse il capo, “non è vero.”

Norvegia indurì il tono, lo guardò di traverso, e si massaggiò un polso sotto la maglia. Soppresse un brivido di dolore. “Credi che io non sia forte abbastanza da difendermi da solo?”

“Ma sono io che voglio difendere te!” esclamò Danimarca. “Cosa dovrei fare se non questo?” Spinse entrambe le mani sul petto e fece un passo più vicino a Norvegia. Abbassò la voce ancora piegata dal dolore. “Come posso sentirmi in pace con me stesso, come faccio a non sentirmi rodere l’anima per essere stato così debole quando sarei dovuto essere forte per tutti e cinque?”

Norvegia fece scivolare lo sguardo verso Danimarca, seguito da una scia di condensa e di neve che gli offuscò la luce del viso. I loro occhi si incrociarono di nuovo, quelli grigi e accusatori di Norvegia contro quelli più accesi e brucianti di Danimarca, vibranti in quella nota di dolore che gli rabbuiava il volto.

Il vento fischiò in mezzo a loro, spaccò il silenzio imbottito dalla caduta della neve, e pizzicò sui loro volti.

Norvegia emise un sospiro flebile, abbassò lo sguardo, la condensa si raccolse nel bavero della giacca. “Che delusione.”

Danimarca sussultò come se gli avesse tirato un’altra palla di neve sul naso.

“Se quella volta io mi sono fatto avanti,” disse Norvegia, tornando a guardare Danimarca negli occhi, “era perché avevo davvero fiducia in te. Ed ero davvero disposto a sacrificarmi pur di farti continuare a lottare contro chi ci sta tenendo in catene.”

Danimarca irrigidì. Ora la palla di neve sembrava avergli centrato la bocca dello stomaco.

Norvegia si grattò un polso, gli occhi finirono nascosti sotto l’ombra della frangia scossa dal vento. “Se tu voi pavoneggiarti da un re che protegge i suoi sudditi, allora devi anche avere abbastanza fiducia nella forza di quelli che sono guidati da te.”

In un lampo, Danimarca tornò alla camera sotterranea, dopo il combattimento, dopo che Norvegia era sgusciato lontano dal suo abbraccio ed era rimasto chino a terra, le braccia di Belgio attorno alle sue spalle tremanti, e una scossa di rabbia ad accendergli lo sguardo. “Credi che non sappia assumermi il peso delle mie scelte?”

Solo in quel momento comprese le sue parole.

Norvegia si voltò, infilò le mani in tasca. “Speravo che tu fossi abbastanza forte da credere nel mio sacrificio e per continuare a essere quello che davvero sarebbe riuscito a riportarci com’eravamo prima.” Gli diede la schiena, un primo passo infranse un grumo di neve appena depositata. “Se non credi in me, evidentemente non credi nemmeno in te stesso.” Voltò la guancia da sopra la spalla, gli mostrò lo stesso sguardo freddo e sprezzante che gli aveva lanciato Germania qualche minuto prima. Il suo fece più male. “E forse è vero che non sei forte come pensavo.” Questo fece ancora più male.

Danimarca scivolò di un passo in avanti, stese un braccio in mezzo alla caduta della neve, la mano aperta e tremante verso Norvegia. “Norge...” Lo sfiorò ma lo lasciò andare. Rimase immobile, il peso della colpa gli diede un crampo allo stomaco facendogli sentire le viscere di pietra, le gambe si ingessarono alla neve, l’espressione da cane bastonato gli fece vibrare la voce. “Dai, non...” Restò solo. Il profilo di Norvegia svanì in mezzo alla neve.

Danimarca cadde lentamente sulle sue stesse gambe, batté le ginocchia, gettò le spalle in avanti, le mani si aprirono sul suolo di neve, e si ritrovò a fissare quel bianco freddo e accecante. Si lasciò cadere di schiena, le braccia spalancate, il viso al cielo, la neve che pizzicava su palpebre e guance. Gli occhi riflessero il colore delle nuvole: divennero cinerei.

“Era perché avevo fiducia in te, ero disposto a sacrificarmi per farti continuare a combattere, allora devi avere anche abbastanza fiducia nella forza di quelli che sono guidati da te, evidentemente non credi nemmeno in te stesso, e forse è vero che non sei forte come pensavo.”

Danimarca strizzò un pugno, lo sollevò e tornò a scaraventarlo a terra. “Cazzo!” Schizzi di neve esplosero sotto il colpo.

Sciolse il ghiaccio fra le dita, la morsa di gelo gli penetrò nelle ossa che pulsavano di dolore fino al polso. Aprì la mano davanti al viso, la portò davanti cielo facendola diventare una sagoma nera e piatta.

Sospirò. “Fortuna che almeno Isla è lontano da questa merda.” Attorno a Danimarca, la neve continuò la sua caduta triste e silenziosa.

 

.

 

Germania sbottonò il bavero della giacca nera, allentò il colletto lasciando scivolare sulla pelle l’aria calda e profumata di cuoio che riempiva l’auto appena partita. Si affacciò al finestrino, le spalle dritte non poggiavano sullo schienale, la pelle del viso ancora formicolava per il tocco della neve e del freddo vento del Nord. Fuori dal vetro, la strada grigia scorreva lenta, il vento inclinava i rami degli alberi, fischiava coprendo i brontolii del motore dell’auto che gli vibrava sotto i piedi. La nevicata cadeva di sbieco e picchiettava sul finestrino lasciando macchie di ghiaccio sciolto che tremavano e scivolavano all’indietro, i tergicristalli cigolavano a ogni passata sul parabrezza.

Germania premette le spalle allo schienale e incrociò le braccia al petto. Lo sguardo freddo riflesse il grigio del cielo, il riverbero cristallino della neve si specchiò nei suoi occhi ristretti che ancora si affacciavano a quello che era successo prima, al viso furente di Danimarca, al suo corpo che cercava di raggiungerlo, schiacciato fra gli ufficiali che lo trattenevano, e alle sue parole d’accusa, ringhiate e abbaiate come il lamento di un cane che non riesce a strapparsi dal guinzaglio.

Come immaginavo, rifletté Germania, e l’eco delle loro parole gli rimbalzò all’orecchio.

“Comincia a pensare a quello che è bene per te e non bene per gli altri.”

“Il mio bene è anche il loro!”

Germania socchiuse gli occhi. Una punta di soddisfazione gli penetrò il petto come una scheggia di ghiaccio.

Il loro legame non può essere spezzato così facilmente.

Rivide quegli occhi azzurri, ostili e feroci, che lo avevano trafitto prima come durante le battaglie aeree, quando sentiva i fremiti di rabbia di Danimarca far tremare le catene attorno ai suoi polsi. Rivide l’abbraccio protettivo attorno a Norvegia che lo tirava via dalla mano dell’ufficiale tedesco, le braccia strette attorno alle sue spalle e le dita intrecciate ai capelli biondi come quando l’aveva afferrato al volo in combattimento, lo sguardo di odio e minaccia rivolto all’uomo che aveva provato a toccarlo.

Germania trattenne il respiro, il petto irrigidì e un soffio di avidità gli passò attraverso il cuore.

E mi può ancora essere utile.

Estrasse la lettera che sentiva scricchiolare nella tasca interna del cappotto, la sfilò dalla stoffa assieme alla stilografica, e la espose alla luce grigia che entrava dal finestrino macchiato di neve. Un timbro nero marchiava il retro della busta. Due parole racchiuse in un sottile rettangolo sbavato dall’inchiostro del timbro.

 

Strettamente Confidenziale

 

Germania aprì la busta, sfilò la lettera che aveva scritto lui stesso, tolse il cappuccio dalla penna stilografica, e premette la punta in fondo alle ultime righe.

Osserva e impara, Danimarca...

Aggiunse un ultimo appunto.

Come un vero sovrano sa sfruttare il proprio potere.

Richiuse la lettera, la rinfilò nella busta marchiata dal timbro e la tornò a mettere nella tasca del cappotto assieme alla stilografica.

   
 
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