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Autore: lubitina    28/11/2016    0 recensioni
La Terra brilla, blu, silenziosa e lontana, negli oblò delle città-pozzo lunari. Molto, moltissimo tempo addietro, l’ultimo essere umano ha camminato con gli Dei, calcato l’erba del Giardino. Nessuno, degli abitanti delle colonie del sistema solare, conosce le ragioni di quella diaspora; solo in pochi, se ne interessano ancora. All’improvviso, dalle sotterranee grotte del Satellite, ricche d’acqua antica, appare un bambino sporco, macilento, coperto di stracci, cui viene dato nome Prius. Il primo toccato dal TecnoDio. La sua storia si perse nella leggenda, ma non la sua opera: a lui si deve l’EarthSimulator, un mondo parallelo, una realtà virtuale in grado di restituire, a tutti i suoi viaggiatori, la capacità di camminare, di nuovo, sotto il cielo azzurro terrestre.
Anni dopo la geniale invenzione, G., mentre dorme, al sicuro, nella sua camera-della-vita, è al comando di un piccolo gruppo di disperati, nascosti nei boschi della fu Europa centrale. Loro sacra missione, suggellata con un patto di sangue, è comprendere le ragioni della Diaspora. Dal folto degli alberi, appare un uomo. Uno sconosciuto, i resti di una tuta ad alta tecnologia a coprire il corpo martoriato. Chi è?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dal diario di G.
 
Ricordo quel giorno, me lo ricordo bene. Era il 17 novembre del 503 anno dopo l’abbandono dalla Culla. Ero appena arrivata a lavoro, e la giornata era iniziata male. Il risveglio dall’E-sim non era stato particolarmente delicato, ed ancora, nonostante il viaggio in taxi, mi sentivo intorpidita e confusa. Le porte automatiche del Settore Ricerca Medica si aprivano e si chiudevano al passaggio di tante persone ben vestite e colorate, ed io mi sentivo grigia.
Non era un buon giorno.
Entrai attraverso quelle porte, la storiella del tassista che ancora mi rimbombava in mente. Divinità, santi, creature superiori a noi.. In fondo, qual era il senso di, semplicemente, pensarci? Le energie si possono occupare in modo migliore, pensavo, piuttosto che perdersi in elucubrazioni sterili.
Mi infilai nell’ascensore, reggendomi al corrimano, guardando le mie scarpe a punta fluttuare. Mi sentivo già stanca. Sedici piani in pochi secondi ed arrivo.
Sedicesimo piano. Settore Biotecnologie. Laddove, con quel che gli esuli avevano portato dalla Terra, si cercava di tirare avanti a campare. Avevo trovato lì abbastanza facilmente: i biologi erano merce rara. La Vita vera, quella fatta di reazioni chimiche e quel pizzico di magia, interessava a pochi. Sulla Luna, non se ne era circondati, se non per gli altri esseri umani, gli androidi, ed i pochi animali che si era riusciti a salvare dalla Culla in tempi immemori. Tranne che per i curatori della Foresta, gli alberi ed il verde erano solamente lo svago della domenica, o luogo di vacanza per ricconi. Probabilmente ormai così lontani dagli originali da assomigliar a malapena a ciò che gli Dei, o chi per loro, avevano creato.
Un uomo, camice candido e stirato, cravatta verde su camicia rossa, mi oltrepassò senza guardarmi, infilandosi in un laboratorio con una serie di provette di vetro in mano. Non ricordavo di averlo mai visto.
Dicevo, nessuno si interessava alla meraviglia della Vita, sulla Luna. Su Europa, sì. Ma, in quel momento, per noi Lunari, quel lontano satellite tale era e tale era, a breve termine, destinato a rimanere nascosto ed avvolto dal mistero. Si era trovata vita, laggiù, in fondo ai ghiacci. Eppure, tranne che per la notizia in se stessa, in quaranta lunghi anni dalla colonizzazione di quella piccola sfera gelata, non si era mai saputo nulla. La colonia di Europa continuava a funzionare felicemente, esportando acqua potabile in tutte le stazioni della fascia di Kuiper e su Ceres, ma riguardo a quella sconvolgente scoperta, il più che completo segreto e silenzio. Da tempo, avevo smesso di passare lunghe ore davanti al terminale alla ricerca, sull’extranet, di qualche dato condiviso illegalmente. Niente di niente. Avevo anche tentato, per un periodo, di scovare informazioni sull’E-sim: ma a nessuno pareva interessare la Prima Vita, sul Pianeta Sacro. E spesso, armati degli attrezzi di fortuna che si possono recuperare sul Sacro Suolo, non avevano alcun interesse a parlare di lontani corpi celesti.
Il mio lavoro è ricercare strategie per vivere meglio. O, meglio, aumentare la capacità della seconda umanità di sopravvivere ai portatori di morte che, essa stessa, ha importato dalla Culla. Creature microscopiche e gregarie, ma che si erano perfettamente (e democraticamente) adattate alle profondità lunari umide di acqua e a i corpi bianchi e deboli degli Esuli.
Mi spiego meglio. La Luna non ha atmosfera. Non ha quel meraviglioso strato di ozono in grado di bloccare radiazioni cosmiche altamente energetiche. Per questo viviamo sottoterra, nelle città pozzo costruite dagli Esuli con le ultime tecnologie divine. Noi esseri complessi abbiamo delle proteine che riparano continuamente il nostro DNA dai danni delle radiazioni: se ciò non avviene, si sviluppa una malattia. Prevenire la malattia è compito di altri, non mio. Lem, invece, prova a ricucire assieme i brandelli degli esseri che ne vengono colpiti, da tecnoguaritore quale credo sia. Per batteri e virus, invece, così piccoli, privi di individualità, una mutazione è soltanto una strategia adattativa. Nuove combinazioni geniche, nuove capacità.
I primi anni della permanenza sulla Luna, della seconda umanità, ci fu una piaga. Ciò che ora sto narrando, è, oramai, solamente mito, e mi limiterò ad esporre i fatti essenziali, scevri da poeticismi e abbellimenti. Mi è stato raccontato, tanto tempo fa, da Mamma, e proverò ad esporlo a te, lettore, come lei lo espose a me, come un’orrida storia da raccontare per provocare tremendi incubi. Ricordo che, mentre parlava, io tiravo sempre più su le lenzuola, nascondendomi. Eppure, lei non voleva spaventarmi. Voleva soltanto istruirmi a non replicare gli errori degli stanchi, malati, decimati, Esuli. Del resto, ritrovarsi dal paradiso ad un gelido, arido, grigio, inferno, ed essere costretti a vederlo lassù, nel cielo, dev’essere, per forza, l’Orrore del TecnoDio, la sua finale punizione per la crudele Prima Umanità. E ciò che sta redimendo noi, anche se viviamo sottoterra e non ammiriamo praticamente mai la Culla. O così, almeno, dicono i credenti.
 
G., sono certa che tu già lo sappia, che gli Esuli fossero circa mezzo milione di persone, prevalentemente tecnomanti e governanti. Dalla Diaspora, solamente i più ricchi, tra quei corrotti, si erano salvati. E di loro, i migliori, i più fortunati, costruirono e si stabilirono sulla più bella delle città pozzo originarie. Si dice che potesse contenere un intero asteroide, che la sua foresta rivaleggiasse con quelle della Terra del Fiume giù sul Pianeta, e che oro e metalli preziosi fossero comuni nelle sue miniere. Eppure, quell’idillio durò poco, molto poco. Un bel giorno, con la Culla alta nel cielo stellato kilometri più in alto, qualcuno venne a contatto con un batterio, che, forse, un giorno, era stato una semplice, solitaria, cellula fra tante altre. Lo trasmise ai componenti della sua famiglia. Poi, del suo condominio. Infine, della sua città pozzo. Di 340000 persone che abitavano Mare Vaporum, sopravvissero, alla fine, in novecento.
La città era stata fin da subito, dalle altre (all’epoca ancora non esisteva il Governo), dichiarata inaccessibile. Ogni richiesta di aiuto, respinta. Quelle novecento persone provarono a scappare dal pestilenziale isolamento in cui la città oramai era: si narra che i cadaveri avessero interamente riempito i livelli inferiori abitativi. Solamente novecento persone non sono sufficienti a far funzionare una meravigliosa macchina come una città-pozzo: uno dopo l’altro, i sistemi principali saltarono. La capacità depurativa della Foresta Centrale non fu più sufficiente a smaltire i gas di decomposizione. I biofiltri andarono in tilt. Le pompe per l’acqua potabile, estratta dagli umidi abissi della Luna, si guastarono. L’oro ed il platino divennero inutili. I lontani, inaccessibili, pannelli solari, sulla distante superfice, furono ricoperti di detriti spaziali, ed, uno ad uno, morirono. Non fu più possibile attivare i bioconvertitori per produrre proteine, zuccheri, vitamine. Alcuni, dimentichi del loro glorioso passato di tecnomanti della prima umanità esule, si armarono di tute stagne e cominciarono a scendere quotidianamente nei livelli inferiori, tornando con provviste rimaste nei conapt, scorte in magazzini dimenticati, ed, infine, dopo tanti mesi, corpi umani gelidi e mummificati da utilizzare come cibo e combustibile. Allora i novecento, o quanti in realtà ne erano, oramai, rimasti, provarono ad essiccare ed a bruciare i cadaveri per scaldarsi, per far muovere i generatori, per continuare a dar luce alla Foresta.
La Foresta. L’ultimo angolo di Culla rimasto nelle città-pozzo. Si narra che quella di mare Vaporum fosse la più ricca mai vista, con centinaia di specie arboree diverse, cespugli dai fiori di meravigliosi colori, e che, annualmente, il profumo del polline riempisse l’intera città: piante nate direttamente da semi provenienti dal Pianeta. Si accamparono lì, gli ultimi rimasti, sulle sponde del Lago, la più grande riserva d’acqua rimasta nella città. Sulle sue sponde, accendevano falò di stracci per scaldarsi, pronti a gettare acqua su qualunque prezioso ramoscello avesse preso fuoco. Di nuovo, gli Dei punivano la loro tracotante prole, riducendola a nutrirsi dei propri simili ed a bruciarli per scaldarsi, e per far vivere degli alberi, un tempo loro servi.
Qualcuno ricordò dei passaggi di servizio per le navette di emergenza di collegamento fra le città pozzo. In quell’epoca lontana, la Metropolitana ancora non forava, come gallerie di lombrichi in una grossa, grigia, mela, la crosta della Luna. Qualcun altro si disse in grado di pilotare. Così, si organizzò una spedizione in superfice, kilometri e kilometri di devastazione più in alto.
In qualche modo, ce la fecero, facendosi strada tra portelli stagni sigillati, piani allagati, fluttuando leggeri per i corridoi pieni di morte, e nel buio più totale, alla sola luce delle torce alimentate dalle poche batterie nucleari che avevano ritrovato. Si narra che avessero costruito una lunghissima fune, usando vestiti, lenzuola, dei morti, per tenere uniti tutti i novecento disperati.
Immaginai la scena: uomini, donne, bambini, emaciati, pallidi per la mancanza di luce, sporchi e stanchi, che si tenevano per mano, e nell’oscurità, se non per il piccolo cono di luce delle loro torce; persone per cui il ricordo della Culla era ancora vicino, ancora caro il Sole che tramontava sul mare, ancora pieno di colori, costrette a quell’inferno per sopravvivere.
Novecento persone trovarono poste sulle navette d’emergenza, portandosi dietro i pochi viveri rimasti e tutta la loro speranza. Prova a figurarti la scena: quest’orda di disperati che riesce a forzare i portelloni stagni dell’Hangar Principale, e, dal buio, vede apparire decine e decine di piccole astronavi. Chissà, forse avranno sognato, anche se per un istante, di poter raggiungere le mitiche Colonie di Titano e Marte, all’epoca ancora in terraformazione. Ma poi, un certo ingegnere li riportò a contatto con la realtà.
Le navette erano a corto d’energia. Qualcuno si offrì volontario di recuperare le batterie atomiche di ricambio. Quel qualcuno tornò dopo alcuni giorni, emaciato, ustionato, con un occhio penzolante fuori dall’orbita, le batterie accatastate nel portabagagli di un taxi che aveva forzato. Morì alle porte dell’hangar, tra terribili dolori.
I pochi anziani rimasti si offrirono di montare le batterie. Tanto, a breve, sarebbero morti comunque. Meglio essere utili alla causa, meglio aiutare a diffondere gli ultimi scampoli della, un tempo, gloriosa civiltà terrestre tra i barbari delle altre città pozzo. Uno di loro, che era riuscito ad arrivare così lontano, a risalire kilometri verso la superfice, decise, infine, di rimanere lì.
L’anziano, il cui nome non ci è giunto, li guardava salire, nella sala comandi pressurizzata, mentre attivava i comandi per l’apertura della calotta dell’hangar, che si apriva come uno strano fiore, lasciando intravedere la luminosa Via Lattea. Le stelle erano sempre state lì, indifferenti a ciò che si era consumato dentro il sotterraneo formicaio. Le radiazioni cosmiche avevano, per sempre, distrutto una città ed il meglio che all’umanità era rimasto da offrire all’universo, ma quei pochi ce l’avevano fatta. Pianse, mentre le cinque navette si libravano nel cielo e puntavano in alto, con la stella Polare dritta sull’orizzonte.
All’improvviso, fuoco silenzioso fuoriuscì dallo scafo di una delle piccole astronavi. Corpi di umani, ammassi di stanchi stracci, mulinarono fuori, rigidi come pupazzi. Ed un’altra ancora esplose.
Infine, tutte.
L’uomo guardò senza proferir parola lo scempio, e continuò a guardare finché l’ossigeno non si consumò e i relitti smisero di bruciare, finchè i corpi non ricaddero sulla superfice polverosa della Luna, in piccole cataste. Le navi non si erano alzate di neppure cento metri dal suolo, quando erano state colpite.
Allora l’uomo afferrò una tuta spaziale, e la infilò. Uscì dalla sala comandi, camminando a larghe falcate verso il centro dell’hangar, il cielo stellato sopra di lui. Alla ricerca di un perché.
Un’ombra enorme coprì, all’improvviso, la Luce del Sole. Un gigantesco incrociatore militare, di come ne ricordava solo ai tempi, ormai lontani, in cui l’umanità non era ancora stata scacciata dalla Culla, si era sostituito al cielo. Dall’enorme scafo si aprì una piccola cavità, ed una minuscola navetta due posti volò rapidamente verso di lui. Atterrò piano, a fianco di un cumulo di metallo fuso e di cenere, di sangue coagulato e disseccato.
Quell’uomo, quell’anziano, fu l’unico sopravvissuto della tragedia di Mare Vaporum, colui che ha raccontato questa storia. Fu risparmiato perché appiedato, perché solo, perché vecchio e non pericoloso. Inoltre porre in quarantena un singolo essere umano era molto più semplice che farlo con novecento. Dissezionare un singolo essere umano, peraltro già di per sé vicino alla morte, molto meno disturbante.
Fu sottoposto ad esperimenti, a Lacus Mortis. Si studiò il suo sistema immunitario. Fu trattato come una cavia.
Si narra, di lui, che, una volta, dopo tremendi mesi, fu lasciato libero scomparve. Il suo cadavere fu ritrovato in una tuta spaziale, centinaia di kilometri lontano dalla città-pozzo, vicino alla calotta polare boreale. Era morto soffocato. In una tasca della tuta, nel factotum, teneva il racconto di questa storia.
 
Imboccai la porta del mio ufficio. Sul vetro della porta, campeggiava felice, in stampatello, il mio nome, e “Capo-ricercatore neo-antibiotici”. Ne avevo conquistato uno personale l’anno prima, un cubicolo 3x3, ma era quanto mi bastava per avere la giusta calma per pensare e programmare al terminale. Il laboratorio di mia competenza si trovava poche porte più giù, e ne possedevo le chiavi. Potevo fruirne come preferivo, con l’unica condizione di non poter scegliere il personale a me sottoposto. Detestavo lavorare in team, e mi infastidiva avere continuamente tirocinanti tra i piedi. L’unico, di cui, a quei tempi, mi fidavo, era S., un ricercatore associato, ma di lui parlerò in seguito.
Lasciai la borsa sulla scrivania, ed afferrai i guanti ed il camice che avevo lasciato a sterilizzare sotto la lampada UV. Tutti ne avevamo una personale in dotazione. Per ogni evenienza.
Qualcuno bussò alla porta, facendomi sobbalzare. Era una ragazzina, forse sui vent’anni, con capelli neri, lunghi, ispidi, occhi scuri, e un’abbondante acne sulle guance. Indossava abiti comuni, e probabilmente era l’ennesima tirocinante.
-Salve, dottoressa G. F.. Il signor S. mi ha mandato da lei..
-Per cosa?
Sicuramente un altro scherzo di S. Sa quanto adoro i tirocinanti. Mi imposi di non sbuffare.
-Devo sterilizzare il mio camice.. ,-mormorò, lo sguardo di un cucciolo ferito, l’indumento bianco stretto fra le ditine grassocce.
-Certo. Sotto la scrivania. Attenta a non mettere le mani sotto la luce. Chiudi la porta quando esci.
E mi sforzai di sorriderle. Non era una buona giornata, ma non doveva essere per forza nera come il basalto dei Mari.
Uscii dall’ufficio, puntando verso il mio laboratorio.
Davanti alla porta, un piccolo capannello di persone era impegnata in un mesto chiacchiericcio sottovoce. Notai S., moro, magro, e barbuto, fra tutti, che gesticolava ampiamente. Non sorrideva, mentre parlava con un donnone occhialuto e dai corti capelli biondi, B. La biofisica del team. Accanto a loro, Gar., una chimica, tarchiata e amante dell’olo-smalto (di cattivo gusto), scorreva col dito, nonostante la ridicola unghia, sullo schermo del factotum, commentando qualcosa assieme a Ruz., il mio omologo della sezione fermentazioni, prematuramente calvo e dalla parlantina lenta. Apprezzavo la sua sincerità, l’onesta intellettuale di non indossare parrucche né optare per trapianti di capelli.
Il quartetto si ammutolì, quando mi vide. Le facce si scurirono. Anche quella di S., l’unico che sapevo essere sinceramente felice di vedermi tutti i giorni. B. si morse un labbro, e si riavviò i capelli corti, e fece per parlare. S. mormorò qualcosa come “ci penso io”, e mi si avvicinò.
Io rimasi immobile. –C’è qualcosa che non va, ragazzi? Buongiorno anche a voi, comunque..Avete visto il cielo del Galilei stamattina?
S. sospirò, e mi parve che le spalle si stringessero, il suo collo si accorciasse, e la sua barba rientrare nella pelle del viso.
-C’è stato un incidente, al reparto Processi. L. è morto.
Ricordo solo il pavimento piastrellato azzurrino che si avvicinava, ed un gran mal di testa. 
  
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