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Autore: NihalDellaTerraDelVento    28/11/2016    1 recensioni
DAL TESTO:
Lui era come una seconda luna, un satellite orfano in un cielo disperatamente nero e vuoto.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inoue Orihime, Schiffer Ulquiorra
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Nella solitudine di quella sua nuda camera la luna era la sua unica compagna.
Bianca in un cielo nero splendeva come un faro di speranza.
Lei la fissava imperterrita, come se un silenzioso e invisibile discorso aleggiasse tra loro.
Sarebbe stata ore così, caldo nocciola fisso nel bianco, fissando intensamente quel curioso satellite fino a poter dimenticare il nero e la desolazione che le aleggiavano intorno.

Le fecero fare un bagno e dopo le diedero vestiti bianchi che, nonostante fossero del colore del nemico, a lei parvero bellissimi. Erano dello stesso colore della luna e, indossandoli, sentiva di annullarsi, di diventare parte di quel faro di speranza.

Anche se presa da quella sua amica silente, non riuscì ad ignorare una presenza in quella camera. Lì nell’angolo più buio, come un pipistrello assonnato, lui la fissava. Non parlava, non si muoveva, non la chiamava “donna”, semplicemente la guardava.
Non le importava.
Aveva abbandonato chiunque avesse mai amato a causa di quell’uomo. Non avrebbe alzato lo sguardo da quella luna, suo ultimo conforto, solo per vedere l’insofferenza negli occhi smeraldini di lui.

Eppure lui continuò a fissarla per incalcolabili minuti.
Sulla pelle di lei quel gesto parve quasi fisico, sentì formicolare ogni sua più piccola cellula.
Sapeva che era istinto di sopravvivenza, sapeva che stava dando le spalle ad un predatore.

Quello stesso istinto la costrinse, alla fine, a voltarsi, fissando gli occhi in quelli del suo naturale nemico, cercando di non distogliere lo sguardo per non essere mangiata.
La tanto amata luna era alle sue spalle, adesso lei fissava solo quell’uomo.

Lui uscì dal suo angolino scuro, così come sono solite fare le fiere selvagge, le mani affusolate perse nelle tasche.
Lei osservò la sua pelle nivea, i suoi abiti candidi, per poi fermarsi in quelle pupille di pece.
Curioso come anche in lui fosse presente il bianco e il nero.
Sapeva che l’avrebbe mangiata nello stesso istante in cui il suo padrone glielo avrebbe ordinato.
Ma, adesso che lo vedeva alla luce della luna, non riusciva più a distogliere lo sguardo da lui.
Bianco e nero, entrambi parte di lui, si confondevano screziati dal verde in assurda danza solitaria nel suo corpo.
Non si mescolavano, non davano vita a nessun altro colore.
Erano presenti ma divisi, perfettamente delineati.
E lei si trovò a pensare a lui come a quel cielo da cui aveva faticosamente distolto lo sguardo.
Lui era come una seconda luna, un satellite orfano in un cielo disperatamente nero e vuoto.
Non aveva centro, non aveva nulla da illuminare, eppure continuava ad emettere un’assurda, piccola luce, presa da chissà dove, come se flebilmente volesse far brillare qualcosa.

Era un predatore, doveva tenerlo a mente, testimoni le pupille verticali che la scrutavano nel profondo, quasi a sfidarla a fare un qualunque gesto.
Eppure mentre stava lì, semplicemente a fissarla inespressivo, notò come fosse il predatore con lo sguardo più umano che avesse mai visto.
Non erano le fattezze, così simili a quelle di lei, era qualcosa, o meglio l’assenza di qualcosa, negli occhi di smeraldo di lui.

Si sentì cristallizzata in quell’istante, l’atavica paura scemò a favore di una più familiare curiosità.
Come quando era persa nella luna adesso era persa negli occhi di quell’essere.
Erano due pozzi neri, per nulla intaccati dal bianco del loro padrone.
Apparentemente non avevano fine e sembravano inghiottire e distruggere ogni traccia di luce.
Catturata come la luce da quello sguardo, si chiese se quei pozzi avessero fondo, se alla base esistesse qualcosa.
Voleva sapere, in altre parole, se anche i mostri hanno un’anima.
Non aveva una risposta certa.
Ma si sorprese a capire che si, lui sicuramente aveva un’anima.
Erano quei suoi occhi a dirglielo.
Più li fissava e più se ne sentiva risucchiata, due occhi così non potevano appartenere ad un essere vuoto.
Come a volerlo confermare le verdi linee verticali del viso di lui spiccavano prepotenti contro il bianco, seguendo il corso che solitamente hanno le lacrime.
Si trovò a pensare al nome di quell’essere e a come fosse perfetto per descriverlo.
El que llora, colui che piange.

E sapeva che non si riferiva, ironicamente, ai solchi sul suoi viso, o alla sua espressione.
Magari era quello che lui pensava, ma lei ebbe la presunzione di convincersi che non fosse vero.
Nel fondo di quei pozzi neri c’era un anima piangente e urlante.
Magari lui non la sentiva e non poteva vederla ma era lì, dentro di lui, e piangeva lacrime che mai sarebbero state illuminate da quella luna.
I segni sul suo viso altro non erano che aridi letti di un fiume mai del tutto seccato.
Quegli occhi, alla fine, non erano poi così inespressivi.
Non erano gli occhi di un essere vuoto, ma non erano neanche gli occhi di un predatore.
Lei ne era certa, non potevano esistere predatori con un’espressione così… triste?

Stettero ore così, come a volersi scrutare nel profondo.
Come quando parlava con la luna, adesso lei intratteneva un discorso silenzioso con lui.
Gli fissava l’anima, come se la sfidasse ad uscire fuori.
Lui la osservava di rimando, impassibile, come a voler rimarcare che i suoi occhi erano semplici pozzi vuoti.

Dopo un tempo interminabile il predatore parlò alla sua preda.
Immobile come una statua, diede libertà solo alle sue labbra sottili per porle una semplice, piccola, domanda:

-Hai paura di me, donna?-

Lei sobbalzò, non aspettandosi di sentire quella voce. Non lasciò, tuttavia, che la sorpresa diventasse padrona dei suoi occhi. Continuò a tenerli fissi in quelli di lui mentre, con assoluta sincerità, rispose:

-No, non ho paura.-

Si soprese a capire quanto questo fosse vero. Quel predatore non la spaventava più, sapeva di potergli voltare le spalle tranquillamente.
Così tornò a guardare la luna, cullata dai passi felini di lui che si allontanava.
Con un sospiro rilassò tutti suoi muscoli.
Non poté fare a meno di notare come quella camera le sembrasse un po' più buia.
 

Fuori il predatore si mise in un piccolo angolino, come a cercare un confortevole riparo nel buio.
Non sapeva perché aveva sprecato il suo tempo fissando quella donna.
I sui occhi, per la prima volta, si erano fissati su qualcosa al di là della sua comprensione.
Lei era la preda, ma lo osservava come se fossero pari, come se cercasse di scrutarlo nel profondo.
E lui, incuriosito, di rimando provò a capire cosa celassero gli occhi nocciola di quella donna.
Sciocchezze, non c’era nulla. Non esisteva nulla che lui non potesse comprendere con uno sguardo.
Erano semplici occhi vuoti, così come quelli di lui.

-Non c’è nulla…
In te.
E in me.-




NOTE AUTRICE: Questa fic mi è venuta di getto, l'ho scritta in appena un oretta ed ho passato più tempo a correggerla che altro. Festeggiate con me perché finalmente parlo da un punto di vista femminile! Un'esperienza strana, devo dire che comunque il punto di vista maschile resta quello con cui mi trovo meglio.
Piccole precisazioni: la frase finale è presa da Bleach:Unmasked (LEGGETELO! E' stupendo!), inoltre quando parlo di "anima" non faccio altro che riferirmi al famoso "cuore" utlizzando una differente traduzione, a mio parere meno bella, ma più attinente al testo.
Come sempre, mi piacerebbe sentire le vostre opinioni in merito.
Che il reatsu sia con voi.
Nihal.

 
   
 
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