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Autore: Amatus    29/11/2016    3 recensioni
C'era una volta e non c'è più una piccola repubblica stretta tra due fiumi. I suoi abitanti furono molte cose, sudditi, contadini, cittadini e briganti. Furono fortunati più di molti altri e si trovarono ad esser padroni di loro stessi in un tempo in cui solo i re lo erano. Questa storia non vuole raccontare cosa davvero accadde, per quello ci sono documenti e libri di storia, molti pochi, a dir la verità. Questa storia racconta attraverso molti occhi l'esperienza unica di un paesino di 300 anime. Racconta le possibilità, i sogni, le sconfitte. Racconta Cospaia.
[Questa storia partecipa alla Challenge Trasformazioni elementali indetta dal forum Torre di Carta]
Genere: Avventura, Introspettivo, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Il mio nome è Maso e sono nato tra queste colline. I miei genitori sono nati qui e i loro genitori nacquero qui anch'essi.
Credo che avendo tempo o modo di contare tutte le generazioni all'indietro fino al primo antenato che mise piede in questa striscia di terra, si potrebbe risalire fino ai tempi della nascita di Nostro Signore. Penso che nessun appartenente alla mia famiglia abbia mai posato gli occhi su un orizzonte diverso, e c'è da dire che qui l'orizzonte è piuttosto vicino, chiusi in una valle come siamo.
I miei erano contadini, come i miei nonni prima di loro e come loro non impararono mai a leggere altro che le stagioni e i segni del tempo. Non hanno mai avuto necessità di scrivere, se gli capitò mai di fare qualche acquisto importante, una stretta di mano valse più di ogni contratto. Tra gente semplice l'onore è più prezioso dell'oro, che anche ad averne, l'oro, non si saprebbe con cosa scambiarlo, l'onore invece compra tutto ciò che c'è di importante.
Quando mio padre sposò mia madre poi, gli bastò vergare una croce tremolante e si trovarono uniti davanti a Dio e davanti agli uomini. Nessuno a Cospaia sapeva leggere, ma tutti conoscevano il valore di un matrimonio, in quanto a Dio, non ha certo il tempo di leggere registri o validare documenti Lui!
Così, quando si trovarono a dover registrare la mia nascita fu il curato a scrivere il mio nome nel grosso librone delle anime custodito in canonica. E quel giorno il signor curato doveva essere molto impegnato, perché non si concesse neanche un momento per dire a mio padre che Maso non si può certo definire un nome.
Nel librone, non scrisse Tommaso, scrisse proprio Maso, lo chiesi molti anni più tardi al curato che lo sostituì e lui me ne diede conferma. Così, mi ritrovai con un mezzo nome. Ricordo ancora che un giorno, ero un bambino allora, durante il catechismo il curato fece notare che portavo il nome di un apostolo. Io al tempo ero troppo timoroso per spiegare al curato che di quell'apostolo incredulo e miscredente avevo preso solo mezzo nome, ché lui non si era premurato di scriverlo per intero il mio nome nel suo librone.
Tornato a casa me ne lamentai con il babbo e ne ricevetti in cambio uno scapaccione e una ramanzina. Mi sembra di sentirlo anche ora mio padre borbottare sulla mia ingratitudine, che se il curato avesse avuto abbastanza pazienza da insegnarmi a scrivere il mio nome, avrei ringraziato la sua avvedutezza, che scrivere un mezzo nome per un testone come me era già un'impresa degna di nota. Lo sento ancora dire che lui, il suo nome non aveva mai imparato a scriverlo, che Giuseppe è un nome da professore, non da falegname né tanto meno da contadino, e che io dovevo essere grato che il mio nome mi avrebbe reso la vita più facile.
Ma allora non ero tanto convinto che fosse proprio così. Pensavo invece che avere un nome a metà mi avrebbe fatto vivere una vita a metà, l'altra metà perduta nel tempo con la prima parte del mio nome. Ma erano le fantasticherie di un bambino e passarono in fretta.
I miei morirono presto, ammalati di lavoro e di stenti e devo esserne grato, perché il cuore della mia povera madre non avrebbe retto a ciò che sarebbe dovuto venire di lì a pochi anni dopo la sua morte. Io, da parte mia, mi rassegnai presto a ciò che veniva e presi facilmente l'abitudine di non farmi troppo coinvolgere dalle cose degli uomini. Ero sano, ero forte e avevo tanto lavoro da portare avanti.
La domenica mattina alla messa e la domenica sera alla locanda con un bicchiere di vino e paio di amici silenziosi e stanchi come me, erano tutte le occasioni di svago e riposo che mi concedevo. Non ero di grande compagnia e non attraevo le donne. Dopo tutto come avrei potuto? Non ballavo durante le feste, ero silenzioso e burbero, di certo non ero bello. Ma anche alla mia vita monacale mi abituai presto. Non era male in fondo, avevo la mia casa, la mia terra, pagavo la decima e rendevo grazie al Padre Eterno, non temevo nulla. Non cercavo nulla.
Eppure la storia voleva venire a cercare me. Si mise proprio d'impegno quella signora volubile a tirarmi le vesti, ma non la ebbe vinta e sì che ero giovane ancora, come tanti di quelli che invece si fecero sopraffare dalla sua venuta. Ce ne furono di campi abbandonati alle ortiche, per colpa della storia. Ma certo non il mio.

Il Granduca, uomo senza Dio, decise un giorno di chiedere indietro del denaro dato in prestito al Papa. Come può sapere il Granduca, lui che non ha mai lavorato e che non ha mai probabilmente neanche visto un pascolo, quanto sia faticoso e dispendioso per un pastore avere cura di tutte le pecore del gregge? E che gregge enorme ha poi il Papa? Ma il Granduca è chiuso nel suo ducato a contar quattrini e del mondo e delle anime non sa un bel niente. Chiese quindi indietro i suoi denari, che il Papa, anima buona non era in grado di restituire, per questo cedette la nostra terra, Sansepolcro con tutte le sue pertinenze, fu detto dal banditore. A mia madre si sarebbe fermato il cuore nello scoprire che invece che sotto la protezione del Papa, sarebbe stato un senza Dio come il Granduca a governarci.
Ma c'è da dire che se non ci fosse stato quel piccolo errore, per molto tempo noi non ci saremmo accorti di nulla. Invece di pagare la decima avremmo pagato la gabella, ma più di quello non sarebbe cambiato.
Infatti fu proprio a fine anno quando nessuno venne a ritirare l'una o l'altra che ci accorgemmo tutti che qualcosa non andava.
Ora, devo dire che la nostra terra è stretta tra due rii come tra le colline. Ebbene i cartografi del Papa da una parte e quelli del Granduca dall'altra, presero tutti a riferimento il rio più prossimo a casa loro e per la prima volta nella storia dell'uomo, un inghippo nacque a causa della mancanza di avidità anziché per il suo contrario.
Questo farà anche capire quanto poco valesse la nostra bella valle, che per noi era però tutto: casa, eredità e lignaggio.
E fu per questo orgoglio per la nostra terra che la gente, soprattutto i giovani con famiglie nuove o ancora da venire, si infiammò a questa novità. La nostra terra era nostra, non dovevamo più nulla a nessuno. Furono giorni strani, tutti erano in fermento come nei giorni della vendemmia, quando il vino scorre a fiumi e tutti ballano e ridono.
In quei giorni di fine anno non c'era vino che scorreva ma l'euforia per la novità bastava a se stessa e inebriava gli animi più di una nottata in locanda, più di un ballo turbinoso.
Turbine c'era in effetti ma di idee, di possibilità, di sogni. Tutti pensavano che solo i re o i signori possiedono la terra, e noi in quel momento eravamo un po' re e un po' signori e dovevamo approfittarne. Io, come durante le feste di vendemmia, rimanevo in disparte, ché la mia terra l'ho sempre considerata mia, mia e di nessun altro e la decima l'ho sempre pagata volentieri, è poca cosa in infondo, in cambio della salvezza della mia anima.
Ché senza pagar la decima, come avrei avuto la salvezza eterna? Questi erano i miei dubbi, questi i miei timori. E mentre i miei coetanei e quelli che avrei imparato a chiamare i miei compatrioti, sognavano in grande, io parlavo con il curato e chiedevo lumi. Ma lui era spaventato, ché non si sa mai cosa esce fuori quando il popolo si mette in testa di voler esser signore e lui era sempre pronto con una bisaccia sulla porta.
Poi pian piano l'euforia scemò, ma un grande fermento andò ancora avanti per anni. Uomini e donne, si davano convegno quasi tutte le sere e mentre i bambini giocavano in piazzetta gli adulti discutevano e si ingarbugliavano le idee nel trovare il modo migliore per gestire tutta quella faccenda. Più volte la mia presenza fu richiesta, perché ero l'ultimo della mia famiglia ed era importante, dicevano, che tutte le famiglie di Cospaia fossero rappresentate, ma io la sera dormivo presto perché il mio campo mi aspettava di giorno. Solo la domenica sera andavo qualche volta a queste assemblee ma solo perché sempre più spesso il locandiere chiudeva bottega per prendere parte anche lui alle discussioni e allora anche io, se volevo un bicchiere di vino, dovevo andare.
Ma non mi interessai poi molto. Volevano che anche io partecipassi del governo della nostra bella Cospaia, ma fui irremovibile. Io ho il mio campo e la mia anima a cui badare, quello è il solo governo che voglio, gli altri potevano con il loro tempo fare ciò che volevano, io avrei continuato a badare ai miei affari. Una contadinella, di poco più di vent'anni una sera m'aggredì accusandomi d'esser nato già morto e di non essermene accorto, di esser già pronto per diventare nutrimento a quella terra che amavo tanto. Mi lanciò anche una maledizione, augurandosi di vedermi morire di fame a causa della mia cara terra, perché se non tenevo alla comunità, la comunità non si sarebbe curata di me, al bisogno. Il padre la riprese e la spedì a casa. Mi faceva pena il povero padre, quella ragazza in età da marito tanto poco accostumata a parlar con gli altri, tanto spregiudicata da accusare un uomo in pubblico, senza pudore e senza rispetto. Quella sera tornai a casa presto, mi misi a letto ma il sonno non veniva, il che era strano. Mi trovai a ripensare alle parole della ragazza, al fuoco nei suoi occhi. Come doveva essere avere un fuoco che arde dentro con così tanta forza? Io non lo avevo mai sentito. Doveva essere un incomodo notevole, una grave minaccia alla serenità. Mi trovai a pensare a quella ragazza che tutti chiamavano Lucina, ma tutti sapevano in paese che il suo nome vero era Lucrezia. Mi tornarono in mente le parole di mio padre. Era vero in fondo che il mio nome mi aveva reso più facile la vita, forse ad esser Tommaso quel fuoco avrebbe preso anche me. Invece Maso era stato risparmiato e poteva dormire tranquillo nel suo lettino, al sicuro nella sua casetta, circondato dalla sua terra.


prompt: Vacillare/Esitare


Mi sono imbattuta nella storia di Cospaia qualche anno fa e la mia mente non ha smesso di fantasticare in proposito, ho approfittato di nuovo della bella challenge LeTrasformazioni Elementali, indetta dal forum Torre di Carta e ideata dall'impagabile Black Friday, per mettere ordine nei milioni di appunti e di idee.
Esiste davvero questa minuscola repubblica, o meglio è esistita. Nalla cacofonia di stati che è stata l'età moderna in Italia, c'era una striscia di terra di circa 3 chilometri quadrati, completamente autonoma da qualunque potere. Erano i contadini, analfabeti e ignoranti a governarsi da sè in una forma di governo incredibilmente democratica. Non tutto è oro ovviamente, ma mi ha affascinato talmente tanto da voler cercare di immaginare la storia dal punto di vista di possibili abitanti del posto. Non vi aspettate una ricostruzione storica, ho un'idea molto romantica della vicenda, solo mi sembrava un buono spunto per parlare di tante cose, e allo stesso tempo per rendere un poco nota questo pezzettino di storia italiana. 

 

   
 
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