La
luna era vestita di rosa quella sera e le nuvole tozze e morbide che le
facevano da spalla la rendevano simile a una granita al lampone.
Altair
abbassò gli occhi sul profilo della compagna, pensando che il colore del lampone
tornasse anche su quelle labbra sottili ma taglienti, assolutamente capaci di
difendersi. Si sposavano bene con la tinta biondo pallido che ormai scopriva
una ricrescita scura, mentre la piccola crocchia fermata sulla nuca dava la
possibilità di apprezzare il collo sottile e la forma leggermente appuntita
delle orecchie. Lui tornò a guardare di fronte a sé per evitare di perdere l’equilibrio;
il muretto su cui stava camminando era abbastanza largo, ma non al punto da
eccedere in spavalderia: un passo falso e si sarebbe fatto quasi due metri di
caduta, anche se il rischio era accettabile, considerata la piacevole distrazione
che aveva a fianco.
La
ragazza strinse la birra da un quarto di litro fra le dita della mano,
bagnandosi la gola, e un leggero venticello di fine estate le mosse le pieghe
del vestito nero a fantasia arancione che le stringeva il corpo minuto in un
abbraccio morbido. Altair tornò a guardarla, non potendo fare a meno di
immaginarsi come quel vestito sarebbe stato più bello sfilarglielo. Lei gli
sorrise, sapendo che la stava guardando, e Altair non mostrò nessun imbarazzo
nel farsi scoprire. Fosse stato per lui, le avrebbe detto chiaramente cosa gli
ispirava seduta stante, ma aveva imparato che la strategia del flirt aperto
rimbalzava inefficace sulla pelle di quel diavolo vestito da angelo.
–
Simpatico il tuo amico. –
Disse
lei, scuotendo la birra di cui era rimasto solo il vetro. Lei guardava verso
l’alto e Altair verso il basso, così che i loro occhi si incontrassero
attraverso una perfetta linea retta obliqua. Altair fece spallucce e strinse i
pugni nelle tasche dei jeans, avendo consumato e gettato via la sua birra molto
tempo prima di lei.
–
È utile quando serve. –
Lei
rimase a guardarlo, cercando di infilarsi sotto l’ombra del suo cappuccio che
rendeva difficile capire se stesse sorridendo. Lui si guardava le scarpe, per
nulla infastidito da quel silenzio.
–
È la terza. –
Disse
lei richiamando l’attenzione della controparte. Altair si voltò, sul viso un
velo di stupore e gli occhi ora incollati sul petto della ragazza.
–
Serio? Avrei detto una seconda. –
–
Cioè? –
L’espressione
sul viso di lei gli fece immediatamente capire che qualcosa era andato storto
nel loro ultimo scambio verbale. E sì, probabilmente aveva appena fatto una
gaffe sulla grandezza del suo seno.
–
Niente, scusa. –
Altair
nascose gli occhi sotto al cappuccio e tornò a guardarsi i piedi. Si sentiva
stupido, ma non riuscì a nascondere un sorrisetto compiaciuto.
–
È la terza uscita che facciamo insieme. –
Continuò
la ragazza, correggendo l’imperfezione dei suoi pensieri. L’uscita, certo,
ovvio. Perché avrebbe dovuto fare un riferimento alla grandezza del suo seno
con un commento bruciapelo ed estraneo ad ogni precedente argomentazione?
–
Mh mh. –
Mugugnò
Altair fingendo che fosse stato tutto chiaro fin dall’inizio.
Gli
occhi della ragazza si fecero felini e inclinò il viso, lasciando che la
frangetta le carezzasse la tempia.
–
Che avevi capito? –
Altair
si voltò a guardarla, incapace di sfilarsi quel sorriso dalla faccia.
–
Nulla. –
Rispose
senza pensare, come era abituato a fare. Le sopracciglia della bionda si
incurvarono verso l’alto, rivelando tutta la soddisfazione per quella risposta
con cui si era praticamente dato dell’idiota da solo. Per questo, Altair si
affrettò a correggersi.
–
Nulla di diverso, intendo. –
La
bella gli sorrise, divertita da quel gioco di allusioni, e lasciò che
risuonasse fra loro solo il rumore dei suoi sandali dal tacco modesto. Altair
saltò giù dal muretto, atterrando a un metro da lei.
–
Che programmi abbiamo? –
Domandò
il ragazzo accostandosi alla ragazza come un cane si accosta al padrone. Lei
non lo guardò e rispose come una guida turistica che introduce il nuovo
monumento a cui si va incontro.
–
Mi riaccompagni a casa. –
Il
piazzale in cui si immisero era vuoto, abitato solo da due gatti randagi che
annusavano l’erba umida della rotonda al centro. Poche macchine in giro: il
mercoledì sera dei lavoratori era fatto di pantofole, film in streaming
interrotto a metà e spegnimento luci prima dello scatto della mezzanotte.
–
Ma sono solo le dieci e mezzo. –
Ribatté
Altair sentendosi all’inizio di una festa bruscamente interrotta.
–
E domani c’è scuola. –
Aggiunse
lei col tono paziente di chi si rivolge a un bambino di tre anni; oppure a una
persona stupida.
–
Un ultimo locale. –
Propose
il ragazzo allergico alla resa senza lotta. Lei lo guardò con la stessa
espressione di una sfinge e fece no con la testa, scostando gentilmente la sua
richiesta nel cestino. Altair scalciò mentalmente, troppo stregato per
accettare così presto un rifiuto, ma anche troppo cauto per imporre la sua insistenza.
–
Allora passeggiamo un altro po’? –
Propose,
sforzandosi di marcare col tono la presenza di un punto interrogativo alla fine
della frase. Lei sembrò pensarci, o almeno finse bene, poi piegò le labbra
all’ingiù e scostò anche quella proposta, servendosi solo di una smorfia mentre
i suoi occhi chiari brillavano sotto la luce di un lampione. Il ragazzo si
sentì castrato, proprio nel momento in cui cominciava ad avvertire il prurito
della malizia.
–
Devo svegliarmi presto domani. –
Disse
lei per giustificarsi, senza preoccuparsi troppo di risultare credibile. Altair
allungò il passo superandola e cominciando a camminarle davanti procedendo
all’indietro come un gambero. Lei lo guardò come un bambino guarda un delfino
dietro il vetro di un aquario.
–
Andiamo, ci sono tante cose che ancora possiamo fare. –
La
ragazza guardò il cielo, chiedendo aiuto.
–
Del tipo? –
Altair
interpretò quella domanda come un’occasione, e cercò di non sprecarla.
–
Potrei mostrarti qualcosa di interessante. –
Un
sopracciglio della ragazza si alzò, sospettoso quanto intrigato, e lasciò
uscire dalle labbra una voce così morbida da sembrare avvolta in una nuvola.
–
Mostrami. –
Altair
si sentì pizzicare nei pantaloni, e il cuore gli batté più forte quando si
accorse di avere concentrate su di sé tutte le attenzioni di quella bomboniera
così difficile da scartare. Strizzò un occhio alla ragazza da sotto il
cappuccio, liberando le mani e voltandosi per individuare al più presto gli
strumenti con cui avrebbe potuto impressionarla: c’era una panchina, un muro di
pietra, un palo della luce. Più che sufficiente per farsi ammirare e rendersi
degno di un premio che prevedesse come minimo l’unione delle loro bocche.
Inspirò
tutto l’ossigeno possibile nei polmoni e scattò: curvò la schiena, sciolse il
bacino, tese i muscoli e corse. Come un proiettile silenzioso il suo piede
destro si poggiò sul primo bordo della panchina, poi subito il sinistro sulla
curvatura superiore dello schienale, e lì balzò avanti e danzò in aria con una
capriola che tagliò l’aria fresca come un fendente. I suoi piedi atterrarono
con un tonfo che servì solo a scandire il ritmo dello scatto successivo,
direzione lampione.
Nell’aria
si sentivano solo i polmoni del ragazzo che si espandevano nella cassa toracica
risucchiando l’aria di cui il suo corpo aveva bisogno per quella performance.
La sua mano si attaccò in corsa al palo, e il suo corpo si lanciò in aria
subendo la forza centripeta che gli permise di roteare intorno all’asta con le
ginocchia quasi al petto, contraendo gli addominali allenati per mantenersi
teso e aggraziato. Riatterrò senza ancora preoccuparsi di lanciare un occhio
alle reazioni della compagna; sapeva che se avesse incrociato adesso il suo
sguardo avrebbe preferito tenergli gli occhi incollati addosso e immaginarsi
come fosse il resto di quelle gambe coperte dal vestito. Ma il suo spettacolo
non era ancora finito.
Con
un unico movimento fluido continuò la sua corsa sull’asfalto, carburando come
una vettura in quarta, pronto a concludere in bellezza su quella parete
mattonata che aspettava solo di essere aggredita dalle sue scarpe. Alzò la
gamba e poggiò tutto il peso del corpo sulla punta, liberando poi energia
sufficiente per slanciarsi all’indietro e avvitarsi, capovolgendosi
completamente e atterrando infine con entrambi i piedi a terra. Era fatta, e
l’aveva fatta anche bene, se proprio doveva essere onesto.
Si
fermò dov’era e si voltò subito verso la sua unica spettatrice, respirando col
naso perché la bocca era troppo impegnata a tener su un sorriso fiero e soddisfatto.
La grandezza di ciò che aveva appena fatto non poteva essere negata: c’era
fisicità, forza, mascolinità, eleganza e fluidità. Avrebbe scaldato quegli
occhi di ghiaccio che lo guardavano in modo fin troppo superficiale, e li
avrebbe sciolti al calore del suo fascino.
Poi
le aspettative si scontrarono con la realtà: la ragazza era lì in piedi ad
alcuni metri di distanza che lo fissava atona, come chi ha appena finito di
vedere un film di Lynch. Teneva la birra in mano, col gomito piegato a novanta
gradi e i ciuffi della frangetta mossi da un leggero venticello che le
accarezzavano le tempie. Sembrava tutto fuorché impressionata, ma ancora peggio
era pensare che non avesse nulla da dire nemmeno in negativo. Altair era –a
volte– in grado di incassare una critica, se onesta, ma il silenzio e
l’indifferenza erano reazioni che lo facevano impazzire, risultandogli intollerabili.
Ruotò
più sul fianco per averla completamente frontale, e appena il suo sorriso
cominciò a incrinarsi e le sue labbra ad aprirsi per chiedere le spiegazioni di
quel mutismo, la fata maligna parlò, salvandolo dal baratro.
–
Lo sapevo che venivi dal circo. –
Il
vento che soffiò tra loro fece da cerniera ai rispettivi pensieri: quasi
assenti, quelli di lei, stimolati, quelli di lui.
Era
divertente la ragazza, tagliente al punto giusto da apprezzare l’odore delle
ferite che lasciava; ma Altair non poteva fare a meno di domandarsi se quella
lingua fosse così sciolta e spigliata anche in contesti più orizzontali. Le
pieghe del suo vestito mosse dal vento le accarezzavano le gambe chiare e
pallide, i suoi occhi continuavano a ipnotizzare l’atleta, e le sue labbra
curve in un sorriso di fine estate facevano il resto.
Altair
sorrise, e poi rise pure. Si ficcò le mani nelle tasche e cominciò ad
avvicinarsi, dondolando più che camminando, e chinando la testa come un bambino
che sa di averla fatta grossa. Arrivò di fronte a lei e lì finalmente alzò gli
occhi per incontrarla.
–
Sei buffa. – Disse sorridendo con gli occhi e la bocca.
Lei
sembrò sorpresa.
–
Sei strano. –
Altair
allargò le gambe piantandosi bene a terra coi piedi, mentre le mani nelle
tasche della felpa si stringevano in due pugni. Il suo sorriso si allargava ad
ogni battito di ciglia, ed era piuttosto evidente il piacere che provava nello
stare lì semplicemente a guardare i suoi lineamenti testardi che trasmettevano
avversione. Gli piaceva; gli piaceva proprio.
–
È più strano che io ancora non sappia il tuo nome. – Commentò tentando una
strada in salita. Lei sbatté gli occhi e finse.
–
Cosa dici? Sai benissimo come mi chiamo, te l’ho detto. –
Incrociò
le braccia sulla vita, rendendo più evidente il seno piccolo, ma prezioso.
Altair restò soddisfatto di aver previsto la sua reazione.
–
Lo so che non ti chiami Nero Di Seppia. – Disse trattenendo un ammicco con
l’occhio.
La
ragazza fece per indignarsi e scrollò le spalle.
–
Come ti permetti? Quello è il mio nome. –
Altair
cominciò a fremere: aveva voglia di baciare quelle labbra mendaci. Era
divertente: la sua ironia, il suo gioco, il suo tener viva la fiamma della
curiosità e dell’attesa. Ma la fanciulla doveva fare anche attenzione a non
bruciarsi, perché quando Altair si scaldava, faceva un gran fuoco. Avrebbe
scoperto il suo vero nome, la caccia sarebbe stata anche più divertente della
ricompensa, e il fatto che dopo più di tre settimane lei volesse ancora
mantenere segreta la sua identità, non faceva che stimolarlo e incentivarlo nel
percorso. C’era un equilibrio erotico in quel tira e molla fatto di una
concessione ogni tre respingimenti.
–
Allora siamo pari in stranezza. – Disse Altair in un soffio, non pentendosi di
nulla in quella serata e inclinando la testa di lato. Voleva sembrare tenero, un
bravo ragazzo, perciò non le avrebbe mai detto che stava cercando la strada
giusta per infilarsi dentro le sue mutandine o, se proprio gli fosse andata
male, dentro la sua bocca.
Lei
scosse debolmente la testa, poi agitò la birra vuota nella mano.
–
Accompagnami a casa. –
Aggiunse
con un imperativo, castrando ancora una volta i sogni del ragazzo.
Gli
angoli della bocca di Altair colarono come brodo verso il basso, lenti e inesorabili,
e le sopracciglia si curvarono in un’espressione delusa. Aveva perso, e
stavolta sentiva fosse per davvero. Lei lo sapeva, ovviamente, e trovò che non
ci fosse altro da dire. Bastarono i loro sguardi a raccontarsi come avrebbero
concluso quella serata. Lui inclinò il viso e cominciò a ruotare su un fianco,
pronto a partire per l’ultima passeggiata che li separava dal commiato. Lei lo
seguì, petto gonfio e fiero, con un sorriso da piedistallo.
Non
parlarono più. Il rumore dei loro passi sul marciapiede infossato suonava come
il ticchettio di un orologio. La luce morbida e arancione dei lampioni creava
un contrasto onirico e dalle tinte elettroniche sui corpi dei due ragazzi. Lei
sembrava a suo agio nel silenzio, almeno quanto lui, e ogni tanto ingannava la
noia infilandosi le dita nella frangetta e sistemandosela, nonostante Altair la
trovasse perfetta già così. Il ragazzo, allo stesso modo, si inzuppava con
facilità in quel guscio fatto solo di passi e di sguardi, di pensieri
sussurrati e di spalle che si urtavano.
Non
era la fine del mondo. Come aveva detto lei, era solo la terza uscita. C’era
tempo, c’era speranza. Soprattutto c’era desiderio, ed era ciò che contava. Se
si fosse esaurito quello, a nulla sarebbe valso il resto.
La
ragazza si arrestò in modo brusco in mezzo alla strada: durante una serata
infrasettimanale in quella zona tranquilla, potevano permettersi di opporsi
alle regole civiche e lasciare il marciapiede ai pavidi e agli abitudinari. Altair
si inchiodò sorpreso: i suoi occhi erano stati così immersi nei pensieri che
aveva fatto a malapena caso a dove metteva i piedi e al tempo che scivolava
via, come crema solare che si scioglie sulla schiena. Quell’arresto significava
che erano arrivati?
Lei
fece spallucce e inarcò le sopracciglia, un’aria sbarazzina sul viso e il
braccio con la bottiglia della birra teso di fronte a sé, verso il ragazzo.
Altair
continuava a non capire, ma non gli importava. Bastavano la curiosità e i suoi
occhi chiari a fargli muovere i piedi. Sorrise, di nuovo alla maniera furbetta
e di chi ha già in mente la mossa successiva. A ogni passo aveva la sensazione
che il loro tempo insieme si stesse accorciando, ma lo manteneva positivo
l’autoimposta certezza che qualcosa di buono sarebbe successo quella sera. E
con buono intendeva che l’avrebbe baciata, almeno.
Altair
le arrivò di fronte, fermando l’addome a pochi centimetri dalla bottiglia.
Guardò la birra, poi lei, inclinò il viso e attese.
–
Buttamela, tornando a casa. – Col sorriso di una Mona Lisa aspettava che il
ragazzo la liberasse di quel peso quasi inesistente e nel frattempo si nutriva
della sua reazione che univa spavalderia e un tocco di flirt; ed era un
cocktail che cominciava a piacerle. Altair fece finta di sorprendersi, si
guardò intorno e sollevò un angolo della bocca verso l’alto.
–
Tu dormi qui? – Domandò con la sua ironia soffice e sussurrata. Poi aprì la
mano sul fondo della bottiglia e ci strinse le dita intorno, appropriandosi
dell’oggetto.
Lei
sembrò pensarci.
–
Quasi. – Lasciò il collo della birra e tornò con entrambe le mani libere, si girò
e cominciò ad avvicinarsi al marciapiede. Altair la seguì con lo sguardo, dando
retta a un suggerimento nella testa che gli diceva di non andarle dietro. La
tracolla a catena della piccola borsetta che indossava tintinnava ad ogni suo
passo, rendendo la sua figura ancora più preziosa e difficile da lasciare andar
via. Arrivò al portone di legno verniciato, accarezzandolo con una mano. Si voltò
e gettò gli occhi sul ragazzo, che la fissava godendo di una ricompensa solo
immaginaria. Lei sorrise e sembrò dover aggiungere qualcosa, aprì la borsetta
mentre i grilli frinivano e le tortore della sera cinguettavano, ricordando ai
due che era l’ora di abbracciare Morfeo. Al tintinnio della catenella si unì
quello delle chiavi, che tirò fuori come una prova schiacciante dell’amara evidenza:
abitava lì, proprio a quel portone. E la serata era conclusa.
Impugnò
una delle chiavi del mazzo, incrociando le gambe in una posa da sirena.
–
Buonanotte Altair. –
Lui
strinse la bottiglia e lasciò ricadere il braccio lungo il fianco, l’energia
ancora sufficiente per combattere ma col traghetto del corteggiamento già
salpato. Spostò i piedi, dondolò, guardò a terra e di lato, indugiò ma poi si fece
forza, e mettendo su l’ultimo dei suoi sorrisi sbarazzini, si avvicinò a lei.
–
Ti do la buonanotte. – Disse, ormai a pochi metri dalla ragazza illuminata ora
sul viso da un velo di diffidenza. Non era sciocca, non era ingenua, e
soprattutto non sognava i grandi sospiri romantici delle sue coetanee; perciò
lesse perfettamente le intenzioni del ragazzo nascoste dietro a quel sorriso da
scavezzacollo, riservandogli la seconda delle castrazioni della serata e
condannandolo alla sterilità.
–
L’hai appena fatto. –
Quella
bellezza, tanto nobile quanto spietata, gli voltò le spalle impietosa e girò la
chiave nella serratura, aprendo il pesante portone con la naturalezza di un’ape
in volo e la forza di un’amazzone a cavallo: una visione che Altair non riuscì
a sostenere senza arrestare la sua avanzata. Aveva bocciato la sua proposta.
Evidentemente non aveva mai sentito parlare de “il bacio della buonanotte”.
Nascosti dall’ombra del cappuccio, gli occhi di Altair cercarono affamati il
suo viso, che ritrovò solo quando lei si voltò, ormai completamente infilata e
nascosta dietro la fortezza di legno che la faceva sentire al sicuro contro le sue
insistenze. Tuttavia, anche se le avrebbe volentieri dimostrato il contrario,
Altair non se la sentì di incrinare quel sottile equilibrio fatto ancora di
piccoli traguardi, da gustare come un sogno in miniatura. Avrebbe accettato di
lasciarla in pace; per quella sera.
Il
ragazzo sollevò la mano libera, mostrando il palmo aperto in cenno di saluto –e
di resa.
–
Okay. – Si limitò a rispondere con un sorriso deluso, ma pur sempre un sorriso.
Lei
non finse nemmeno di ricambiare l’espressione. Stava lì, con il solo volto
fuori dalla porta ad aspettare che quella figura molesta e buffa se ne andasse.
Si mordeva il labbro inferiore, fallendo nel tentativo di nascondere un certo
diletto nel partecipare a quella caccia frustrata che la nobilitava a preda
rara e ambita.
–
Ciao. –
Altair
ruotò sui piedi in un movimento lento, dicendo addio al marciapiede che era
stato a un passo dal raggiungere. Superò la fila delle macchine parcheggiate e
tornò sulla strada, strusciando le suole delle scarpe sull’asfalto nel
tentativo di grattare via un po’ dell’amaro della sconfitta, e anche parte di
un certo prurito nei pantaloni a cui avrebbe dovuto dar sollievo a casa; da
solo; nella sua camera.
–
Lucy. –
Quella
voce, nel suono morbida come un germoglio, gli arrivò nel contenuto come una
lama nella spalla, facendogli svuotare lo stomaco nel tempo di un respiro che
gli si strozzò in gola; qualcuno gli aveva aperto una botola sotto i piedi e il
suo unico appiglio era una birra vuota nella mano.
Si
voltò prima ancora di fermare i piedi, ricongiungendosi in linea retta con gli
occhi di lei, ora più distanti ma di nulla meno magnetici. Il suo corpo ancora
nascosto dietro il portone, ma adesso un vento tiepido lasciava sporgere delle
piccole pieghe del suo abito, e permetteva ai ciuffi lisci della frangetta di
solleticarle la fronte di perla.
Lui
non osò parlare: troppa la paura di interpretare male; troppo il calore che
dalle viscere gli si irradiava per il corpo e gli arti, serrandogli le labbra;
troppo semplicemente il timore di dire la cosa sbagliata e lacerare quella fragile
magia come una tela vecchia.
–
Mi chiamo Lucy. –
Tornò
a parlare lei, col tono di una Musa che sussurra all’orecchio dello scrittore
la prossima storia. Lasciò scappare un sorriso su quelle labbra fredde, col
freno a mano disinserito, e chiuse nel più suggestivo dei modi quell’incantesimo
con cui teneva in pugno Altair, in piedi ma comunque steso, senza altri assi
nella manica. Come acqua fra le mani, Lucy scivolò via tirandosi indietro
lentamente, lasciando che la porta ingoiasse la sua figura. Altair ebbe solo il
tempo di accarezzare con gli occhi l’ultimo balenio proveniente dai suoi occhi
vispi e paghi dell’assoluta vittoria su tutti i possibili fronti.
Il
portone si chiuse e il rumore metallico della serratura che scatta fu l’ultimo
atomo a frapporsi tra Altair e i suoi pensieri. Ingoiò e sbatté gli occhi,
accompagnato solo dagli ultimi fruscii di quel vento che appena pochi secondi
prima aveva mosso la frangetta della ragazza. Di Lucy.
Lucy.
Quel nome gli risuonava in testa come una melodia che non si riesce a dimenticare.
Gli sembrò così perfetto che si chiese come aveva fatto a non indovinarlo
prima, come se quella creatura misteriosa non potesse chiamarsi in altro modo.
Un triangolo nero si dipinse sulla bocca quando schiuse le labbra, mormorando
fra sé:
–
Lucy. – Aveva bisogno di ripeterlo, di abituarsi all’idea. In fondo, era come
se si fossero presentati adesso per la prima volta. Altair e Lucy, Lucy e
Altair. Abbassò la testa, infilandosi ancora di più nel cappuccio, e si ficcò
le mani in tasca voltandosi, ben sapendo che non ci sarebbe stato nessun
post-credits. Cominciò a camminare ondeggiando, neanche avesse bevuto sei birre
invece di una; i suoi pensieri oscillavano, e così pure il suo passo. Sentiva
che aveva perso, ma non poteva dire che la scoperta del suo vero nome non
contasse nulla. Forse era una piccola consolazione che lei aveva voluto fargli
perché si era comportato bene? Quell’idea gli tese all’insù gli angoli della
bocca.
Sia
sconfitto che premiato, il suo spirito volava alto in quel cielo stellato, fiero
di averle strappato la migliore buonanotte, anche se dal tocco stravagante. Ma
andava bene così: era lei ad essere la perla rara nella sua bizzarria,
adescatrice di chissà quanti sguardi curiosi fra i quali però aveva scelto lui.
Almeno, così ad Altair piaceva raccontarsela. Saltò su un muretto e lì continuò
a camminare veloce, rifornito di un’energia tutta nuova che aveva bisogno di
scaricare in qualche modo.
Nero
di Seppia non era male, adesso che ci pensava. Fra tutte le trovate che gli
aveva riservato, quella del nome era stata sicuramente la più spassosa ma,
rispetto a quel Lucy così vellutato e
sintetico, non poteva reggere il confronto. Se lo ripeté almeno dieci volte di
fila, muovendo solo le labbra, senza suono. Come un allenamento, così che la
mattina dopo avrebbe potuto pronunciarlo nel migliore dei modi, con la tonalità
bassa e calda di chi quel nome sogna di sussurrarlo sdraiato su un letto.
Con
la volontaria confessione della sua vera identità gli era stato garantito il
permesso a continuare la caccia. E lui non aveva ancora nessuna intenzione di
cedere; troppo ghiotta la posta in gioco. Saltò giù dal muretto, continuando a
sorridere da solo e non riuscendo a smettere; stavolta neanche il cappuccio
avrebbe potuto nascondere la sua espressione beata ed emozionata come quella di
un bimbo al suo primo Natale. Alzò lo sguardo rivolto alla luna, ancora tinta
di rosa, e pensò che sarebbe arrivato anche fin lassù pur di dimostrare quanto
valeva a Nero di Seppia. Cioè Lucy.
Teneva
stretta fra i denti quella felicità, sforzandosi per non gridare in strada a
pieni polmoni e far sapere a tutti che lui, a quell’ora della notte tornando a
casa, era un bombolone di gioia pronto ad esplodere. Un missile di sedici anni
che aveva voglia di schiantarsi sul letto della sua stanza, ma non per dormire,
solo per attendere che quelle ore della notte passassero velocemente e
incontrare di nuovo la ragazza strana ma vispa, buffa ma scaltra, autentica e
intrigante.
Persino
il prurito nel basso ventre era scomparso, troppo stravolto dalla sorpresa di
quel nome per potersi ricordare che aveva intenzione di baciare le sue labbra,
farle scivolare i vestiti di dosso, sentirla fremere sotto le sue dita. Per
adesso godeva di quelle due sillabe ripetute dentro la bocca. Le masticava bene
e poi le riassaporava, facendo ginnastica con la mascella, mentre la luna lo
osservava candidamente donandogli un po’ del suo rosa pallido.
Per
strada solo il rumore dei suoi passi e un nome bisbigliato, che continuava
leggero il suo corso su fra i soffi d’aria, tra le foglie dei rami più alti,
perdendosi nella notte e nei suoi pollini, nel silenzio del buio, e in tutti quei
pensieri che non appartengono all’alba.