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Autore: cenerella    01/12/2016    5 recensioni
Un omaggio alle grandi donne che hanno accompagnato il nostro crescere e che, in qualche modo, ci hanno rese le donne che siamo.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Picagette

 
In questa storia ci sono le mani delle donne. E un filo rosso lunghissimo che parte da lontano e arriva fino a me e oltre. Dita sottili lo hanno infilato in un ago e hanno ricamato le iniziali di quelle ragazze sulle lenzuola in modo che non ci fossero dubbi sulla proprietaria se la corrente del fiume le avesse portate via. Rosso perché era il colore che resisteva di più ai lavaggi, o forse perché non c’era molta scelta. Tra quelle lenzuola hanno amato, hanno pianto, hanno concepito e partorito figli. Le più preziose, ricamate dalle monache di clausura, sono finite al Monte dei Pegni e non sono più tornate. La maggior parte sono state usate e consumate, strappate e ridotte in strisce per fasciare i bimbi o in pezze per tamponare il sangue mensile. Le parti meno consumate, quelle che più spesso conservano le cifre ricamate, sono state tagliate e orlate e sono diventate picagette, strofinacci da cucina.

AM. Adele Montanari, andata in sposa al mio bisnonno nei primi anni del novecento, morta di parto prima di compiere venticinque anni, è tutto quello che so di lei. Di Adele rimangono una foto, forse del giorno delle nozze, e un anello con un brillante appannato.

ET. Elvira Tortelli, che ha allevato i tre figli di Adele. Le sue iniziali sono intarsiate in mogano e ciliegio sul coperchio di una scatola da ricamo. Probabilmente ricamava, di sicuro era una cuoca “finita” perché dei suoi ravioli conservo un ricordo lontanissimo ma nitido. O forse ricordo quelli di mia nonna, che li aveva imparati da lei e li confondo. Elvira è morta l’anno della mia prima comunione. Era la mia bisnonna, l’unica che ho conosciuto, non di sangue ma del cuore.

Teresa non era un granché come cuoca, non potendo stare in piedi a lungo perché aveva una gamba più corta dell’altra a causa della polio. Dotata però di mani d’oro, ricamava. Aveva iniziato bambina in collegio a lavorare la lana ai ferri per fare sciarpe da mandare ai soldati in trincea: “La mia la mando al General Cadorna!”, diceva, e forse sognava un ufficiale. Invece sposò un operaio dell’Ansaldo innamorato dei suoi lunghissimi capelli neri a onde e morì vecchissima. Mi ha insegnato a ricamare e a barare a canasta.

Sua sorella minore, Luigina, aveva mani piccolissime e le sue dita affondavano dentro la pasta pallida, magra, con tre sole uova dentro mezzo chilo di farina. Niente a che vedere con la sfoglia gialla che nonna Rosa portò dall’altra costa. Un uovo - uno d’oca, quando c’era -  per ogni etto di farina da impastare e dopo stendere la sfoglia da tagliare col coltello per fare tagliolini e vincisgrassi. Nonna Rosa non parlava l’italiano e dava agli attrezzi da cucina nomi esotici, che sono rimasti appiccicati al lessico quotidiano della mia famiglia, facendo trasecolare prima me e dopo mia figlia, quando abbiamo scoperto che la cucchiaretta in italiano si chiama in un altro modo. Portò anche lenzuola ruvide come la sua sfoglia, di un tessuto misto lino e canapa, che sua madre Antonia tesseva in casa su un telaio di legno.

I miei ricordi più nitidi cominciano qui.
Ci sono due bambine, la settimana prima di Natale, in piedi davanti all’alto letto matrimoniale dei nonni coperto da tutte le assi di legno che si trovano in casa. La più piccola ha ereditato dal bisnonno una testa di riccioli color carota, l’altra sono io. “Contate i ravioli, senza mangiarveli crudi!” ci dicono per tenerci fuori dai piedi e dalla cucina, mentre mani veloci slegano i mazzi di buraxe, selvatiche nei campi e infestanti nell’orto, le fanno bollire e dopo le strizzano forte e la aggiungono alla carne del tocco macinata finissima, insieme ai pinoli e alle uova e al parmigiano, alla noce moscata e alla maggiorana. Le file di ravioli aumentano a dismisura sul letto, stese sugli strofinacci fatti con i pezzi delle vecchie lenzuola, ed è come se tutte le antenate che le hanno ricamate e poi ci hanno dormito vegliassero sulla loro preparazione. Le bambine ridono, il ditino puntato e l’espressione concentrata, e poi fanno la moltiplicazione, perché questa è una gara con le vicine di casa a chi ne ha fatti di più.

C’è Linda, mia madre, la custode dell’ortodossia in cucina, che non sgarra di un grammo dalla ricetta scritta e mai si permetterebbe di aggiungere o togliere qualcosa. Fa il sugo per i ravioli che qui si chiama tocco. Un bel pezzo di carne di vitellone, gli odori, i funghi secchi ammollati e i pinoli. Poi il vino bianco e i pelati. A lei l’hanno mandata ad imparare a ricamare dalle suore ma era troppo precisa e poco fantasiosa, così ha imparato solo a fare l’orlo a giorno. Chilometri di orlo a giorno, come quelli percorsi dal treno che l’ha portata qua, con cambio a Bologna e a Voghera. Un sacco di ore di viaggio, tante quasi quanto le ore che il tocco deve stare nel tegame di coccio, a cuocere a fuoco lentissimo, prima di poter andare a condire i ravioli.

Ci sono le mani di Norma, mia suocera, che non ho mai conosciuto. Imparò da sua madre Caterina a fare i culurgiones di ricotta, patate e zafferano, e la ricetta è arrivata a me attraverso mia cognata Luisella: porto come una medaglia al valore l’approvazione di mio suocero la prima volta che li ha assaggiati.

C’è Alba, la moglie di mio zio, che non ha avuto figlie femmine e che mi ha regalato una tovaglia di lino che deve avere più di cent’anni. E federe con le cifre ricamate da una ragazza di ottant’anni fa, EB.

Infine c’è Martina Norma, che porta i nomi di un santo generoso e di sua nonna. Non è ancora un granché come cuoca, ma impasta volentieri. Le sue mani piccole e decise affondano nel composto di uova e farina e le sue dita corrono veloci sullo schermo dello smartphone mentre scrive, fintamente scocciata “Ogni volta che torno a casa, mi mettono ad impastare. Forse era meglio se, anziché studiare Relazioni Internazionali, avessi aperto un negozio di pasta fresca.”

E poi ci sono ancora io, che stendo indifferentemente la sfoglia per i tagliolini all’uovo, per i culurgiones e per i ravioli che non ho mai più contato. Ripeto i gesti antichi che forse ho appreso in sogno, perché non ricordo di averli imparati, e avvolgo la pasta negli strofinacci ricamati, come se le mani di quelle che sono venute prima di me potessero cullarla e accarezzarla per farla riposare.

Lessico
Vincisgrassi: Ascoli Piceno, lasagne di pasta all’uovo condite con un sugo di fegatini di pollo e cotte al forno
Cucchiaretta: Ascoli Piceno, schiumarola
Picaggetta: Genova, strofinaccio da cucina
Buraxe: Genova, borragine. Ingrediente principale dei ravioli
Tocco: Genova, sugo di carne
Culurgiones: Nuoro, ravioloni di semola ripieni di ricotta, patate, zafferano e buccia di limone


Note e doverosi ringraziamenti: erano mesi che non mi rigiravo nel letto senza riuscire a prendere sonno perché le parole prudono sulla punta delle dita dalla voglia di scrivere una storia. Quindi grazie a Licia che ha iniziato con la ricetta dei tortellini e a Chiara che ha scritto “bella l’immagine delle antenate” nello stesso momento in cui io lo stavo pensando. In questo racconto ci sono tante storie, quelle delle donne della mia famiglia ma anche quelle delle compagne di strada le cui chiacchiere leggere e i racconti dolorosi fanno da sottofondo alle mie giornate come se fossimo attorno ad un tavolo di cucina ad impastare o a prenderci un caffè. Tutto questo, per le vie strane che percorrono le storie, è arrivato fino a me e io ho solo messo le parole in fila.
Grazie come sempre a Vannagiò, impareggiabile beta e insostituibile prontosoccorso informatica.
cen.
   
 
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