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Autore: MaDeSt    01/12/2016    5 recensioni
Prologo della storia "Dargovas" ambientato un centinaio d'anni prima, racconta dell'evento che sarà uno dei pilastri della serie; ciò che ha dato origine agli Spettri e scatenato la guerra tra Spettri e Umani.
So che è in circolazione da un bel po' ma lo sto definitivamente separando dal resto della storia.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Dargovas'
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NOTE DELL'AUTRICE
Il prologo serve solo a capire meglio parti della storia che verranno molto più avanti, la vera storia la trovate QUI. In poche parole, il prologo è facoltativo.
Gruppo Facebook in cui potrete trovare disegni (che non pubblicherò più su EFP salvo eccezioni), sondaggi e dizionari che spiegano le lingue incomprensibili.

Il colore del titolo del capitolo corrisponde al colore della regione in cui la storia al momento si svolge, tenete d'occhio la mappa per sapere dove ci troviamo!

THE BIRTH OF THE FIRST WRAITH

In una luminosa giornata d’estate, nel folto di una foresta dai tronchi chiari e le foglie aranciate, due elfi si guardavano negli occhi, un maschio e una femmina, si sorridevano dolcemente attendendo con ansia il momento più importante della loro vita. Sostavano in piedi l’uno di fronte all’altra.
Lei, sopra la pelle ambrata, indossava alti stivali chiari e una veste giallo paglierino che le lasciava scoperta la schiena, sostenuta al collo da un anello d’oro, spezzata all’altezza della vita da una cintura decorata da una pietra blu cobalto e circondata da raggi sinuosi a emulare un sole. Ai polsi e a un braccio portava bracciali d’oro dai quali pendevano altri veli tanto leggeri da essere trasportati dalla brezza lieve, e all’orecchio destro una catenella d’oro pendeva tra un anello sulla punta e uno sulla parte inferiore del lobo. Una piccola pietra scintillante quanto un diamante inoltre impreziosiva la sua narice destra.
Lui invece vestiva di toni più freddi, con una lunga veste dagli ampi spacchi sui fianchi portata sopra un paio di morbidi pantaloni azzurri. Ricamato sopra la veste di colore blu pallido vi era il simbolo di un sole, all’altezza del cuore e sul medesimo lato, una fascia arancione era stretta in vita in modo da tenere l’indumento fermo sul torso altrimenti nudo. Ai piedi calzava degli stivaletti di pelle, e al polso sinistro aveva legata una fascia di stoffa di un giallo luminoso.
«Che splendida giornata, non trovi anche tu, Sole del mio cuore?» disse lui con voce melodiosa, ora sfiorandole i capelli di un arancione fiammeggiante stretti in una lunga coda.
«La trovo splendida, Luce dei miei occhi, noi due soli, insieme sotto il grande Sole pronti a giurare davanti a Lui il grande amore che ci unisce.» rispose lei con un dolce sorriso guardandolo dritto negli occhi azzurri.
«Non del tutto soli.» precisò l’elfo lanciando un’occhiata divertita alla cavalcatura della Sacerdotessa, una fedele ed enorme tigre rossa dai grandi occhi completamente blu e la pupilla bianca e splendente come un cristallo.
Si guardarono con gli occhi colmi di emozione, finalmente pronti a prestare giuramento davanti alla loro Divinità. La femmina, come la sua tigre, aveva occhi blu cobalto dalla pupilla bianca e brillante, segno che si era legata a un Grande Felino. E non uno qualunque: ai Sacerdoti e Sacerdotesse spettava l’onore di legarsi ai Felini più grandi e forti della regione, le tigri rosse. Un legame fisico e spirituale che durava fino alla fine dei loro giorni.
Lei prese delicatamente le mani di lui tra le sue e cominciò: «Vrayel, mio amato, qui dinnanzi al Grande e Splendente Sole, fonte di luce, vita e calore, dichiaro ora e per sempre di amarti, rispettarti e rimanerti fedele, nella vita terrena e in ciò che ci aspetterà dopo la morte, che nulla mai ci possa separare sotto la Sua guida, da qui all’eternità.» sussurrò lei dolcemente ma allo stesso tempo con solennità, lo guardò negli occhi e sorrise debolmente, emozionata.
«Izmyra, mia amata Sacerdotessa, qui dinnanzi al Grande e Splendente Sole nostra guida e fonte di speranza dichiaro ora e per sempre di amarti, rispettarti e rimanerti fedele, nella vita terrena e in ciò che ci aspetterà dopo la morte, che nulla mai ci possa separare sotto la Sua luce, da qui all’eternità.» ripeté lui sorridendo a sua volta, sancendo così il loro giuramento di unione.
Con un largo sorriso lei continuò: «Per la grazia che mi è stata conferita, io, Sacerdotessa del Sole Izmyra, dichiaro te, Vrayel, unito a me in eterno, anima e corpo.»
«E stai certa Sacerdotessa, non desideravo altro.»
«Puoi baciare la tua anima sorella.»
Vrayel non se lo fece ripetere, con gli occhi che brillavano dalla gioia la prese tra le braccia e la baciò, mentre lei lo abbracciava e baciava a sua volta. Nessuno aveva assistito alla loro unione, se non Eynglen, che mugolò imbarazzato e fece le fusa scuotendo la coda a destra e a sinistra, rimanendo seduto composto dove si trovava.
«Eynglen, non fare così.» sorrise Izmyra rivolgendosi all’enorme felino.
«Suvvia, sarà felice per me perché mi sono appena unito alla femmina più meravigliosa di tutte le Terre.» disse Vrayel in un sussurro sfiorandole la pelle ambrata e facendola arrossire d’imbarazzo.
«Finalmente è stato possibile.» sussurrò lei portandosi una mano dietro la nuca per afferrare i fili argentati che pendevano dal suo fermacapelli dorato.
Li osservò con gli occhi lucidi: quello era stato il dono di Vrayel per lei e a detta sua si trattava di crine di drago, una dragonessa per la precisione chiamata Garandill con cui l’elfo aveva speso un intero pomeriggio e una notte a parlare. E alla fine lei era stata così gentile da fargli un tale regalo perché potesse permettersi di unirsi a lei, una Sacerdotessa, pur non essendo altro che un elfo comune.
Tenendosi per mano e seguiti dall’enorme tigre, si avviarono con passo silenzioso inoltrandosi nel folto della magica foresta che circondava la loro città di oro argento e vetro. Si spostarono in una radura e festeggiarono inosservati la loro unione danzando e ridendo spensierati per il resto del pomeriggio, finché mentre facevano ritorno alla loro città, dove lei era attesa per la preghiera serale al tempio, s’imbatterono in un uomo vestito diversamente da ogni altro elfo della regione; indossava una lunga veste verde scuro e un cappuccio celava il suo volto.
Si fermarono osservando la sua figura, incerti sul da farsi e ancora abbracciati. Quella creatura, quale che fosse la sua razza di appartenenza, sembrava aver viaggiato a lungo e pareva ansimare stancamente, schiena ricurva e braccia abbandonate ai fianchi. Ma i suoi occhi emanavano un’insolita e debole luce verde.
«Chi pensi che sia?» domandò Vrayel in un sussurro.
«Non lo so.» rispose lei altrettanto piano, muovendo qualche passo in avanti.
«No, aspetta.» la fermò lui «Vado io.»
Izmyra gli rivolse un sorriso divertito: «Vrayel, tra i due qui sono io quella che si è allenata duramente per diventare Sacerdotessa, tu a malapena hai superato gli allenamenti basilari. Te la sei cavata solo grazie alla magia.»
«E ci dici poco!» esclamò lui offeso, dopodiché scosse le spalle «Ma va bene, se proprio ci tieni vai tu.»
L’elfa riprese quindi ad avvicinarsi cautamente a quella strana figura che sembrava non averli notati e provò a parlargli chiedendogli gentilmente se si sentisse bene o avesse bisogno di aiuto.
La sua risposta fu un fischio che aveva l’aria di una debole risata e la tigre ringhiò minacciosa rizzando il pelo sulla schiena, quindi la Sacerdotessa s’insospettì subito e cambiò radicalmente espressione del viso, allontanandosi di qualche passo.
Poi freddamente domandò ora con aria autoritaria: «Chi siete? Mostratemi il vostro volto.»
Quello non rispose e la tigre ringhiò di nuovo, inducendo Izmyra ad aprire la mano pronta a evocare l’aiuto della loro magia.
«Allontaniamoci, mia cara. È evidente che non comprende la nostra lingua.» sussurrò Vrayel, la tirò delicatamente verso di sé e fecero per andarsene.
L’uomo finalmente parlò, ma lo fece in una lingua a loro totalmente sconosciuta: «Shirit.» disse in un freddo sussurro tendendo la mano verso lui, il cappuccio calato sul viso nascondeva un sorriso malvagio.
Vrayel s’immobilizzò e gridò, sotto gli occhi increduli dell’amata, stava succedendo qualcosa che nessuno aveva mai visto né sentito, nemmeno loro che avevano vissuto più di cento anni; dal corpo dell’elfo fuoriusciva del fumo bianco che poi si muoveva verso il braccio dell’uomo che aveva pronunciato quella parola, fino a incanalarsi dentro una pietra blu che stava in una mano. E più fumo usciva più l’elfo gridava.
Izmyra gli lasciò la mano impietrita dall’orrore, non sapeva cosa fare e anche se si era sempre addestrata a non perdere lucidità in situazioni difficili si lasciò prendere dal panico. Gridò anche lei, si mise le mani davanti agli occhi e cadde in ginocchio, sicura di non essere capace di affrontare una simile minaccia, essendo a lei sconosciuta.
Vedendola tanto in difficoltà, Eynglen decise d’intervenire dopo qualche attimo d’indecisione; guardò la Sacerdotessa mugolando preoccupato, poi senza perdere altro tempo guardò il pericoloso mago e ruggì, ma quello non si scompose. Allora arrabbiato si lanciò di corsa addosso a lui, ma lo mancò perché quello scartò agilmente di lato. Con un rapido balzo la tigre lo colse di sorpresa alle spalle e lo spinse a terra con decisione per poi colpirlo più forte che poté con un’enorme zampa; lo ferì gravemente dal viso al petto, squarciandolo senza difficoltà, e l’uomo gridò, ma poi inspiegabilmente rise.
Izmyra guardò l’enorme felino con gli occhi colmi di lacrime, poi guardò Vrayel a terra immobile, e infine si volse di scatto verso l’uomo perché tossì.
«È morto, Sacerdotessa.» sussurrò quello nella lingua degli elfi, il suo corpo venne scosso da tremori, come se stesse sghignazzando.
«Come dici?» domandò sentendosi invadere dalla rabbia.
«Ho impiegato anni per imparare come fare, ma finalmente sono riuscito! Non fraintendetemi, non provavo rimorso nei vostri confronti, stavo camminando cercando un possibile bersaglio e mi siete capitati davanti!» tossì di nuovo e si lasciò poi andare a una risata folle, a stento si capiva ciò che diceva.
«Morto?» balbettò lei incredula «Tu... hai... hai ucciso un elfo! Il mio amato... tu, mostro...» più lo ripeteva a se stessa più sentiva crescere la rabbia, si rialzò e a forza respinse le lacrime «Tu morirai per questo.» sussurrò freddamente «Come hai osato... davanti al nostro Sole a cui avevamo appena giurato... come hai osato!» la sua mano brillò di una luce fortissima, Eynglen capì immediatamente cosa stava per succedere e si allontanò rapido per non rimanere colpito dalla magia della Sacerdotessa.
Anche l’uomo capì e rise senza controllo esclamando: «Non ha importanza cosa succederà, sono riuscito a portare a termine decenni di studi e sacrifici! Una nuova razza, ho creato una nuova razza!»
«Una nuova razza?» fece lei vagamente confusa, abbassando la mano con cui di lì a poco gli avrebbe scagliato contro la Luce «Ma... l’hai ucciso...»
«No! Ho detto che è morto! Ma pensateci, cosa succederebbe se si potesse vivere una vita terrena pur essendo morti?»
Izmyra non voleva sentire una parola di più. Un fascio di luce accecante colpì l’uomo - di cui nemmeno volle conoscere la razza di appartenenza - che dopo pochi secondi finalmente smise di ridere, perché la luce lo disintegrò letteralmente. Cadde in ginocchio sopraffatta dal dolore della consapevolezza di aver appena perso la persona che aveva amato per tanto tempo, e la tigre le fu subito accanto.
Ma lei non aveva occhi per il felino; guardava Vrayel ancora a terra come l’aveva lasciato, immobile e sempre più pallido. Si avvicinò a lui avanzando carponi e sussurrò il suo nome un paio di volte, senza più riuscire a trattenere le lacrime. Non sentiva più il rassicurante e ritmico rumore del battito del suo cuore, né sentiva il suo respiro. Pianse senza controllo come una bambina dimenticandosi il ruolo che occupava nella loro società o gli anni che aveva alle spalle; decenni di amore corrisposto ma mai dichiarato si erano dissolti davanti ai suoi occhi in pochi attimi, e con loro la possibilità di vivere una vita felice con lui e con gli eventuali figli che avrebbero avuto insieme. Non avrebbe mai avuto il coraggio di amare un’altra persona. Mai. Aveva appena giurato che gli sarebbe rimasta fedele anche oltre la morte, ed era ciò che avrebbe fatto. Non le importava quanti anni ancora avrebbe dovuto vivere in solitudine.
Proprio mentre cercava d’infondersi coraggio per caricare il suo corpo inerme sulla schiena di Eynglen, Vrayel si mosse quasi impercettibilmente, ma non sfuggì agli acuti occhi di lei.
Incredula e spaventata al tempo stesso si allontanò un poco e domandò: «Vrayel? Mio amato?»
Lui si riprese di soprassalto, come risvegliandosi da un incubo. Tossì e si rialzò fulmineo, si guardò intorno, la testa gli girava e ogni parte del corpo gli faceva male, quasi avesse tutte le ossa rotte. Poi si sentì chiamare di nuovo.
«Vrayel?»
Si girò di scatto e vide una donna, un’elfa. Era sicuro di averla già vista, ma non ricordava dove. Molto lentamente i ricordi di un’intera vita gli tornarono alla mente e capì chi fosse.
«Lejamir... Izmyra.»
Lei rimase allibita, aveva parlato una lingua che non avevano mai sentito prima, una lingua che non poteva aver imparato da nessuna parte. Si allontanò ancora un poco fissandolo sconvolta negli occhi azzurri, che ora brillavano di una debole luce, era pallido. Ed era morto.
Presto anche lui se ne rese conto e gridò, si toccò diverse parti del corpo come per accertarsi che fosse ancora il suo, poi si portò una mano al petto e lo sentì immobile e silenzioso. Preso dal panico fece uno scatto indietro e guardò di nuovo l’elfa che aveva davanti dritto negli occhi.
«Sheil vorih...» sussurrò.
Gli parve che vista e udito fossero più sensibili di prima, perché la poca luce che filtrava tra le foglie ora gli dava fastidio, così come gli aveva dato fastidio parlare.
«Cosa ti è successo? Mi senti? Riesci a capirmi?» fece lei titubante avvicinandosi un poco, Eynglen mugolò addolorato rimanendo alle sue spalle.
«Heid? Hijen... hijen hinizedal? Aral hid Alahi nier losheydal... heid vheilenipashey?» chiese atterrito.
«Oh Vrayel... non temere, troveremo una soluzione. Vieni con me.» sussurrò, gli tese la mano ma lui si allontanò «Vieni!» gli disse con fare rassicurante.
Titubante afferrò la mano che lei gli tendeva e le fece male senza sapere come, quindi la lasciò immediatamente.
«Non è nulla, hai solo una presa molto... forte. Coraggio.» gli tese di nuovo la mano cercando di mascherare l’incertezza.
Ma Vrayel si allontanò appena, quel tocco per quanto fulmineo gli aveva fatto provare una strana sensazione, come di volerle fare male ma in un modo che non riusciva a capire; non si era sentito in dovere di picchiarla, o ucciderla, però si era sentito come... geloso. Perché lei aveva qualcosa che lui non aveva, e qualunque cosa fosse quel qualcosa aveva sentito il bisogno di rubarglielo e prenderlo per sé.
Il solo fatto di aver pensato una cosa simile, anche se solo per una frazione di attimo, lo aveva fatto stare male, si era sentito sporco e inorridito da se stesso. Si sentì improvvisamente invadere da una rabbia cieca che non aveva mai provato prima, né che pensava di poter provare. Ne fu letteralmente sopraffatto e gridò al cielo stringendo forte i pugni, lasciando l’elfa basita.
Si rialzò traballando sulle gambe e si sentì come se l’intero mondo gli fosse crollato sulle spalle; non capiva più nulla di quella che fino a pochi minuti prima era stata la lingua che aveva parlato per cent’anni, il suo corpo era morto, eppure inspiegabilmente era vivo, aveva fatto male a sua moglie senza averne la minima intenzione e aveva persino pensato di farle di peggio, senza alcuna ragione. Lui l’amava, non poteva farle male. Tuttavia qualcosa gli diceva che nulla si sarebbe mai più sistemato, lo sentiva nel profondo del suo cuore, sapeva che sarebbe stato pericoloso per lei stargli accanto.
Lanciò un rapido sguardo alla piccola pietra blu che era rimasta integra anche dopo l’incantesimo della Sacerdotessa, dove di quello strano individuo non erano rimaste altro che ceneri. Ora brillava di una luce pulsante, sembrava quasi potersi disintegrare dall’interno per liberare quell’energia che viveva dentro lei. Era una luce così intensa, concentrata in quel piccolo spazio, da ferirgli gli occhi.
Si sentiva inspiegabilmente attratto da essa, come se facesse parte di lui per qualche ignota ragione, e si mosse per andare a raccoglierla, faticando a coordinare i movimenti. Non seppe dire cosa provò nel momento in cui la toccò, ma fu sommerso da tristezza, rancore, nostalgia, mentre la consapevolezza di aver perso una parte di sé diventava sempre più chiara. Qualunque cosa avesse perso, ora si trovava dentro quella piccola pietra blu, e lo chiamava, sentiva che voleva riunirsi a lui ma qualcosa la tratteneva impedendoglielo. E questo, immaginò, era la causa delle sensazioni strazianti che aveva provato appena l’aveva raccolta.
Sì portò le mani al viso e tra le lacrime sussurrò un addio che Izmyra non poteva comprendere; giurò di amarla sempre, fino alla fine del Tempo, qualsiasi cosa sarebbe successa. E implorò il suo perdono, perché da lì in un attimo se ne sarebbe andato per non tornare mai più, per non fare accidentalmente del male alla persona che amava di più al mondo.
E infine corse via più veloce del vento, abbandonandola nella radura insieme alla sua tigre.
«Vrayel dove vai? Vieni con me, troveremo una soluzione!» gridò disperata, ma lui era sparito tra le ombre della foresta, che improvvisamente non sembrava più così luminosa e vivace come lo era stata per festeggiare la loro unione.
Eynglen si avvicinò a lei e mugolò come per convincerla a cavalcarlo per seguirlo, ma lei era impietrita, ancora guardava il punto in cui lui era scomparso.
Scosse la testa quasi impercettibilmente e sussurrò: «Non tornerà mai più... sarebbe inutile rincorrerlo... non tornerà più.» non seppe cosa le diede quella certezza.
La tigre di nuovo mugolò tristemente, poi ruggì il suo malessere alla volta della foresta, quasi sperando che Vrayel lo sentisse e tornasse indietro, ma Izmyra aveva ragione; non tornò indietro quel giorno, e nemmeno nei giorni a venire.

Vrayel era fuggito dalla radura per cercare un posto in cui vivere più adatto a lui, un luogo morto, freddo e inospitale, dove nessun essere vivente l’avrebbe mai raggiunto, non rischiando così la vita. Un solo posto gli veniva in mente a Dargovas, ed erano le Paludi Nere, un’immensa distesa di terriccio arido e catrame, dove nessun essere con ancora un’anima si sarebbe mai spinto. Ma quello non era un terreno adatto a edificare una casa, o qualunque tipo di abitazione in cui potesse passare il resto dei suoi giorni. Certo poteva provare a gettarvisi dentro e vedere cosa ne sarebbe stato di lui, oppure avrebbe potuto spingersi ancora più oltre e raggiungere invece la Catena di Cristallo, all’estremo sud del continente.
Sapeva che le Paludi dalla regione in cui aveva sempre vissuto distavano più o meno due mesi di viaggio a dorso di un grande felino, ma non sapeva quanto distassero per un essere come lui; per quanto ancora avrebbe potuto correre prima di stancarsi?
Passava lontano dalle strade, dalle fattorie, dai villaggi o dalle città umane, non voleva incontrarne per evitare di sfogare la propria rabbia su di loro. Sì, aveva molta rabbia da sfogare, ma non voleva fare del male a persone che non c’entravano nulla con quella situazione e che probabilmente non avrebbero saputo come aiutarlo. Come ucciderlo una seconda volta. In fondo erano semplici Umani.
Non seppe quanti giorni impiegò per arrivare alle Paludi, ma si era fermato solo quattro volte a riposare le gambe stanche; non aveva mangiato e non era riuscito a dormire molto, ma non si fermò un’altra volta. Continuò a correre non badando alla stanchezza, il suo corpo gli stava chiedendo di smettere e volutamente lo ignorò.
Chissà cosa gli sarebbe successo se si fosse spinto oltre i suoi nuovi limiti. Forse era l’unico modo che aveva di morire di nuovo, cadere in una specie di eterno coma per il troppo sforzo.
Corse ancora per giorni in quelle condizioni, sentiva che presto sarebbe tutto finito e di nuovo non sapeva cosa gliene dava la certezza, ma era sicuro di star lentamente perdendo la concezione di sé e di ciò che aveva attorno. Era arrivato al punto di star continuando a correre senza bene sapere perché e se ne ricordava appena prima di fermarsi.
La sua mente lo stava abbandonando, gli sembrava di essere sul punto di addormentarsi; tutto attorno a lui appariva sfocato e privo di contorni, a tratti la vista si oscurava per poi tornare, e lui continuava a correre. Aveva persino ripreso a respirare e gli faceva male, anzi tutto il corpo gli faceva male, come se stesse cercando di ribellarsi al suo volere. Ma non poteva, Vrayel non gliel’avrebbe permesso.
Sarebbe morto per sfinimento, era questo che voleva.
Ma commise l’errore di passare in quelle condizioni troppo vicino a una piccola città umana. Si fermò, desiderando di porre fine alle loro vite, subito scosse la testa contrariato e riprese a correre ma di nuovo si fermò poco dopo, volgendo lo sguardo verso l’ammasso di case in mezzo al nulla.
Non riuscì a fermarsi, l’istinto di nutrirsi e la voglia di distruggere ebbero il sopravvento. Corse verso il villaggio e a malapena si rese conto delle occhiate curiose che ricevette prima di afferrare la persona a lui più vicina e piantarle le zanne nel collo.
Sì, aveva le zanne, l’aveva scoperto da un po’ ed era stata la principale causa dei suoi terribili mal di testa nel mese che aveva seguito la sua morte; i denti si erano gradualmente spostati e avevano cambiato forma fino a fargli assumere una dentatura più simile a quella di un canide.
Semplicemente non aveva idea di cosa stava facendo, sentiva gridare ma era troppo stordito per capire il perché; doveva semplicemente ristabilirsi e quello era il modo giusto di farlo. Aveva consumato troppe energie, era arrivato quasi al limite, e l’istinto gli diceva che le energie le avrebbe ripristinate a quel modo.
Appena si riebbe e si rese conto di star stringendo un cadavere gridò e lasciò cadere l’uomo a terra inerme. Per un attimo temette che sarebbe diventato come lui, poi si rese conto che non sarebbe successo: quell’uomo era morto per davvero, non si sarebbe risvegliato nei panni di un mostro.
La gente attorno a lui era nel panico, c’era chi correva e chi invece restava a fissarlo immobile e sconcertato senza avere il coraggio di fuggire. Quella sensazione di potere lo fece ridere sguaiatamente, non si era mai sentito così temuto e forte in vita sua; quelle fragili creature non potevano competere con lui, una creatura già morta e instancabile.
O quasi, ci era quasi riuscito a stancarsi del tutto. Smise di ridere e invece gli venne da piangere per non essere riuscito nel suo intento, aveva anzi appena ucciso una persona innocente senza nemmeno rendersene conto, e tutto per ristabilirsi. Ora stava bene e sentiva che man mano le forze gli stavano tornando. Le sentiva pervaderlo e letteralmente muoversi dentro di lui, ricominciando a prendere possesso delle funzioni del suo corpo in un modo al contempo simile e diverso a quello che era stato da vivo.
Tutte quelle grida lo infastidivano, ferendo il suo udito sensibile. Gli venne da ringhiare come un felino ferito e guardò alla sua sinistra un gruppo di persone a cui corse incontro mosso dall’ira. Quelle gridarono più forte e cercarono di disperdersi ma lui afferrò una donna per la veste e la trasse a sé facendola cadere a terra.
Le mise una mano al collo e lei si dimenò ma Vrayel non vi badò, perché quelle sensazioni che aveva provato quando aveva toccato Izmyra tornarono facendogli sentire nostalgia e un senso di bruciore diffuso in tutto il corpo. Gli venne la nausea e si lasciò andare a un grido mentre l’istinto agiva per lui, strappando a quella donna qualsiasi cosa avesse che la rendeva così perfetta e diversa da lui. Che la rendesse viva. Quella cosa la voleva lui, voleva tornare vivo per poter tornare dalla sua amata.
Si sentì spossato quando ebbe finito e sorrise, certo che di lì a poco il processo si sarebbe invertito facendolo tornare l’elfo che era sempre stato. Ma al contrario sentì un dolore sempre più presente e pressante, il senso di bruciore di poco prima si trasformò in qualcosa di molto più intenso e terribile che lo fece gridare; la testa prese a fargli male come se qualcuno la stesse comprimendo con forza, il suo stesso corpo a tratti non gli rispondeva più.
Seppe che doveva liberarsi di quella cosa, quel fumo bianco che aveva preso alla donna che ora giaceva immobile ai suoi piedi. La toccò per rimetterlo dentro il suo corpo ma non funzionò, il fumo bianco rimase intrappolato nel suo di corpo, come volendone prendere il possesso. Non doveva succedere, doveva liberarsene.
Così provò a rispedirlo in un oggetto piuttosto che in un corpo, e il bracciale della donna faceva al caso suo: lo toccò e vi scaricò dentro il fumo bianco il più in fretta possibile sentendosi attraversare da esso fino a che usciva dalla sua mano. Seppe perfettamente quando ebbe finito perché sentì un immediato benessere e sospirò di sollievo; qualunque cosa fosse successa ora era certo che impossessarsi di quel fumo che dava la vita era in qualche modo infattibile.
Non poteva prendersi nemmeno il proprio, eppure poteva prendere quello di altre persone... che però a quanto pareva gli si rivoltava contro senza placare la sua insoddisfazione, la sua voglia di avere una di quelle essenze per sé. Forse gli sarebbe solo servito trovare un’essenza compatibile.
Così scattò verso un’altra persona e ripeté il processo, e ancora, e ancora una volta, finché si sentì stanco e morse di nuovo per recuperare le energie, questa volta da una donna. Uccise così diverse persone senza tenerne il conto, senza curarsi che si risvegliassero o meno, né di cosa facessero una volta sveglie e, probabilmente, fuori di testa almeno quanto lo era lui.
Lui, Vrayel, l’innocuo elfo contrario alla violenza, all’ingiustizia e alle guerre, stava facendo del male a delle persone presumibilmente innocenti. Non riusciva a smettere di pensarci eppure non riusciva a fermarsi, e ciò lo disgustava.
Qualsiasi cosa fosse diventato, lo disgustava.
Si arrestò all’improvviso e guardando l’uomo che ora reggeva per i capelli gli sfuggì un ringhio, desiderava fargli male, fargli vivere lo stesso tormento che aveva vissuto lui e altri umani poco prima, per mano sua. Eppure allo stesso tempo non lo voleva, era profondamente sbagliato quello che aveva fatto e che stava facendo. Stava essendo estremamente egoista a rovinare quelle vite solo per presumibilmente riavere la propria.
Quell’uomo stava evidentemente implorando pietà nella propria lingua, che l’elfo non capiva. Ringhiò di nuovo scoprendo i denti che da sole poche settimane avevano smesso di dolergli; poco importava che non capisse la lingua umana quando per qualche ragione non riusciva più a capire nemmeno l’elfico, la lingua che aveva parlato da quando era nato fino a quando... quell’individuo arrivato dal nulla aveva incrociato la sua strada e quella di Izmyra.
L’uomo continuava a lamentarsi, inginocchiato sotto di lui e ormai piangendo perché doveva aver compreso che non c’era speranza, che avrebbe fatto la fine di decine di altri uomini e donne quel giorno. Gli ringhiò nella propria lingua di smetterla di piagnucolare, e quello chiuse gli occhi portandosi le braccia a protezione della testa, chiaramente impaurito.
Sospirò, causandosi una fastidiosa fitta al petto; ormai aveva compreso di non dover respirare per evitare di provare dolore, ma era estremamente difficile abituarsi, ancora aveva la sensazione di soffocare ogni tanto, se non respirava per troppo.
Tornò poi a guardare il vuoto davanti a sé, riflettendo mentre recuperava le forze. Proprio quando aveva ottenuto tutto ciò che di bello la vita gli aveva offerto, l’attimo dopo l’aveva perduto insieme a se stesso. Sentiva di essere profondamente cambiato, e non solo perché era diventato un essere vivo in un corpo morto. Non riusciva nemmeno a comprendere come fosse possibile tutto ciò, e come facesse lui a rendere uguali a sé tutti quegli umani.
Nel momento in cui i loro corpi entravano in contatto provava l’irrefrenabile voglia di distruggerli, di rubargli ciò che li rendeva vivi e prenderlo per sé per tornare vivo a sua volta. E così faceva, senza stare troppo a pensarci, lasciando che l’istinto lo guidasse, in cerca di quell’essenza che avrebbe potuto aiutarlo.
Ma non funzionava mai, quello strano velo d’aria bianca che estraeva dai corpi dei viventi per immetterlo nel proprio lo faceva solo stare peggio, gli causava dolore sia fisico che mentale, tanto che doveva per forza liberarsene in fretta trasferendolo nel primo oggetto che gli capitava a tiro; non poteva restituirlo agli umani da cui l’aveva estratto, come lui stesso non poteva riprendersi quello che quel dannato individuo aveva estratto dal suo stesso corpo mesi addietro, ma non poteva nemmeno tenerselo perché in qualche modo quel qualcosa conteneva la coscienza di quelle persone. Se lo tratteneva dentro di sé troppo a lungo riusciva quasi a sentire quel vapore biancastro espandersi e contrarsi per fargli male dall’interno, e sentiva la voce del suo precedente possessore, e la sua volontà di prendere il controllo sul suo corpo e sulla sua mente.
Ogni volta finiva allo stesso modo, eppure Vrayel continuava a provare. A fare del male. A trasformare quelle persone in esseri disgustosi, che come lui avrebbero sofferto nella disperazione di aver perso loro stessi e si sarebbero odiati per il resto dei loro giorni. Doveva farlo, non poteva fermarsi. Il suo istinto gli diceva di farlo ogni volta che la sua pelle nuda incontrava quella di un essere vivente, e lui non riusciva a resistere abbastanza a lungo da domandarsi il perché.
Vrayel cominciava a sentirsi stanco, e non solo perché per ogni uomo che trasformava doveva combattere con se stesso, perdendo via via le forze e dovendo fare pause sempre più lunghe per poter proseguire nella sua crociata di distruzione; da quando era fuggito da Eredmer dovevano essere passati mesi, e aveva corso senza mai fermarsi. Giorno e notte, e un altro giorno, e un’altra notte, fino a che aveva smesso di contarli, sopraffatto dalle emozioni causate dall’aver perso tutto.
Aveva cercato di evitare gli insediamenti umani proprio perché sapeva in cuor suo che non gli avrebbe fatto fare una bella fine. Ci era quasi riuscito, era praticamente giunto a destinazione ormai, era una questione di poche settimane... ma quella piccola città non l’aveva vista in tempo; non credeva possibile che gli Umani avessero edificato le loro abitazioni così vicino a un vulcano. E invece li aveva trovati, e aveva cominciato a sfogare la sua ira senza alcun motivo.
Attorno a lui era il caos: la gente viva o morta che fosse gridava e correva, quelli morti da poco se non erano a terra svenuti faticavano a muoversi, a vedere, a sopportare tutto quel chiasso divenuto ancora più rumoroso, perché alcuni sensi erano fastidiosamente sviluppati a livelli estremi. Per non parlare dei danni che facevano quando toccavano qualcosa; Vrayel sapeva bene che faticavano a gestire la loro innaturale forza, perché ancora faticava lui stesso dopo tutto quel tempo.
Se non era lui a uccidere quelle persone rendendole dei mostri, ci pensavano gli umani che lui aveva appena trasformato: moltissimi di quelli avevano perso la ragione, accecati dalla follia o dalla rabbia, e l’elfo li capiva, non aveva alcuna intenzione di fermarli. Che si sfogassero, uccidendo altri umani che magari fino a poche ore prima erano stati loro amici, oppure distruggendo edifici e monumenti, o ancora usando una magia che prima di allora non avevano mai conosciuto. Per qualche ragione loro non riuscivano a fare ciò che faceva lui, se qualcuno provava a trasformare un altro essere umano in qualche modo morivano entrambi, forse perché il carnefice non era in grado di controllare il fluido, come Vrayel invece faceva.
Gli venne improvvisamente da ridere, rendendosi conto che non era più da solo, stava soffrendo insieme a decine di altre persone la stessa sorte, lo stesso destino crudele; non era l’unico ora ad aver perso tutto - i sogni, le speranze, il futuro, l’amore, se stesso.
Di quella città non sarebbero rimasti che ruderi, nessuno sarebbe sopravvissuto perché così lui voleva. Sarebbero stati tutti trasformati o in alternativa uccisi da questi ultimi, e onestamente non sapeva dire quale sarebbe stata la fine peggiore. Forse essere trasformati; la morte era una liberazione.
Qualunque cosa fosse diventato, per quanto disgustosa fosse, lo faceva sentire potente, inarrestabile. Era letteralmente un morto che camminava ancora, più forte di quanto fosse mai stato e capace di controllare una quantità di magia tale da far impallidire tutti i precedenti Sacerdoti del Sole messi insieme.
Un intero esercito umano non sarebbe stato in grado di fermarlo, se era stato capace di correre senza fermarsi per mesi e ancora aveva le energie per distruggere una città. Da solo. Ma forse nemmeno un esercito di elfi sarebbe riuscito a fermarlo, si disse poi. Lui stesso non aveva idea di cosa fosse diventato; come si poteva debellare una minaccia senza conoscerla prima?
Qualcosa gli bloccò la risata e rimase immobile a fissare il vuoto a lungo, fino a che comprese che si trattava del senso di colpa. Quello stesso che gli faceva provare disgusto per l’essere che era diventato, per ciò a cui costantemente pensava e per quello che stava facendo, rovinando vite che non lo meritavano. Rivide il terrore e la tristezza negli occhi di Izmyra, che inorridiva nell’apprendere che cosa stesse facendo a quegli umani che nulla avevano fatto per meritarselo.
Ma dopo il senso di colpa tornò la rabbia, ringhiò come un felino ferito e poi liberò un grido di dolore; era arrabbiato con se stesso oltre che con quell’individuo che gli aveva rovinato la vita, con gli umani che aveva attorno, persino con Izmyra perché sicuramente avrebbe avuto ragione a inorridire davanti a quella scena.
Era davvero diventato un mostro, la vita d’improvviso non aveva più senso. Non capiva, proprio non riusciva a capire cosa lo tenesse legato a quel mondo impedendo al suo cuore di battere, rendendogli doloroso respirare, o addirittura superfluo dormire e mangiare. Cosa lo rendesse così forte e veloce, instancabile... ma soprattutto orrendamente crudele.
Stava perdendo il senno, doveva essere l’unica spiegazione plausibile. E non era nemmeno così impensabile, considerando quanto stesse soffrendo, e non solo emotivamente; il corpo stesso di rado ancora gli faceva male, quelle poche volte che gli capitava di respirare sembrava di ricevere una pugnalata. Per decadi dalla sua trasformazione ogni fibra del suo essere aveva doluto, aveva faticato a muoversi, la testa che quasi gli esplodeva dal male.
Tolto il dolore fisico che lentamente scemava rimanevano quello mentale ed emotivo. Vrayel immaginava che quelli sarebbero stati duri da far passare, specialmente il secondo, anzi forse impossibili. Non vedeva come avrebbe potuto abituarsi a ciò che era, a ciò che pensava, a come agiva e reagiva, a ciò che provava.
Era assolutamente orrendo, ciò che provava. Tutto quell’odio che razionalmente si diceva essere immotivato, ma che poi sfociava in stragi come quella in atto o in risate fuori da ogni controllo, e doveva quasi impegnarsi per provare rimorso.
Niente aveva più senso, quello non era più lui, non si riconosceva più. E pensava che col tempo sarebbe stato solo peggio, che avrebbe del tutto perso la via della ragione seguendo solo e unicamente quello strano istinto, quella voce feroce che gli diceva di distruggere tutto ciò che vedeva o toccava. La prospettiva di perdersi completamente in quell’istinto così malsano e crudele gli faceva paura, non credeva di essere mai stato più spaventato in vita sua.
Di nuovo represse un grido e con una smorfia contratta piantò le dita della mano destra nel petto dell’uomo che con l’altra mano reggeva per i capelli; fracassò tutte le ossa che le sue falangi incontrarono, senza fatica e senza lasciargli il tempo di urlare di dolore. Egli rimase immobile, a bocca aperta a guardarlo dal basso senza fiato, senza emettere un suono, mentre Vrayel fece ciò che aveva fatto a tutti gli altri: s’impossessò di quello strano fumo bianco e luminoso, che dapprima invisibile cominciò a mostrarsi mentre lasciava il petto martoriato di quella persona per rientrare nel braccio dell’elfo.
E Vrayel, come sempre, lo sentiva come se fosse stato un liquido, che dal braccio velocemente si disperdeva nel resto del suo corpo riempiendone ogni angolo come acqua versata in una brocca vuota. Facendogli male, ribellandosi, cercando di prendere il controllo che aveva perso lasciando l’involucro umano.
Lo lasciò andare quando ebbe finito, e il suo corpo esanime toccò terra con un tonfo sordo dove sarebbe rimasto per minuti interi, o forse ore, a seconda di quanto avrebbe impiegato a risvegliarsi nei panni di un mostro. E nel migliore dei casi avrebbe perso la memoria, rendendogli più facile accettare cosa fosse diventato, la sua nuova natura.
Ora rimaneva da domare la sua essenza turbolenta, che dentro di lui si agitava cercando disperatamente di avere il sopravvento sulla sua identità, ma Vrayel non l’avrebbe permesso. Non si sarebbe lasciato domare al costo di peggiorare ulteriormente la sua sanità mentale o di diventare qualcun altro; non avrebbe permesso a quel fluido di lasciare che l’uomo appena morto tornasse a vivere nel suo stesso corpo.
Eppure nelle immediate vicinanze non vi erano oggetti particolari dentro cui rinchiudere il fluido bianco, attorno a lui stavano solo macerie di case diroccate e aveva già avuto modo di constatare che quelle non funzionavano: il meglio sarebbero state le gemme, i minerali, o i metalli. Non ne conosceva la ragione, forse avevano una naturale affinità con quel fluido, o delle caratteristiche che permettevano a esso di potervisi comprimere all’interno.
Dopotutto in effetti il tizio che l’aveva trasformato davanti agli occhi di Izmyra aveva intrappolato la sua essenza in una pietra indaco, che da quel giorno aveva preso a brillare di una luce intensa. Come avevano cominciato a brillare tutti gli oggetti in cui quel giorno aveva imprigionato le essenze degli umani. Forse era proprio quella la caratteristica necessaria per far sì che un fluido potesse essere racchiuso in un oggetto: quell’oggetto doveva poter emettere luce.
Per quanto lo trovasse assurdo, Vrayel non sapeva darsi risposte più esaustive. Avrebbe avuto tempo per fare i suoi studi in merito, si disse, se mai si fosse ripreso da quello sconvolgimento.
Vagò per qualche minuto arrancando con quel dolore in petto che il fluido gli causava, riuscendo tuttavia a sopraffarlo, fin quando vide luccicare qualcosa a terra e avvicinandosi notò che si trattava di un bracciale perso da chissà chi nel caos generale.
Lo raccolse senza troppo rifletterci e cominciò a trasferirlo, ansioso di liberarsi di quel malessere e quel dolore che gli causava, e di nuovo lo sentì muoversi, questa volta in direzione opposta, finché anche il più piccolo strascico non ebbe lasciato il suo corpo per abitare il resto del tempo in quell’oggetto.
Tornò dall’uomo che aveva appena ucciso stringendo a fatica il bracciale in una mano, ora di nuovo desiderando di impossessarsi dello stesso fluido di cui si era appena liberato. Scosse la testa infastidito, non riuscendo a capire quale logica lo portasse a desiderare qualcosa che sapeva bene di non poter avere ancora e ancora, ogni volta che toccava un corpo che ospitasse un fluido provava sempre la stessa bruciante sensazione di doversene impossessare nonostante finisse puntualmente allo stesso modo.
Non aveva alcun senso. Non avrebbe retto un’intera esistenza a contatto con esseri viventi che gli provocavano quelle sensazioni. Non poteva nemmeno avvicinarsi troppo perché sentiva il battito del loro cuore, il loro respiro, il sangue che gli scorreva nelle vene rendendoli ciò che erano: vivi. E ciò gli faceva provare nostalgia, successivamente tramutata in rabbia per chissà quale ragione.
Doveva fuggire di nuovo, e al più presto. Ormai quella piccola città era distrutta, chi non era morto sarebbe stato ucciso a breve da altri esseri come lui, che lui stesso aveva creato, non aveva motivo di fermarsi ulteriormente.
Gli venne quasi da piangere al pensiero di essere stato proprio lui a dare il via a tutto quello, centinaia di vite sconvolte e rovinate per sempre solo perché lui si era sentito di dover far soffrire altre persone innocenti. Perché lui l’aveva desiderato e nessuno era stato in grado di fermarlo.
Non era giusto quello che aveva fatto, e desiderava che qualcuno potesse punirlo.
Eppure, ancora una volta, quella tristezza e quel rimorso furono presto sopraffatti dalla rabbia. Quell’individuo che l’aveva trasformato mesi addietro era stato così fiero del suo operato, di aver creato una nuova razza. Una nuova razza. Evidentemente sapeva che Vrayel avrebbe fatto esattamente quello, rendendo altri come lui, dei non-morti.
Il come lo avesse saputo all’elfo non importava. Per un attimo fu tentato di recarsi in ogni angolo del continente, scovare tutti gli insediamenti di tutte le razze viventi e perché no magari anche animali e creature, e rendere pure loro come lui, esattamente come quel tizio forse aveva voluto. Tutti quanti uniti dallo stesso dolore, così non ci sarebbero state diseguaglianze né privilegiati, e magari si sarebbero uccisi tra loro. Forse soltanto un altro mostro poteva ucciderlo, si sarebbero uccisi a vicenda con quella magia e forza sovrumana.
Posò il bracciale accanto all’uomo, di modo che quando si fosse risvegliato avrebbe trovato la propria essenza accanto a lui e non nelle mani di uno sconosciuto, e rialzando lo sguardo notò una presenza che prima non aveva percepito: c’era una ragazza poco distante a guardarlo con aria impietrita, a bocca aperta, e Vrayel poteva distinguere alcune lacrime scorrere lungo il suo viso dalla pelle scura.
Quella figura placò i suoi pensieri di distruzione, facendo tornare un senso di tristezza ma pure di impotenza, perché per quanto lo volesse in un modo o nell’altro l’istinto aveva la meglio, non riusciva a dare un freno alla propria follia. Forse quella giovane donna era pure figlia dell’uomo che ora giaceva a terra ai suoi piedi, o una conoscente, familiare... o più semplicemente la ragazza era rimasta sconvolta da ciò che aveva visto.
Gli venne voglia di dirle di andarsene, ma giusto in tempo si ricordò che non parlavano la stessa lingua e forse l’avrebbe solo spaventata di più. Ma non poteva nemmeno rimanere lì ferma a far niente, o qualcuno prima o poi l’avrebbe brutalmente uccisa come stava succedendo nel resto della città.
Eppure non voleva lasciarla sola, doveva fare qualcosa per proteggere quella ragazza senza farle male. Lo voleva. Almeno una cosa buona quel giorno voleva provare a farla, aveva già causato abbastanza sofferenza.
Poteva ucciderla lui stesso, in modo rapido e indolore per assicurarsi che non soffrisse. Scacciò immediatamente il pensiero prima che il suo corpo potesse agire. Eppure la morte era la soluzione migliore, dato che non poteva toccarla per trasportarla altrove, e poi molto probabilmente quel giorno aveva perso tutto proprio a causa sua. La morte era una liberazione, di sicuro sarebbe stato meglio che trasformarla o lasciarla alla mercé di altri non-morti fuori controllo.
Non sapeva proprio che fare se non restare a ricambiare il suo sguardo. Non voleva ucciderla, ma non voleva nemmeno lasciarla in una situazione così pericolosa. Eppure non poteva caricarsela in spalla per portarla in un luogo sicuro, o avrebbe rischiato di farsi prendere dalla frenesia e trasformarla suo malgrado.
Le sue grida acute lo riscossero e Vrayel si rese conto d’essersi incantato a guardare il vuoto senza realmente vedere la ragazza, perché non si era accorto dell’arrivo di una donna - o meglio, di quella che fino a poco prima era stata una donna - che aveva aggredito la ragazza spingendola a terra. Ora la sovrastava, e si stava impossessando di quel fluido che la rendeva viva, facendola urlare come una forsennata e agitarsi nell’inutile tentativo di liberarsi.
Con un ringhio l’elfo scattò lanciandosi sulla donna e allontanandola dalla più giovane interrompendo il trasferimento del fluido. Non rifletté su cosa fare, in mente aveva solo il desiderio di ucciderla, di fargliela pagare, di cancellare ogni traccia della sua esistenza da quel mondo per il male che aveva fatto a una ragazza innocente.
Facendo uso della sola superiorità di energie e di forza fisica la sfigurò senza sforzo con un pugno, un calcio, e un’artigliata dietro l’altra. Ruppe le sue ossa e sparse il suo sangue, fece vorticare l’aria attorno a loro in modo da ferirla e infine le scagliò contro la Luce.
Si ferì lui stesso nel farlo e ne rimase sorpreso nella confusione di pensieri che lo offuscavano, registrò solamente di essersi scorticato la pelle di mani e dita come se si fosse ustionato, perché da lì aveva usato la magia insita della loro divinità.
Ma se ne dimenticò presto vedendo la figura di quella donna a terra, martoriata e irriconoscibile, giacente sul proprio sangue. Pareva immobile e forse era svenuta, dato che non credeva che uno come lui, già morto, potesse morire di nuovo. Le si avvicinò senza paura e s’impossessò del fluido che aveva rubato alla ragazza, per poi tornare accanto a lei.
Non tardò ad accorgersi che la giovane non respirava, né a lasciarsi prendere dal panico. Le s’inginocchiò accanto senza osare toccarla, non sapendo cosa fare; poteva avere delle lesioni interne causate da ossa rotte, la magia avrebbe potuto curarla... ma non poteva toccarla, altrimenti avrebbe finito il lavoro cominciato da quella donna, e non lo voleva.
Portò una mano sopra di lei e indugiò a lungo, indeciso se fare un tentativo o meno. E infine decise che sì, avrebbe provato; quella donna poco prima non aveva completamente estratto la sua parte vivente, o qualsiasi cosa la rendesse diversa da lui, perciò non poteva essere definitivamente morta. Forse era ancora in tempo per salvarla.
Le prese un braccio con delicatezza e subito sentì quelle orrende sensazioni farsi vive, ma le represse ripetendosi che questa volta non sarebbe successo, non l’avrebbe resa come lui, la stava toccando solo per poterla curare qualsiasi cosa avesse.
In un primo momento riuscì pure a rimanere concentrato abbastanza da non farsi trasportare, limitandosi a riparare i danni subiti dalla giovane, ma più il contatto si allungava col passare dei minuti più Vrayel faticava a rimanere presente a se stesso.
Si sentì perdere rapidamente conoscenza come se fosse stato sul punto di addormentarsi pur avendo gli occhi perfettamente aperti e continuando a vedere benissimo, mentre la necessità di svuotare l’ennesimo essere umano per renderlo come lui si faceva più pressante, e scosse la testa per tornare in sé.
No, si disse, non sarebbe successo. Non le avrebbe rovinato la vita. E se lo ripeté ancora, di nuovo, e continuò a cercare di auto convincersi fino a che la voce dei suoi pensieri divenne un brusio indistinto e fu incapace di distinguere le singole parole a cui lui stesso pensava.
Fu una sensazione strana e capì troppo tardi di essersi perso, di aver fallito e di essersi infine lasciato andare; aveva cessato di essere lucido e l’istinto aveva di nuovo preso il sopravvento per quanto avesse cercato di evitarlo, e non ricordava di aver visto sentito o provato qualcosa. Era come non aver vissuto per chissà quanto tempo.
Abbassò lo sguardo sulla ragazza e sentì un nodo stringergli la gola, perché poteva sentire che dentro il suo corpo ora stava l’essenza di lei per intero, quel fluido bianco che ancora una volta si ribellava facendogli male. Pareva quasi più insistente di tutti gli altri, come se volesse farlo sentire in colpa.
Ma Vrayel non ne aveva bisogno, già si sentiva triste e distrutto, per quanto non l’avesse voluto alla fine aveva rovinato anche la vita di quella povera giovane donna. Nonostante tutti i suoi sforzi alla fine l’istinto aveva prevalso sulla ragione. Sarebbe mai guarito, o quella situazione non sarebbe mai cambiata per il resto dei suoi giorni, condannandolo a non poter nemmeno sfiorare qualsiasi creatura fosse ancora viva?
Nascose il viso tra le mani e finalmente pianse la sua tristezza e il suo malessere, che da troppo veniva represso da una rabbia cieca e immotivata. Era nient’altro che uno schifoso mostro ormai, desiderava solo poter morire di nuovo per non dover convivere con quel peso sulle spalle, o con la consapevolezza di doversi stabilire in un luogo completamente deserto, dove nessuno mai avrebbe rischiato d’incontrarlo. Non aveva alcuna intenzione di andare avanti, piuttosto si sarebbe arreso lasciando che quel fluido lo domasse finalmente, al contrario di decine di altri prima.
Non avrebbe mai più rivisto Izmyra e nemmeno Garandill... ma forse la dragonessa poteva aiutarlo a capire cosa ci fosse di sbagliato, non aveva conosciuto una creatura più saggia di lei in tutte quelle eclissi. A patto che conoscesse già la sua nuova lingua, altrimenti sarebbe stato difficile comunicare. Sì, forse un drago antico come lei avrebbe potuto aiutarlo, in qualche modo. Se qualcuno al mondo in grado di aiutarlo esisteva, doveva essere lei. Ma come avrebbe potuto trovarla...?
Sentì la ragazza gemere e riaprì gli occhi, vedendo tutto fastidiosamente sfocato, dunque li asciugò con una manica e la osservò agitarsi debolmente a terra, probabilmente in procinto di essere svegliata dal dolore atroce che aveva svegliato anche lui la prima volta. Sperò che almeno lei avesse perso la memoria, così forse non sarebbe stato altrettanto difficile adattarsi al suo nuovo essere.
Ora doveva decidere cosa fare con lei, se proseguire per la propria strada ignorandola come aveva ignorato tutti gli altri oppure... prendersene cura in qualche modo. Non che fosse legato alla giovane, ma un po’ si sentiva in dovere di aiutarla dopo aver miseramente fallito poco prima. Almeno avrebbe potuto fungere da punto di riferimento nelle prime decadi, che sarebbero state le più dolorose sia fisicamente che mentalmente. Avrebbe potuto rassicurarla quando pensava di stare dando di matto, o impedirle di fare male a qualcuno, sempre che lui stesso sarebbe riuscito.
Gli tornò in mente l’idea di sparire, di trovare un luogo dove avrebbe potuto vivere da solo, senza il rischio di uccidere qualcuno. E perché no, avrebbe potuto portarci pure tutte quelle persone che quel giorno aveva trasformato, per impedire loro di ucciderne altre nella loro irrefrenabile voglia di distruggere qualsiasi cosa. La Catena di Cristallo doveva prestarsi proprio bene a degli esseri come loro, così fredda e morta.
Strinse le dita attorno al ciondolo che la ragazza portava allacciato al collo e vi trasferì la sua essenza, di modo che sarebbe stata sempre sua e sotto il suo controllo, poi si assicurò di averla del tutto curata e le prestò parte delle proprie energie perché si risvegliasse prima; ora che era morta anche lei non sentiva più nulla quando la toccava, perché non c’era più nulla da rubarle. Non c’era nulla che li rendeva diversi.
Infine con una smorfia lei aprì gli occhi che prima erano stati del colore dell’ebano, e ora invece si erano schiariti perché brillavano.
Vrayel ne rimase sorpreso, non ci aveva mai fatto caso perché non si era mai soffermato a osservare i volti delle persone che aveva trasformato, ma nemmeno s’era mai guardato in uno specchio: se i loro occhi - di lei e di tutti i non-morti - brillavano costantemente, voleva dire che esistevano solo grazie alla magia, proprio come i draghi. E forse proprio per quel motivo si risvegliavano incapaci di parlare altre lingue oltre a quella della stessa magia che improvvisamente si ritrovavano capaci di controllare, perché era essa stessa a permettere loro di esistere.
«Male...» gracchiò la voce rotta della ragazza, che Vrayel poté comprendere tornando a rivolgerle le attenzioni, e subito dopo lei si portò le mani a coprirsi le orecchie con una smorfia incerta.
«Sì.» le rispose in un sussurro, e gli parve così strano parlare quella lingua che non aveva mai studiato.
Ma poteva capire la reazione della giovane, verosimilmente parlando si era resa conto di quanto il suo udito fosse ora sviluppato, e qualsiasi rumore poteva darle fastidio. Anche il lieve soffio del vento che alzava la sabbia, ma soprattutto le grida tutt’attorno a loro, quelle sarebbero state difficili da tollerare per lei più che per lui che ormai era quasi abituato.
La vide anche chiudere gli occhi ripetutamente e mettersi a sedere alla fine, per non essere costretta a guardare il cielo azzurro troppo luminoso. Non che la terra fosse da meno, dato che la polvere chiara rifletteva la luce del sole sopra le loro teste quasi come emettesse un bagliore proprio. Anche a quello si sarebbe abituata col tempo, ma con tutta probabilità nessuno di loro avrebbe più potuto guardare direttamente delle fonti di luce.
«Ricordi qualcosa, ragazza?» le domandò gentilmente, sempre parlando a voce bassa.
E lei dovette comunque sentirlo benissimo, perché si girò a guardarlo di scatto e dopo un po’ scosse la testa con aria preoccupata: «No. Perché... perché non ho vissuto fino a ora? Cosa... Chi sei?»
«Non ha importanza chi io sia. Andrà tutto bene, voglio aiutarti.»
«Aiutarmi a fare cosa?» gemette.
«A ricominciare da capo, ad avere una nuova vita. Non ricordi nemmeno il tuo nome?»
«No...» disse piano, ora più calma e con lo sguardo basso «Ma cosa...» con un ringhio prese in mano il ciondolo dentro cui Vrayel aveva compresso la sua essenza e fece per liberarsene.
Ma lui la fermò prendendole una mano: «So che ti fa sentire male. So che stai male ed è orrendo, lo so. Ci sono passato anch’io. Ma questo devi sempre tenerlo con te. Forse non a contatto con la pelle, sarebbe meglio. Faremo in modo di sistemarlo, ma portalo sempre con te.»
«Che cos’è?» domandò allora, abbassando lentamente il braccio.
«Quello... è ciò che eri prima di diventare ciò che ora sei.» rispose, lasciandole la mano.
«Non capisco cosa intendi dire...»
«Credimi, è meglio così.»
«Da dove arriva tutto questo... male? Questo dolore, e la rabbia, e... non riesco nemmeno a tenere gli occhi aperti! Cosa mi sta facendo questo?!» esclamò, prendendosi la testa tra le mani e cominciando a tremare.
Vrayel temette potesse esplodere da un momento all’altro e si tenne pronto a intervenire, ma si accorse poi che invece stava piangendo. Trattenne a forza un sospiro, sollevato dal fatto che la ragazza sembrasse meno incline di lui a lasciarsi prendere dall’ira cieca.
«Non lo so, ragazza. Ma io e te dovremo convincere tutte queste persone a fuggire sulla Catena di Cristallo, dove non potremo fare male a nessuno.»
«Fare... male?» fece confusa, tornando a guardarlo.
Lui annuì piano: «Sono sicuro che la senta anche tu, questa voglia di distruggere qualsiasi cosa. E per evitare che succeda dovremo andare in un posto dove non ci sia nessuno a cui far male.»
«Loro... soffrono come me?»
«Soffrono, sì. Stiamo tutti soffrendo, e alcuni lo sopportano meglio o peggio di altri. Credi di farcela?»
Dopo alcuni attimi di riflessione la giovane annuì piano e cercò di mettersi in piedi, ma l’elfo dovette aiutarla perché sapeva bene che non aveva alcun controllo sulla propria forza, né coordinazione o equilibrio; il suo corpo ancora stava morendo e in qualche modo doveva adattarsi a potersi muovere pur non appartenendo a qualcosa di vivo.
Si maledisse nuovamente per essere capitato in quella piccola città, e in seguito per non essere stato capace di trattenersi, avendo fatto male a centinaia di esseri umani stravolgendogli l’esistenza come quel dannato individuo l’aveva stravolta a lui. Sapeva bene che tutto ciò che aveva fatto quel giorno era mostruoso, e voleva che non ricapitasse mai più una cosa del genere.
Ma perché ciò accadesse doveva fuggire. E sparire. Lui insieme a tutti coloro che aveva trasformato. Magari chi come la giovane donna aveva perso la memoria non avrebbe obiettato a seguire qualcuno che fosse più esperto e capace di controllare la propria forza e la propria magia come lo era Vrayel. Chi invece ricordava con tutta probabilità l’avrebbe preso a insulti e non l’avrebbe mai seguito.
E come poteva biasimarlo? Dopo ciò che aveva fatto non si aspettava certo la gratitudine di quelle persone. A quel punto non gli rimase da sperare che nessuno ricordasse il proprio passato.
«Lira.» fece la voce della ragazza al suo fianco.
«Come hai detto?» domandò confuso, distraendosi dai suoi pensieri.
«Non ricordo il mio nome, perciò devo trovarmene uno nuovo. Mi piace come suona.»
«Capisco. Andrà tutto bene Lira. Io mi chiamo Vrayel.»
Lei fece una smorfia come a dire che non gli credeva, e l’elfo capì la ragione del suo scetticismo; era normale che al momento presente non vedesse come le cose potessero andare meglio. E non lo credeva nemmeno lui in realtà, non gli rimaneva altro che tornare ad affidarsi alla speranza che davvero un giorno non troppo lontano tutto si sarebbe risolto.
Sicuramente quel giorno sarebbe rimasto impresso nella storia come una delle più grandi sventure mai piovute sul loro mondo, e lui ne sarebbe uscito raffigurato come il mostro, il nemico, il male assoluto, il creatore di quegli abomini che ora avevano la possibilità di andarsene in giro per il continente a seminare il panico.
Proprio per questo doveva sbrigarsi a radunarli tutti e convincerli a seguirlo sulla Catena di Cristallo, per evitare che fossero tentati di andare a far del male a qualcuno che come loro non se lo meritava.
Sarebbe passato alla storia come un mostro, sì, e si chiese se mai Izmyra sarebbe venuta a saperlo, e come avrebbe reagito. Eppure aveva ancora la possibilità di fare la cosa giusta; doveva riuscire a convincerli, per il bene di tutte le creature che abitavano quel mondo insieme a loro.
Il solo pensare alla sua amata lo rese di nuovo triste, e mentre s’incamminava tra le strade ormai sfatte si disse che da lì a quel giorno sarebbe tornato a pregare il Sole ad ogni alba e a salutarlo a ogni tramonto. Si sarebbe rivolto a lui, gli avrebbe chiesto di far sì che un giorno potesse tornare a frequentare i viventi senza la paura di far loro del male; e quando sarebbe stato pronto sarebbe finalmente tornato da Izmyra. Le avrebbe spiegato tutto, sperando avrebbe capito, e si sarebbe messo d’impegno per imparare da capo la sua vecchia lingua.
In futuro come in passato era disposto a qualsiasi cosa per tornare da lei, con la consapevolezza che la Sacerdotessa lo avrebbe aspettato per il resto dei suoi giorni senza unirsi ad altri elfi, perché così aveva promesso al Sole. E lui avrebbe fatto altrettanto. Si sarebbero aspettati a vicenda per decenni, fino a che Vrayel fosse stato certo di potersi avvicinare a lei senza pericolo.
Fino ad allora avrebbe continuato a pregare e rendere omaggio alla loro divinità, figurativamente per continuare a omaggiare la sua compagna, da cui un giorno, promise, sarebbe tornato.

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