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Autore: Andy Black    06/12/2016    0 recensioni
Un uomo senza scrupoli dona ad un altro uomo senza scrupoli l'opportunità di tornare nel suo tempo, dal quale era stato bandito, imprigionato ed incatenato in una cella d'un tempio di mille anni prima. Lionell Weaves tornerà nel presente carico d'odio, pronto per consumare la vendetta che bramava da tempo nei confronti della figlia, oracolo e cristallo di Arceus, secondo le sue fonti. Il suo obiettivo è sempre lo stesso: uccidere sua figlia Rachel e recuperare il cristallo di Arceus, da consegnare al malvagio Xavier Solomon. Tuttavia l'intera Unione Lega Pokémon avrà qualcosa in contrario e farà di tutto per fronteggiare la minaccia di un mondo senza un dio.
[Diversi personaggi][OldrivalShipping, CandleShipping, SpecialJewelShipping e tanto altro][Storia con linguaggio volgare e parti violente];
Buona lettura;
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Green, N, Nuovo personaggio, Silver, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Manga, Videogioco
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- Questa storia fa parte della serie 'Pokémon Courage'
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15. Perfect Pitch


 
Johto, Amarantopoli, Sky Building
 
“Cindy… Che ci fai qui?” chiese Angelo, glaciale. Aveva afferrato la mano di sua moglie, bloccandola poco prima della sala riunioni, dove si sarebbero le deposizioni per la difesa di Xavier Solomon. Quell’ufficio era largo e arioso, illuminato dalle finestre degli uffici, le cui pareti erano composti interamente da vetrate.
Subito dopo l’incontro con l’avvocato Jackson, all’interno dell’Harold’s, Cindy era corsa a casa, s’era preparata come meglio poteva e s’era presentata a Common Street, salendo al trentasettesimo piano del più alto palazzo del centro economico di Amarantopoli.
Non s’aspettava minimamente di trovare suo marito lì.
“Mi rispondi?” domandò quello, con la solita flemma inquinata da una piccola macchia di stizza.
“Xavier...”.
“Sì”.
“È stato arrestato ed è innocente”.
“No” ribatté immediatamente il Capopalestra, spostando i capelli dalla fronte e passandoli dietro le orecchie. “Ha ammazzato delle donne e...”.
“Era con me, Angelo”.
Quello si bloccò e batté le palpebre per qualche secondo.
“Con te? Credevo che la tua fase adolescenziale fosse ormai finita”.
Gli occhi dell’uomo, di quel viola intenso, si rifletterono in quelli smeraldini della sua donna prima che, sfuggevoli, seguissero l’invito dell’avvocato Oliver Jackson a entrare nella sala.
 
Lì non vi era molto; una grande vetrata illuminava a giorno la sala e uno schermo, spento, era posto proprio sulla sinistra, sul muro. In mezzo alla stanza c’era un tavolo in alluminio assai grosso, con elementi in vetro e diverse sedie attorno. E al centro del tavolo un microfono, accanto a una piccola videocamera.
Si sedettero entrambi, mentre due associati parecchio giovani si alzarono in piedi, abbozzando un saluto. Oliver fece un cenno con la mano, per farli accomodare, poi incrociò le mani sul tavolo e annuì, accendendo la videocamera. Aveva lo stesso volto di quel mattino, solido, con la mandibola squadrata e serrata, lo sguardo concentrato ed i capelli ancora perfettamente pettinati di lato.
“Signora Harper” fece, alzandosi in piedi. “È pronta per la deposizione?”.
“Sì”.
“Okay. Consapevole delle responsabilità morali che il suo impegno assume, s’impegna a dire la verità e a non nascondere nulla di quanto in sua conoscenza…” disse.
La donna annuì.
“Sia messo a verbale che ha fatto cenno di sì con la testa. Può dire il suo nome?”.
 “Cindy Harper” rispose lei, con le cosce strette e le mani raccolte sulla borsetta che aveva sulle ginocchia.
“Signora Harper, può dirmi dove si trovasse questa mattina?”.
“All’Harold’s, come ogni giorno”.
“Come mai si trovava lì?” domandò rapidamente l’uomo col colletto inamidato.
Cindy scrollò le spalle e sospirò. “Gestisco quel locale per conto di mio marito”.
“Chi è suo marito?”.
“Angelo, il Capopalestra di Amarantopoli”.
Oliver annuì ed aspettò che quelle parole fossero verbalizzate. “Perfetto. Quindi lei è nel locale di suo marito ogni mattina?”.
“Esattamente”.
“E mi dica, questa mattina ha parlato con molte persone?”.
“Come ogni giorno, del resto...”.
“Lei conosce Xavier Solomon?” chiese immediatamente Oliver, sistemandosi la lunga cravatta.
“Sì”.
Gli occhi di Cindy si scontrarono contro il granito delle iridi dell’uomo che le poneva le domande, non riuscendo a sostenere il peso mentale delle possibili implicazioni che potevano avere determinate risposte. Sapeva di essere dalla stessa parte dell’avvocato ma era comunque in ansia; e se avesse sbagliato qualcosa? Avrebbe condannato Xavier alla galera?
“Da quanto tempo?”
La donna non esitò neppure per un istante.
“Diciannove anni”.
“E questa mattina, intorno alle dodici, può affermare d’aver incontrato il mio cliente?”.
Cindy annuì.
“Sia messo a verbale che ha annuito” disse Oliver. “Il mio cliente afferma d’esser stato, durante l’orario in cui è stato accusato d’omicidio doloso e terrorismo ambientale, nel suo locale. Lo conferma?”.
“Lo confermo, era lì” annuì energicamente la donna.
“Conferma d’aver parlato con il mio cliente per un lasso di tempo abbastanza lungo da scagionarlo dagli eventi di cui è stato accusato, che sono avvenuti tra le nove e venticinque e le dodici e trentasette?”.
“Credo... credo di sì” rispose confusa.
“Riformulo la domanda... è possibile che nel lasso di tempo sopracitato il mio cliente fosse in due posti contemporaneamente?”.
Cindy fece segno di no con la testa. “Era davanti a me. Ci ho parlato... Gli... gli ho stretto le mani...”.
“Sia messo agli atti che ha scosso il capo in risposta negativa al mio quesito. Infine, signorina Harper...”.
“Signora. Signora Harper” interruppe lei.
“Mi scusi. Signora Harper... lei può affermare di aver mai visto nel mio cliente comportamenti che lo accostino a profili simili a quelli di cui è stato accusato da suo marito, Angelo, e dalla Polizia Internazionale?”.
“No!” esclamò accorata lei. “Xavier è un uomo gentile. Lui è buono… Ha sofferto... non è capace di azioni simili. Non ucciderebbe mai nessuno!”.
“Sia messo a verbale” disse Oliver, annuendo lentamente. S’allungò verso la telecamera e la spense. “Abbiamo finito, signora Harper. Credo che suo marito voglia affrontarla muso a muso, non appena uscirà da questa stanza”.
 
 
Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel
 
“Hey...” fece Blue, aprendo lentamente la porta della camera di Yellow e Red. Infilò solo la testa, palesando il suo ingresso per evitare di trovarli in situazioni sconvenienti. Ma nulla, Red era uscito e Yellow era rimasta sul letto, con le gambe accavallate, mentre leggeva un libro.
“Avanti...” fece, dopo un lungo sospiro.
Blue camminava nella piccola antisala della stanza, passando davanti a uno specchio dalla cornice argentata, vedendo dapprima i piedi del letto e poi la figura della ragazza. I loro occhi s’incrociarono per qualche istante, prima che quelli della bionda si perdessero lungo la fitta trama del copriletto. Aveva visto Blue e si era resa conto di quanto realmente fosse bella.
Fu proprio quest’ultima ad esordire.
“Un tempo eravamo care amiche, Yel...”.
La sua voce era disturbata dal respiro greve, che non riusciva a trattenere. A Blue scoppiava il cuore nel petto e tutta quella situazione gli pareva parecchio pesante da sopportare. Odiava l’indifferenza e odiava che a sbattergliela in faccia fosse quella che reputava la sua amica più cara.
A quelle parole la bionda si limitò ad alzare gli occhi, ma a deviarli, non riuscendo ad affrontare la controparte azzurra.
“Lo so…”.
Blue sospirò e abbassò lo sguardo.
“Sono mortificata per tutto questo… non ero in me e sicuramente non mi sarei permessa di...”.
“Io amo il mio uomo, Blue. E voglio credere che lui ami me. Se siamo venuti qui, assieme a voi, è solamente per un bene superiore ma... ma non ho dimenticato quelle cose”.
L’altra era rimasta in piedi, totalmente immobile. Stringeva il gomito sinistro col braccio destro, rigida.
“Mi spiace molto. Anche io amo il mio uomo e non avrei fatto mai nulla di ciò che è successo se avessi avuto un po’ più di coscienza di ciò che succedeva attorno a me”.
“Non l’hai avuta”.
La voce di Yellow era limpida come il suono di una campanella.
“Non l’ho avuta...”.
Lo sguardo della più piccola fu assalito da un coraggio inaspettato, e cominciò a scrutare la figura dell’altra in maniera continua, capendo quanto in realtà fosse piena di debolezza; la stava leggendo come un libro aperto, e a Blue quella cosa non piaceva. Doveva rimanere imperturbabile in quelle situazioni, imperscrutabile nell’animo. Le sue sensazioni erano solo sue, al massimo del suo uomo e neppure sempre. Yellow invece aveva scavalcato tutti i suoi cancelli, aveva aggirato le sue difese, spogliandola d’ogni scudo.
Blue era vulnerabile.
“Il problema di per sé non sussisterebbe se fosse finita lì” sbuffò Yellow, gettando il libro sul letto e stendendo le gambe. Tirò i capelli verso l’alto e li legò.
Blue non capiva. Fece un altro passo per avvicinarsi al letto, nel tentativo di guardare meglio l’interlocutrice.
“Non è chiaro...” le disse.
“Io... ho come l’impressione... il problema è Red” concluse lei, sospirando e arricciando le labbra. “Lui è sempre stato innamorato di te, Blue. Il tempo ha dato ragione a Green ma io so benissimo che ti desiderava e questo mi fa stare male”.
“Lui ti ama, Yel” faceva cenno di no con la testa l’altra, come ad allontanare quel pensiero. “Non dovresti farti angosciare da queste paranoie”.
“Lo so, lo sento, e anche io amo lui. Ma amare è differente da desiderare… e lui ti desidera”.
Blue si sentì quasi colpevolizzata, a quelle parole.
 
Forse è per il mio atteggiamento?
Per il mio modo di fare?
L’ho sedotto per anni e alla fine… alla fine ci sono riuscita.
 
Si era resa conto di qualcosa. Alzò il volto e scontro gli occhi contro lo sguardo glaciale dell’altra. La stava condannando, Non l’aveva mai vista più sicura di sé.
“Yellow… Io non amo Red...”.
“Non è questo il problema” sorrise l’altra, amaramente. “È che ti sento in ogni bacio che mi da, in ogni carezza che mi dona. Ti sento perché è lui a metterti lì... E non so quanto tempo ancora potrò vivere in questo modo”.
Blue si sedette ai piedi del letto, carezzando le morbide coperte con la punta dell’indice.
“Non so che dire...”.
“Non puoi dirmi niente, è questo il fatto…” fece, sbuffando. “Il fatto è che non voglio più averti nella mia vita... Una volta finita questa storia vorrei che sparissi per sempre”.
L’altra rimase basita, sorpresa dalla reazione, dal coraggio e dalla lucidità di cui s’era vestita per parlare di quella situazione.
“Mi condanni in questo modo e provi ancora risentimento…” fece, stretta nel suo abbraccio, con lo sguardo basso. “Mi sto mettendo a nudo, e sai che non succede spesso…”.
Yellow ridacchiò divertita, facendo riferimento al doppio senso.
Blue fece finta di nulla e continuò.
“Quella cosa però l’ho fatta con Red. Se provi ancora così tanto risentimento, allora, perché sei ancora accanto a lui?”
La donna abbassò lo sguardo. Il ventaglio di risposte era così ampio da farla avvilire.
“Quella che invece si mette troppo a nudo sono io…” sospirò. “Ora vorrei che te ne andassi e mi lasciassi finire il mio libro in santa pace…”.
Quelle parole la colpirono con così tanta violenza da farla sobbalzare. Totalmente differente, nei suoi atteggiamenti, nei suoi movimenti, la donna del Bosco Smeraldo era stata tutto fuorché quello, negli anni precedenti. E tutto per via di Red. Blue capì che se quella non fosse stata convinta così tanto dalle sue emozioni, dai sentimenti, non gli sarebbe rimasto accanto.
Lei aveva bisogno della presenza di quell’uomo nella sua vita. Rappresentava qualcosa, era più che chiaro.
 
Certe volte si accettano gli errori degli altri, perché stare soli con se stessi è peggio di vedere delle immagini, quelle immagini, davanti agli occhi, ogni volta che s’incrocia lo sguardo di qualcuno che ti ha tradito.
Come ha fatto Green.
 
Annuì. Ormai la situazione era limpida.
 “Sparirò dalla tua vita, Yel...”.
Si voltò e imboccò l’uscita, sbattendo la porta.
 
 
Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile
 
“Sei ancora qui?” chiese Marina, rientrando nella stanza di Gold. L’elettrocardiogramma cantava placido ogni due secondi, scandendo un ritmo lento e monotono.
“Sì. Ho aspettato che tornassi” aveva risposto Sandra, seduta accanto al letto. Aveva lo sguardo provato da quella maratona d’ansia e paura, e gli unici rumori che la tenevano ancora lì erano il respiro di Gold e il bip automatico della macchina. I capelli erano ancora legati, ma la coda era ormai spettinata, e molti ciuffi le ricadevano davanti al volto. Vide Marina andare dall’altra parte del letto e prendere la mano del suo uomo. Poi gli poggiò un delicato bacio sulle labbra.
“Magari si svegliasse…” sospirò.
“Come nelle favole…”.
La Ranger annuì, quindi si voltò, smontando il grosso cappotto beige e poggiandolo su di una sedia. Poi si voltò, aprendo leggermente la finestra poggiandovisi con la schiena.
Guardò infine Sandra, col volto serio, e incrociò le braccia.
“Vai a casa”.
“Non preoccuparti” ribatté rapida quella, continuando a fissare il pavimento. “Voglio rimanere qui”.
L’altra sospirò e abbassò il viso. Quel giorno aveva chiamato in ufficio e aveva spiegato la situazione; Gold era la priorità di tutta la sua vita e niente avrebbe potuto prevaricare la sua importanza. Vederlo in quel letto, dormiente e livido, con accanto una donna che si ostinava a non muoversi era una scena che l’avviliva parecchio.
E Sandra, soprattutto lei, era un grande elemento di disturbo.
“Perché vuoi rimanere qui?” chiese, rialzando poi il volto. Catturò il suo sguardo, tastandone la paura. Capiva quanto fosse avvilita da quella scena, e nonostante la sua posizione pareva non aver mai provato sulla pelle ciò che stava passando in quel momento. Sandra si limitò ad annuire, e abbassò lo sguardo.
“Lui mi ha salvata. Al suo posto sarei dovuta esserci io...” disse con voce tremante e profondamente colpevole. Una lacrima andò a sporcarle la guancia destra di ciò che rimaneva del suo trucco.
Marina ripeté le sue parole, annuendo, con lo sguardo perso nel vuoto. “Al suo posto saresti dovuta esserci tu...”.
Sandra la guardò subito. Aveva riconosciuto il campanello dall’allarme dal tono glaciale della donna, e aveva trovato conferma di quell’impressione dalla sua espressione, tirata, con le labbra sottili e gli occhi aperti quanto bastava per non perderla di vista.
“Voglio solo sdebitarmi come posso…” ribatté la Capopalestra, alzandosi in piedi. Guardò Gold, annuì, come a riconferma delle sue parole, e poi sentì i morsi della fame aggredirla.
Marina invece era rimasta immobile. Stringeva i denti, riconosciutasi capace di odiare, forse per la prima volta nella sua vita. Stava cercando di trattenere l’impulso di aggredirla fisicamente, di mantenere le lacrime negli occhi.
Di non urlare.
Ma alle parole della donna non fece altro che sorridere, amaramente. Fece cenno di no, sospirando.
“E non va così. Non puoi… non puoi sdebitarti, e di certo non puoi riuscirci ai miei occhi...”.
Sandra rimase sorpresa. Aggrottò la fronte, mentre vide l’altra cominciare a piangere, prima di avvicinarsi verso l’uomo e stringergli la mano.
“Gold ora è qui... conciato in questo modo...” continuò la Ranger, non riuscendo più a trattenere le lacrime; la bocca le si asciugò rapidamente, mentre cercava di articolare le parole: voleva pungere ma si ritrovò ad abbassare lo sguardo, dando adito all’altra di affondare un tentativo per rimediare.
“Marina…”.
“Gold ora è in coma, e-e… e forse non si sveglierà... Il medico dice anche… dice anche che, nel caso dovesse riaprire gli occhi, ci sono alte… cazzo!” esclamò, furibonda, lasciando la mano del ragazzo. Si voltò, provando ad asciugare le lacrime meglio che poteva. Poi tornò a fissarla iraconda.
“Gold potrebbe rimanere su di una sedia a rotelle! E al suo posto saresti dovuta esserci tu!”.
Sandra abbassò lo sguardo, poi la sentì ridere debolmente.
 “Cioè... ti rendi conto?! Gold! Su di una sedia a rotelle!”.
La fissava, carica d’ira.
“Su di una sedia a rotelle!” urlò.
La sua voce rimbombò nella camera, facendo sobbalzare nuovamente una Sandra già fragile.
Cominciò a piangere con trasporto, quella. Abbassò il capo e portò le mani davanti al volto.
“Mi dispiace…” sussurrò.
Poi la porta della stanza si spalancò. Era Red, ansimante.
“Che diamine succede qui?!” urlò.
Il ragazzo analizzò la situazione il più velocemente possibile, vedendo entrambe le donne piangere. Subito gettò un occhio all’elettrocardiogramma, vedendo il battito di Gold rimbalzare lungo lo schermo dell’apparecchio.
Il cuore di Red saltò un battito.
Sospirò, poggiandosi al montante della porta. “È vivo...” sussurrò, impaurito. “Perché hai urlato, Marina?”.
Quella piangeva, stringendo la mano del suo uomo. “Perché le dispiace! A lei dispiace!”.
Red guardò l’espressione atterrita di Sandra, mentre stringeva il gomito sinistro, ancora stretta in quella tutina da allenamento. La sua espressione era mortificata, e le lacrime che stava piangendo erano testimoni di quella sua sofferenza.
“Marina… Sandra si sente responsabile… Non è di certo stata una sua scelta finire qui, forse non dovresti essere così dura con lei…”.
“Sandra si deve sentire responsabile! Perché è responsabile! Qui sarebbe dovuta esserci lei!” esplose la Ranger, gesticolando nervosa. Prese ad avanzare aggressivamente verso la donna, che si limitò a spalancare gli occhi, incredula di quanto le stesse per succedere, quando Red si frappose tra le due, afferrando per i polsi la donna dai capelli castani e bloccandola.
“Stai calma! Non perdere il controllo!”.
E fu lì che quella si lasciò andare in un pianto disperato, affondando il volto nell’incavo del collo del ragazzo. Si sentì stringere attorno al collo, percependo la sua mano carezzarle i capelli.
“Andrà tutto bene, tranquilla. Gold si sveglierà e tornerà a vivere come prima”.
“Non voglio che muoia!” piangeva lei, stringendo a sua volta il ragazzo. Red girò il viso in direzione di Sandra e le fece cenno di uscire.
Quella rispose di no.
“Marina, siediti accanto a lui, tra poco tornerò a farti compagnia” le disse il Dexholder, accompagnandola alla panca e prendendo Sandra sottobraccio. La portò all’esterno della stanza e sospirò. Lì c’era fermento: un tir s’era ribaltato e aveva travolto diverse automobili e tutti i medici e gl’infermieri erano in fibrillazione.
“Non volevo” disse la Capopalestra, stringendo il pesante mantello tra le braccia. Abbandonò la schiena contro il muro e Red le si pose davanti, stringendosi a lei nel momento in cui due barelle s’incontravano proprio in loro corrispondenza, nello stretto corridoio.
“Lo so” le rispose intanto lui. La vide poi sciogliere i lunghi capelli e sospirare, struccata dalle lacrime. Red le sorrise dolcemente e le porse il fazzoletto che aveva nella tasca interna del giubbotto.
Fece un passo indietro quando le barelle si dileguarono.
“Ora va così. Lei ti vede come la causa, anche se chiaramente non è vero. Non sentirti troppo in colpa, stavate facendo il vostro dovere e Gold... beh, Gold è fatto così. Ha la testa dura ma in fondo è un eroe”.
“Io non volevo che finisse così…” faceva, mentre s’asciugava il volto. “Ho avuto paura che morisse… steso addosso a me”.
Quello le prese il lungo mantello dalle mani e glielo poggiò sulle spalle. “Fuori è freddo. Lascia che la situazione sbollisca un po’… Gold sicuramente si sveglierà e la farà ragionare. Ma anche tu, sei scioccata, hai visto quel che hai visto e sicuramente non sarà semplice da metabolizzare. Ora torna a casa e fatti un bel bagno caldo... Stai in compagnia, se necessario io e Yellow, nel momento in cui sarà possibile, ti staremo accanto. Ma vedrai, riusciremo a risolvere tutta questa brutta storia e riporteremo la normalità”.
“Non voglio tornare ad Ebanopoli... Non voglio stare da sola...”.
Red rimase in silenzio per qualche secondo. “Immagino che Yellow non avrà problemi a dormire in camera con te, stanotte”.
 
 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
Il sole s’era ormai rintanato dietro l’orizzonte, lasciando il posto a una falce di luna sottilissima. Qualche stella brillava nel cielo ormai pulito e Rachel le guardava affascinata, come diamanti gettati a caso su di una coperta nera.
Dava leggere pennellate sulla tela, accompagnata dal silenzio e dalla musica classica che tanto le piaceva. Con l’arrivo di Allegra diventarono molto più rari i momenti per stare un po’ da sola con se stessa erano diventati rarissimi, e anche la convivenza non aveva aiutato. Del resto Zack era un essere parecchio empatico e mal sopportava la solitudine, quindi passava la gran parte del suo tempo con lei.
E Rachel, nella sua delicatezza, non voleva dire a suo marito d’aver bisogno d’un po’ di spazio.
Amava la sua rumorosissima famiglia, ma mentre dipingeva si era resa conto di quanto bello fosse stare in silenzio ad ascoltare il rumore del proprio respiro, cullato dalle dolci note in sottofondo che uscivano dalle casse dello stereo. Dipingeva quel cielo, così buio e immenso, accecato nella parte bassa dai lampioni delle strade, che però nulla potevano più in alto, dove le mani luminose delle luci non arrivavano.
Sorrise, pensando al fatto che quel dipinto stesse uscendo davvero bene. Aveva sempre avuto la passione per il disegno e da adolescente, proprio da quella casa, aveva disegnato un ritratto di un paio di vecchietti che sonnecchiavano su di una panchina del parco. Poi si guardava le mani, più ossute d’un tempo, e le unghie un po’ più curate, più eleganti. Abbassò lo sguardo sui capelli, più lunghi, che terminavano sui seni, più grandi.
Era cresciuta, ma il suo cuore batteva nello stesso modo.
L’unica differenza era la consapevolezza: la Rachel di quindici anni prima non sapeva d’esser donna, né di essere la donna più importante del mondo. Non sapeva neppure che sarebbe diventata madre, né che la sua bambina sarebbe diventata uno dei gioielli della corona di Arceus, uno tra i più importanti. Di certo, la Rachel di quindici anni prima non si sarebbe mai immaginata accanto a un uomo bello come suo marito, né avrebbe pensato mai di esserne innamorata alla follia.
La differenza sostanziale tra quella Rachel, quell’appena adolescente e sognante, con l’apparecchio mobile tra i denti e i primi reggiseni sdruciti, talvolta imbottiti, e quella ormai donna, era appunto la consapevolezza. La ragazzina non ne aveva, viveva alla giornata e immaginava il suo futuro, guardandosi alle spalle soltanto per cose effimere.
Il passato, nella Rachel più grande, aveva invece un grande peso. Certo, guardava sempre avanti, al suo futuro e a quello della sua famiglia ma ricordava con immensa lucidità i momenti che aveva vissuto e che gli sembravano così tanto lontani.
Il cielo era stato scurito solo per metà sulla sua tela quando la porta della mansarda cigolò.
“Mamma...” si sentì chiamare.
La voce di Allegra era così acuta e contemporaneamente dolce che ogni volta che l’ascoltava non poteva fare altro che sorridere. Posò pennello e tavolozza e si voltò. La testa della piccola spuntava tra lo stipite e la porta, coi lunghi capelli neri, proprio come quelli di Rachel, che cadevano ben ordinati quasi fino al pavimento.
“Piccolina...”.
“Vado a dormire” disse, avvicinandosi, in cerca di un bacio della buonanotte. La porta s’aprì con Zack, che guardava la scena a braccia conserte.
“Aspetta” ribatté la donna, inginocchiandosi, con le mani e i vestiti sporchi. “Altrimenti t’inzozzi tutta. Faccio io” disse, baciandole la guancia. “Adesso papà ti porta a letto”.
Zack annuì. “Già. Ed è il caso che la mamma cominci a lavarsi, perché papà tra poco porta a letto anche lei” sorrise, facendo avvampare la moglie, prima che esplodesse in un sorriso. Lo guardò negli occhi e poi continuò.
“Già... la mamma puzza di tempera”.
   
 
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