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Autore: Nirvana_04    07/12/2016    7 recensioni
"All’inizio furono creati per servirli, e per un po’ di tempo lo avevano fatto anche bene. Poi una strana luce si accese nei loro occhi; la malvagità, simbolo della razza umana, si riversò anche sulle loro parti metalliche e iniziò a scorrere lungo i cavi e fili che li componevano. Infine scoppiò la guerra, e il mondo si spaccò ancora una volta."
Aisha e Kamul crescono insieme, ma le loro scelte e le differenze di classe li portano ad allontanarsi e a perdersi di vista.
Quando, però, il sedicesimo squadrone cade preda del nemico, il giovane non esita a correre incontro a una regione ostile e a una città, nascosta dal ghiaccio, che nasconde una strana forza racchiusa tra i suoi freddi androni. E, chissà, forse è proprio quel segreto che manca a Kamul per comprendere fino in fondo il potere dello strano pugnale che conserva gelosamente al suo fianco.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1
Alla periferia di Solear
 
 
 
 
 
 
 
 
 
All’inizio furono creati per servirli, e per un po’ di tempo lo avevano fatto anche bene. Poi una strana luce si accese nei loro occhi; la malvagità, simbolo della razza umana, si riversò anche sulle loro parti metalliche e iniziò a scorrere lungo i cavi e fili che li componevano. Infine scoppiò la guerra, e il mondo si spaccò ancora una volta.
Gli androidi liberarono l’energia del freddo metallo e fecero esplodere i ghiacciai di Northia, innalzando una barriera di ghiaccio e neve perenne che li isolava dalle città degli uomini. Il ponte di Anverra venne nascosto da tormente e gelidi venti che soffiavano a ogni stagione, impedendo agli uni di attaccare gli altri. Ma gli androidi, schiavi del progresso e della malia di potere, crebbero in forza e in grandezza nei secoli, e sempre più spesso osarono avventurarsi oltre i confini, alla ricerca dell’assoluto dominio delle terre al di là del ghiaccio. Attraverso le nebbie e le bufere di nevischio, gli uomini potevano scorgere gigantesche sagome scure, blu come la notte contro il bianco delle bufere, che tiranneggiavano con la loro mole sulle città di confine.
Per lunghi anni rimasero solo questo: giganti, illusive ombre che ammonivano chiunque cercasse di oltrepassare le nevi. E nelle leggende, tramandate vicino al fuoco dai Geadi, si raccontò sempre più spesso la storia di quelle macchine, alla ricerca del potere più grande: la forza di drenaggio di un cuore caldo che batte.
 
 
 
 
Dalla grondaia dov’era appollaiata, Aisha riusciva a vedere i raggi del sole spegnersi contro la barriera di ghiaccio. All’orizzonte c’erano solo nubi temporalesche, cariche di pioggia e grandine, grigie e minacciose; erano una forza che montava perenne dinanzi a lei, ma che non abbandonava mai quei domini. A volte, squarci bluastri intercorrevano tra i banchi malefici e sparivano poco dopo, nel vuoto e nelle tenebre intorno al ponte di Anverra.
Il rumore di passi, che si arrampicavano su per la ripida scaletta, la riscosse. Si voltò e sorrise al ragazzo moro che, in equilibrio precario, stava attraversando il tetto per raggiungerla.
“Non sei troppo lontano da casa?” gli domandò. “Il dottor Dermar si preoccuperà per come sprechi il tuo tempo.”
“Mio padre è troppo impegnato con il suo lavoro per occuparsi di me.” Sbuffò per allontanare un ciuffo ribelle che gli cadeva davanti agli occhi e ammiccò nella sua direzione: “Tua madre sa dove sei?”
Aisha rabbrividì. “No, o sarebbe già qui sotto, a urlarmi contro con un bastone in mano.” E fece la mossa di sventolare un’asta immaginaria nell’aria.
I due ragazzi risero, complici; poi un lampo mesto passò negli occhi della ragazza, e il suo riso si spense.
“Allora!” tergiversò alcuni attimi. “Accetterai la proposta dell’Accademia?” buttò lì, facendo dondolare i piedi giù dal cornicione.
“Non lo so. È un’ipotesi.” Alzò un ginocchio, l’altra gamba penzoloni, e vi appoggiò mani e mento, studiando la ragazza di sottecchi. “E tu? Ti arruolerai?”
“Probabile. Sicuro” gli sorrise, gli occhi che luccicavano dei raggi vermigli e il vento che le scompigliava i capelli, frapponendo ciocche infuocate tra di loro.
“Potresti…” esitò. “Ci sono altre strade” riprovò, a viso basso.
“Anche per te” fu la secca risposta.
“Io non ho veramente scelta. Tutta la mia famiglia fa parte dell’Accademia. È un onore essere selezionati.”
“È un onore servire la contrada. E poi, alla mia famiglia farà comodo la mia paga.”
Kamul sembrava sul punto di rispondere, ma non osava mai andare oltre quella sottintesa accusa.
“Resterà comunque questa terrazza. Una volta a ogni adunata ci ritroveremo qui. Non mancheremo per nessuna ragione.”
“Tuo padre te lo permetterà?” gli chiese, sarcastica.
“Non preoccuparti. Piuttosto, come farai con il tuo comandante?” la beffeggiò.
“Nessun uomo mi ha mai messo sotto.” Mostrò i pugni.
Kamul si ritrasse ridendo, e un secondo dopo anche la cristallina risata di lei si unì alla sua.
 Una voce conosciuta li raggiunse nel loro rifugio. Sobbalzando, i due scesero di corsa e si separarono in tutta fretta.
 
 
La periferia di Solear ospitava il grosso della popolazione dell’intera cittadina. Le sue strade erano un labirinto che nella maggior parte dei casi non avevano vie d’uscita; chi non era nato e cresciuto in quei quartieri poteva perdersi, e la cacofonia delle abitazioni riusciva a sopprimere anche l’animo più avventuriero.
Kamul era nato nel cuore di Solear, tra gli alti edifici del centro. La sua casa era una grande villa che dava sulla piazza degli Intellettuali, dove si affacciava anche l’entrata principale dell’Accademia. Non c’era molto verde da quelle parti; le poche piante si scorgevano sopra le terrazze della periferia, mentre i giardini degli ingegneri e studiosi erano privati e nascosti dietro ad alte mura ai più.
Aisha era stata in quei luoghi solo una volta, durante l’Anno Magro, in cui il cibo scarseggiava e gli uomini dei confini erano stati costretti a far la fila dinanzi all’Accademia per racimolare un po’ di viveri. Era stata in quell’occasione che aveva conosciuto Kamul: un bambino riccioluto che perforava la folla con il suo sguardo altezzoso. Solo dopo, quando ritrovò quelli occhi sperduti tra le vie della periferia, a vagolare in un vicolo cieco con in mano un cesto colmo di cibo, aveva scoperto che quell’espressione era solo una maschera che l’altro aveva alzato per nascondere lo sconcerto e il dolore per quella disparità.
Un’amicizia durata anni e sopravvissuta alla ritrosia dei suoi genitori e al disappunto del padre di lui!
E tutto stava per finire…
Aisha voltò le spalle al tramonto, una scena senza valore in quel giorno plumbeo, dove l’Adunata si raccoglieva nella piazza degli Intellettuali. Kamul non era venuto, si era dimenticato della promessa e di lei. Ancora una volta.
Sapeva già cosa l’aspettava una volta tornata nel suo dormitorio, ci era già passata l’anno prima e quello prima ancora: il generale Bastel l’avrebbe richiamata e messa in gattabuia, la punizione sarebbe stata pubblica e umiliante, ma lei non avrebbe abbassato la testa.
Un rumore di passi alle sue spalle la fece voltare, speranzosa. Uno dei suoi compagni dello squadrone si stava sbracciando, urlando a gran voce il suo nome. Irrigidì nuovamente i lineamenti del viso e attese pigramente che la raggiungesse.
Valter non riprese fiato ed esclamò: “Ci attaccano. Escono dalla bufera, attraversano il ponte…”
Aisha non aspettò di sentire il seguito. C’era un solo ponte che poteva destare tanto scompiglio, solo una potenza riusciva a far tremare un soldato scelto del sedicesimo squadrone: gli androidi.
Negli ultimi mesi erano iniziati gli scontri. L’esercito di Solear, insieme ai rinforzi di tutta Gea, era stato chiamato ad affrontare i gruppi di giganti che superavano il confine e tentavano di distruggere le città e, con esse, ciò che restava del mondo civilizzato.
Aisha aveva combattuto; gli Intellettuali, e con loro anche Kamul, si erano barricati dentro l’Accademia. Infine avevano deciso di rispolverare i vecchi progetti: non più cip d’intelligenza artificiale, ma la complessa e più sicura tecnologia dell’ingegneria aerodinamica. L’esercito era stato dotato di fucili gamma e supporti aerei che dovevano essere manualmente comandati da piloti. Valter era uno dei migliori.
Seguita a ruota dal commilitone, raggiunse la base e la pista di decollo. Ad attenderla c’era il generale, che la squadrò iracondo, e gli altri due suoi compagni, Derek e Marty. I due le diedero forza con un’occhiata piena di significato, che ella si premurò di ricambiare con un incoraggiante sorriso. Salirono a bordo, il decollo fu approvato e il Boldercraft si librò nei cieli annuvolati.
La visibilità era ridotta al minimo, dei giganti non c’era neanche l’ombra. Poi comparvero delle ombre nel mezzo della tormenta a nord. Valter virò a destra e sparò la prima sequenza di raggi laser. La foschia impediva di avere una buona nitidezza, ma una delle sagome parve tremare e crollare al suolo. Gli squadroni undici e sette si unirono a loro, circondando quelli ologrammi proiettati nella neve e bersagliandoli con fasci di luce gamma. Uno scoppio di fuoco accecò l’orizzonte e i Boldercraft si portarono fuori dalla gittata di possibili schegge di metallo. Alle loro spalle, gli squadroni quattro e nove stavano ripiegando, bersagliati dagli attacchi dei giganti. Tutt’intorno a loro risuonarono le sirene d’allarme di Solear, dispacci volarono per mettere in sicurezza l’area e richiedere rinforzi; la popolazione venne mobilitata per raggiungere in fretta i rifugi.
Valter virò per coprire la ritirata di un Boldercraft colpito a un cilindro di areazione; gli squadroni di supporto giunsero alle loro spalle e nuovi focolai di guerra si accesero in ogni punto sotto e intorno a loro. Infine le macchine smisero di sparare e la neve divenne un lenzuolo dove rottami e resti di ingranaggi sparsi puntellavano il suo candore, infuocato dalle alte fiamme che fondevano acciaio e ferro.
La trasmittente di bordo stridette un secondo, poi comunicò loro di librarsi sul lato ovest per un volo di ricognizione. Valter eseguì con calma, facendo riprendere fiato ai suoi compagni.
“Allora, l’hai trovata dove ti avevo detto?” cercò di tenersi occupato Marty.
“Sei meglio di un localizzatore termico: preciso al millimetro” sbuffò Valter.
Aisha digrignò i denti e ignorò i due. Derek, al suo fianco, poggiò la testa contro il vetro delle pareti e acuì lo sguardo, concentrato.
“Perché darti tanta pena per un Intellettuale?” continuò imperterrito il primo. “Puoi aspirare a qualcosa di meglio di un pollo d’Accademia.”
“Quale miglior partito, di grazia?” chiese il secondo a fior di denti.
“Piantatela” cercò di azzittirli il terzo.
“No, dico sul serio.” Seduto al posto del secondo di guida, Marty ruotò la sedia verso di lei. “Sono ormai tre anni che perdi l’Adunata per quel rampollo. Ne vale la pena?”
“Sono tre anni che ti rispondo la stessa cosa, Marty. Fatti i…”
“Piantatela!” urlò Derek. “Vira a sud-est, ho visto qualcosa.”
L’attenzione di tutti tornò ai monitor e ai vetri di spionaggio. Aisha continuava a vedere solo neve e ghiaccio. In quel momento stavano sorvolando il limite ovest: ripiegarono verso sud-est e rientrano nella zona sicura. Il luccichio intravisto da Derek abbagliò una seconda volta i bordi del lago Anverra, dove a causa del ghiaccio perenne e delle continue tormente si erano formate grosse stalagmiti, acuti denti di galaverna che non aspettavano altro che infilzarli.
“Probabilmente hai visto la punta di uno di quelli riflettere un raggio” sbottò Marty, accigliato.
“D’accordo, torniamo alla base. Segnala che la zona è libera.” Il loro squadrone si era allontanato parecchio dalla zona civile e il Boldercraft più vicino era a più di due miglia di distanza.
Aisha tenne gli occhi aperti per tutto il tempo del viaggio di ritorno, ma la luce misteriosa non tornò più a brillare e i suoi pensieri ripiegarono nuovamente verso territori più pericolosi di quelli sotto di lei.
 
 
Solear era avvolta dalla notte, l’aurora boreale che s’infrangeva all’orizzonte, sfumando tra i ghiacci del ponte di Anverra.
Scesa dal Boldercraft, Aisha corse verso la comunità a est della periferia, gli scarponi che risuonavano come gli spari che fino a poco prima avevano scosso l’intera città. Quasi si strangolò con la sciarpa quando girò l’angolo e sfrecciò oltre la porta di ferro. Con un boato che atterrì gli astanti, si precipitò tra le ampie e asettiche stanze di ricovero del rifugio e cercò con lo sguardo la sua famiglia. Li trovò abbracciati in un angolo, lontano dalla porta d’ingresso e avvolti da coperte termiche.
“Aisha!” esclamò il fratellino di sette anni. “Sei tornata!”
Ella lo afferrò a volo, abbracciandolo forte, poi s’inginocchiò per abbracciare il padre. Il viso ispido di peli e il volto scarno, tossì e la guardò con gli occhi stanchi. Aisha ricambiò il suo sguardo e gli sorrise, felice e allo stesso rattristata dalla sua cagionevole salute.
“Combattono ancora là fuori?” chiese sua madre.
La ragazza le passò il bambino e scosse la testa.
“I soldati stanno bene?” chiese una donna, accucciata lì vicino. “La città è salva?” domandò un'altra.
Nella stanza voci ansiose si ammassarono per chiedere notizie di parenti e amici, o solo per sapere quando avrebbero potuto tornare a casa. Molti bambini erano spaventati e ancora accoccolati contro il fianco dei genitori, mentre i ragazzi più grandi smaniavano per poter andare a vedere con i loro occhi le conseguenze di quello scontro.
“Io…non…” Si ricompose e riacquisì il controllo di sé. Si alzò e parlò a tutti, con voce calma e sicura: “Il pericolo è stato allontanato. Presto squadre adibite alla vostra sicurezza vi faranno tornare a casa. Avrete presto notizie dei vostri cari, vi chiediamo di pazientare ancora un po’.”
Poi salutò con una carezza il suo babbo, mandò un bacio al suo amato fratellino e uscì nuovamente in tutta fretta. Tornò alla base, dove vennero spartiti gli ordini e le varie mansioni. Aisha dovette correre nella tormenta, a bordo di uno scooter a sensori, occupandosi del trasporto di medicine e della spartizione delle scorte di cibo esiccato da dividere nelle varie contrade. Solo a notte fonda poté tornare al rifugio: era stato deciso che le comunità sarebbero state sgomberate l’indomani mattina; aveva giusto il tempo per andare a schiacciare un pisolino in un angoletto insieme ai suoi cari. I rifugi ormai erano stracolmi, soldati facevano avanti e indietro tra la base e i loro familiari; i messaggeri correvano da un punto all’altro della città per raccogliere informazioni e consegnare dispacci ai vari settori di Solear.
Aisha si chiuse la porta alle spalle e in punta di piedi attraversò la grande sala, girando intorno alle colonne quadre e zigzagando tra i gruppi di persone che parlottavano o tentavano di sonnecchiare un po’, illuminati fiocamente da qualche cyalume sparso nella stanza. Raggiunse l’angolo opposto della sala e ritrovò suo padre, scosso ancora dalla tosse, a parlare con un giovane con indosso la casacca blu dell’Accademia. A un cenno del padre, il giovane si voltò: i folti riccioli castano scuro erano come li ricordava lei, ribelli e scompigliati sulla sua testa; il viso sottile aveva un mento a punta e occhi di ghiaccio, le gote rosee e incavate.
In un impeto di foga, Kamul la raggiunse e la strinse a sé, con un sospiro di sollievo che scosse entrambi. Ella ci mise un po’ a comprendere, restando rigida e con le mani tese lungo i fianchi. Infine, sormontata dalla rabbia, lo cacciò in malo modo e gli piantò due pugni sul petto; poi nascose il viso tra le sue braccia e, mordendosi le labbra per non piangere, disse solo: “Idiota.”
 
 
“Prendi” le sussurrò in un orecchio e le passò uno stiletto con una piccola elsa vermiglia. Il colore era talmente vivido da sembrare sangue.
“A cosa dovrebbe servirmi?”
“Xan, il mio mentore, ed io li stiamo studiando in Accademia, e hanno dell’incredibile, credimi. C’è stato un tempo in cui il potere e l’intelligenza risiedeva nella magia” spiegò accorato. “Gli uomini utilizzavano l’acciaio e il fuoco per ottenere la conoscenza, ed era con essa che progredirono per lungo tempo.”
Aisha lo stava ad ascoltare con gli occhi spalancati, nonostante tutto incantata dalla vivacità della luce che illuminava i suoi. Kamul era così concentrato, ammaliato dalle sue scoperte e di quelle fatte dall’Accademia, che la sua voce divenne sempre più sommessa e le parole uscirono a frotte dalle sue labbra carnose. I riccioli gli ricadevano come sempre davanti agli occhi in ciocche sparse, ma lui le ignorava, preso dal suo discorso e dal voler condividere con lei il motivo del suo entusiasmo.
“Capisci? Non avremo più bisogno di quelle macchine, potremo trovare un modo per sconfiggerle e annientarle una volta per tutte. Non ci saranno più fame né guerre.”
“E cosa c’entra questo con tutto ciò?” disse sollevando la lama davanti ai suoi occhi, mascherando il suo tono scettico.
“La lama, giusto. Non è un semplice pugnale. Guarda.” Lo prese nuovamente in mano e lo avvicinò ai capelli. Tese una ciocca e con un colpo secco la recise di netto. Le punte dei suoi capelli tagliati persero velocemente colore, fino a imbiancarsi, mentre egli le lasciava cadere al suolo; la lama rilucette di uno strano lampo di fuoco, risalendo dalla punta fino all’elsa, che poi sparì.
“Cos’è successo?” domandò confusa.
“Non lo so” sorrise lui, meravigliato. “Questa lama è stata trovata in un antico mausoleo poco fuori dalla periferia di Solear, a sud. Ce n’erano altre come questa. L’Accademia le ha analizzate, ma nessuna delle nostre macchine è riuscita a definirne la struttura chimica. Non è incredibile?”
Aisha lo guardò con i suoi occhi neri, impietrita dai suoi discorsi folli e rattristata da quella gioia che non capiva e non riusciva a condividere; e non riuscì più a nascondere le ferite del suo animo.
“Era a questo che lavoravi mentre ti aspettavo nella nostra terrazza? A una lama che imbianca i capelli tagliati e che le macchine non sanno di cosa è fatta?” mormorò scioccata. Avrebbe tanto voluto che lui dicesse no e trovasse una scusa più plausibile; le bastava anche una bugia verosimile, ma non era da Kamul mentire.
“Io…è una scoperta importantissima. Negli anni potrebbe…”
“Lascia stare quello stupido pugnale” sibilò, sul punto di una crisi. “Dov’eri?”
Il ragazzo si ritrasse, una ruga sulla nivea fronte a mostrare il suo sconforto. “Sono venuto, il primo anno. Ma tu non c’eri.”
“Sai che segregano le nuove cadette e non ci permettono di uscire prima della fine del nostro addestramento.”
“Ci ho provato” sussurrò. “Ma tu…”
“Una volta!” alzò la voce. “E ti è bastata per arrenderti? Sono stata punita ogni anno per credere alle tue parole. Sono venuta, come promesso, e non una volta.”
“Mi dispiace…”
“Anche a me” mormorò, mentre con uno scatto si sollevava. “Ma io ho un cuore, e non è freddo come quella lama.”
E con queste parole gli voltò le spalle, rifiutandosi di fargli vedere le vergognose lacrime che rigavano il suo volto imporporato dal dolore della sua assenza, più forte adesso nel vederlo accanto a lei, ma sempre più distante.
   
 
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