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Autore: momoallaseconda    07/12/2016    3 recensioni
Dopo aver sofferto tanto, si può tornare di nuovo felici? Robin sta per scoprirlo...
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“Tornerai di nuovo a sorridere di cuore, vedrai… vedrai, Robin…” le sussurrò, commossa.
Sgranò gli occhi, il cuore in tumulto.
Quanto le sarebbe mancata quella testolina rossa della sua migliore amica.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nami, Nico Robin
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Smile Again
 
 
 
 
Chiuse l’ultimo scatolone con uno sbuffo affaticato. Lo sigillò ermeticamente con il nastro adesivo e lo mise accanto alla porta, insieme a tutti gli altri.
Si guardò attorno, strofinando le mani tra loro, soddisfatta.
Ammirò le pareti bianche, sgombre di quadri, il parquet scuro, visibile del tutto per la totale assenza dei soliti tappeti, le finestre senza tende e la mancanza dei mobili.
Ora che era vuoto, il suo appartamento pareva così grande.
Probabilmente, se ci avesse provato, la sua voce rimbombando tra i muri, le avrebbe riprodotto pure l’eco.
Sospirò pesantemente per l’assurdità di quel pensiero, togliendosi un ciuffo nero da davanti agli occhi e guardando ancora gli scatoloni impilati ordinatamente, pronti per essere portati via con lei.
Là dentro c’era tutto quello che rimaneva della sua vita.
Aveva deciso di tenere solo le cose più importanti. Gli antichi libri di nonno Clover, i pelouche che le portava la madre quand’era piccola, al ritorno dai suoi viaggi (Chopper, la renna, svettava sopra a tutti), l’attrezzatura per i suoi studi archeologici… Vestiti non ne aveva tenuti molti, ma il super set da trucco che le aveva regalato Nami per la partenza, due giorni prima, non lo avrebbe mai potuto lasciare lì.
Controllò un’ultima volta di aver preso tutto. Si, le sue cianfrusaglie erano pronte.
Tutti i mobili rimasti invenduti erano già partiti quella mattina con il camion dei traslochi, diretti a casa di sua madre.
Apparte il letto... di quello si era sbarazzata già tempo prima.
Storse la bocca, scuotendo la testa con forza.
Non permise alla sua mente di sfiorare ancora quel pensiero!
Quello che l’aveva resa un vegetale per giorni e dal quale si stava riprendendo a fatica.
Quello che era la causa principale del suo imminente trasferimento in un altro emisfero.
…dormiva sul divano da tre mesi…! Ma ora, anche quello se n’era andato. Avrebbe allietato un rifugio di senzatetto…
Una voce conosciuta la distolse dai suoi pensieri.
“Questo hai intenzione di portarlo con te?”
La sua migliore amica comparve dalla camera degli ospiti. Le mostrava un cappello bianco da cowboy, che aveva decisamente visto giorni migliori.
“No, puoi buttarlo…” Mormorò la mora, lanciandogli un’occhiata fugace.
Nami annuì soddisfatta e lo gettò nel sacco della spazzatura.
Le due donne si fissarono sorridenti. La nuova arrivata poggiò le mani sui fianchi, sospirando.
“Allora… ci siamo!” esclamò, con una punta di malinconia.
“Già…” rispose la mora, annuendo poco convinta, fissandosi le scarpe.
“Quando… quando si trasferisce il nuovo inquilino?” continuò Nami, con tono esitante, torcendo distrattamente una ciocca dei lunghi capelli rossi, intorno ad un dito.
“Tra due settimane…” mormorò Robin, puntando gli occhi sugli scatoloni.
“Ah, presto…”
“Già…”
“…”
“…”
“Mi chiedo ancora perché non hai preferito affittarlo…” sorrise debolmente la rossa, cercando di stemperare la tensione, ormai palpabile, nella stanza.
“Non valeva la pena. Vendere è stata l’idea migliore…” soprattutto perché, aggiunse a sé stessa, contava di non tornare a vivere in quella città mai più.
L’amica sembrò intuirlo. Incrociò le braccia e tirò su col naso.
“Oh, Nami! Mi mancherai…” mormorò Robin, in uno slancio di affetto così raro per lei, notando gli occhi lucidi della ramata e trattenendosi a sua volta dallo scoppiare in lacrime.
“Oh, andiamo!” sorrise l’altra, asciugandosi le lacrimucce che iniziavano a sfuggire al suo controllo, col dorso. “Verrò a trovarti spesso! Cosa vuoi che siano 10mila km e 11 ore d’aereo per me?” aggiunse ridendo, la voce appena un po’ tentennante.
Robin la guardò con un sorriso emozionato, prima di stringerla in un abbraccio caloroso.
“Non infrangere troppi cuori mi raccomando…” sussurrò Nami, al suo orecchio.
Lei ridacchiò, sciogliendo il contatto e guardandola negli occhi “Farò il possibile, sorellina…”
La rossa annuì seria, tirando su col naso, gli occhi ancora lucidi. Robin rise.
“Basta, ti prego! Se piangi tu, lo sai che poi ti seguo a ruota!”
La più piccola fece una risatina nervosa, lasciando uscire ancora lacrime, che asciugò veloce con le dita.
La mora riuscì a trattenersi, sospirando pesantemente, la vista un appena un po’ appannata.
Le due donne si sorrisero. Amiche, sorelle, complici, così come lo erano state per anni.
“Sicura che non vuoi che t’accompagni all’aeroporto?” le domandò Nami, con un nodo in gola, riprendendo un po’ di contegno.
Robin scosse la testa. “Preferisco andare da sola.” L’altra annuì, fissandosi le scarpe.
“Verrò a trovarti per le feste di Natale! Prepara già la mia stanza!” esclamò all’improvviso, gli occhi brillanti.
Robin rise “Ovviamente. Ti darò la migliore, quella esposta a sud.” Sapendo bene quanto l’amica adorasse il caldo.
“Che paradiso, già non vedo l’ora! E se Zoro non vuole venire, non mi interessa! Andrà dalla sua cara mammina Boa a farsi le ferie, mentre io sarò da te ad abbrustolirmi al sole della California!”
Robin rise più forte, abbracciandola di nuovo, con slancio.
“Tornerai di nuovo a sorridere di cuore, vedrai… vedrai, Robin…” le sussurrò, commossa.
Sgranò gli occhi, il cuore in tumulto.
Quanto le sarebbe mancata quella testolina rossa della sua migliore amica.
Come avrebbe fatto dall’altra parte del mondo, senza di lei? Non voleva pensarci. La strinse più forte.
Rimasero strette un’eternità, sorridendo, mormorando raccomandazioni l’una all’orecchio dell’altra, piangendo e cercando di non pensare al fatto che mancassero ancora quattro mesi a Natale.
Sciolsero il contatto solo quando il conducente del taxi premette il citofono per la terza volta, impaziente di portare la cliente all’aeroporto, come pattuito.
Nami l’aiutò a caricare tutto in macchina.
Si abbracciarono un’ultima volta, ridendo.
Robin continuò a ridacchiare anche mentre montava in auto.
Sorrise, guardandola mandarle un bacio dal finestrino.
Si morse le labbra, nervosa, vedendo la silhouette dell’amica, in piedi sul marciapiede, allontanarsi, mentre il taxi imboccava la via.
Lasciò cadere la prima lacrima, quando la figura di Nami sparì completamente dalla sua visuale e, con lei, tutto il suo passato.
 
 
Aveva fatto il check-in e caricato i bagagli sull’aereo.
Pigramente, trolley alla mano, si era diretta verso i numerosi punti ristoro.
Mancavano ancora più di 45 minuti al suo volo.
Si sedette su una delle tante panchine dell’aeroporto, circondata da decine di persone come lei, che affollavano la sala d’attesa.
Non si era portata da leggere. Forse per la prima volta in vita sua, non desiderava sprofondare tra i suoi adorati libri. Infossò la testa nelle spalle, incrociando le braccia.
Voleva pensare. Voleva lasciare liberi i suoi pensieri, stavolta, non costringerli più dietro un muro di indifferenza.
Sospirò. Era ad un passo dal realizzare il sogno di ogni archeologo.
A soli trent’anni avrebbe potuto lavorare per un’importante università californiana, che effettuava ricerche da decadi, su un misterioso popolo vissuto quasi mille anni prima. Grazie al contributo che lei stessa aveva dato con i suoi studi, stavano per venirne a capo. L’aveva contattata lo stesso rettore, complimentandosi del suo lavoro e per convincerla ad unirsi a loro in pianta stabile.
Strana la vita… quando aveva ricevuto la proposta le era sembrato un segno del destino. Ma ora…
Ripensò a mente fredda a quello che si lasciava alle spalle.
Stava letteralmente dicendo addio a tutta la sua vita.
Stava forse sbagliando tutto? Sarebbe stata in grado di affrontarlo?
Ma, soprattutto, perché diavolo si faceva questi scrupoli proprio ora, ad un passo dalla partenza??
Si guardò attorno, cercando una risposta tra la gente che affollava l’aeroporto.
Sua madre le diceva sempre che le sale d’attesa sono l’unico posto nel quale poter fare davvero un bilancio costruttivo della propria vita.
Storse la bocca. Non c’aveva mai dato peso come ora.
In effetti… lì avevi tempo per prendere un caffè nero, ristretto, senza schiuma.
Tempo per leggere un quotidiano, come al bar, senza la solita occhiata fissa dell’anziano accanto a te, che di duecento giornali vuole proprio quello che tieni in mano tu.
Lì potevi sprofondare nella sedia, pensando ai tuoi problemi, senza che qualcuno venisse per forza a disturbarti.
Si, le sale d’attesa degli aeroporti avevano un non so che di portentoso. Come anche quelle degli autobus, dei treni… quelle del medico però no, non lo erano. Lì di anziani che volevano il tuo giornale ce n’erano anche più che al bar…
Pensandoci adesso, la sua era da sempre una vita in attesa. Non ricordava un giorno che non avesse passato in aspettativa di qualcosa o qualcuno.
Da piccola, passava i giorni in attesa che la mamma tornasse dai suoi lunghi viaggi di lavoro.
Da adolescente, attendeva che fossero gli altri ad accorgersi di lei. Per sua fortuna, Nami era una che non si faceva troppi problemi quando si trattava di attaccar bottone e, con Robin, aveva dovuto cavare parecchi ragni dal muro, prima di ricevere reazioni positive ai suoi monologhi, in ricreazione. Con gli anni era diventata la sorella che non aveva mai avuto.
Da studentessa, aspettava di laurearsi per trovare poi un buon lavoro.
Da fidanzata, attendeva con ansia, il giorno in cui lui le avrebbe fatto la tanto agognata proposta.
Sospirò pesantemente, lasciando scivolare i pensieri verso la sera in cui erano crollate tutte le sue certezze.
Ritornò con la mente a tre mesi prima, quando considerava ancora Kuzan la sua perfetta metà, convinta di essere lo stesso per lui.
Pensava davvero che le avrebbe chiesto la mano, doveva solo aspettare.
Si rabbuiò. Insomma, era quello che ci si aspettava da una coppia che durava da sette anni!
Per lo meno, lei se lo aspettava!
Un vero peccato scoprire di essere completamente fuori strada quando, una sera in cui era tornata prima per fargli una sorpresa, lo aveva beccato a letto con una sua collega di lavoro. Quell’orrido tricheco flaccido di Hina, come amava definirla Nami, nei momenti di odio collettivo.
Ne era rimasta talmente sconvolta da non essere riuscita a spiccicare parola per venti minuti buoni.
I due bastardi si erano rivestiti con calma, mentre lei attendeva in salotto di ritrovare l’uso della parola.
Hina era uscita senza guardarla e Kuzan le si era avvicinato tranquillo, sedendole affianco sul divano.
Aveva iniziato dicendo che gli spiaceva l’avesse scoperto così, che era successo per caso, che il lavoro li stressava. Proseguendo la sua filippica con il sempre intramontabile ‘ti sento distante da mesi, il nostro rapporto si sta raffreddando, non siamo più affiatati come un tempo.’ E con un’inaccettabile e sfacciato ‘vorrei che potessimo restare amici.’
Parole vuote per lei, che se ne stava immobile, seduta composta sul divano di casa loro, ad assimilare frasi che non avevano ne capo ne coda.
Rapporto raffreddato?? Restare amici??? Ma di che diavolo parlava???
Robin voleva sposarlo! Voleva dei figli da lui!
Era convinta avessero una vita meravigliosa! Fatta di amore, complicità, fiducia. Una relazione stabile!
E poi…
“Perdonami, ma noi… abbiamo capito di amarci…”
…la ciliegina sulla torta.
…………………..ABBIAMO CAPITO DI AMARCI??
Ma vogliamo scherzare??
Quella era la stessa donna della quale lui si lamentava in continuazione a cena, da mesi, perché voleva soffiargli la promozione!!!
Ma la stava prendendo ingiro???
Lui amava quella????
E lei che si era pure sorbita ore e ore di recriminazioni contro Hina, adesso avrebbe dovuto accettare la cosa e starsene buona????
Non fosse stato per la sua improvvisa afasia, unita al suo immane autocontrollo, li avrebbe inceneriti entrambi sul posto, ancora nudi, coperti solo dalle lenzuola del SUO letto!
Kuzan si rendeva conto di aver appena distrutto la storia più importante della sua vita??
Lo guardò fisso negli occhi, esaminandolo, di nuovo padrona di sé, mentre un’aura demoniaca si faceva strada in lei.
Per la prima volta in sette anni, non vedeva il suo fidanzato, la luce dei suoi occhi, vedeva un’idiota!
Un imbecille che si era fatto fregare dalla prima ochetta starnazzante con un bel culo, che gli era passata davanti!! Oh, beh, questo lo pensava lei, ingenuamente. Non poteva dirsi assolutamente certa che Hina fosse la prima.
Non c’aveva visto più. Urlando, l’aveva cacciato tra le sue proteste.
Aveva passato le successive due ore a piangere disperata, gettando le sue cose dalla finestra, distruggendo i suoi CD, strappando le sue camicie, fino all’arrivo di Nami, che aveva chiamato in preda all’isteria.
Robin riemerse a fatica da quei ricordi, trattenendo l’ennesimo singhiozzo.
Era colpa sua se aveva deciso di mettere migliaia di km tra lei e i suoi familiari e amici.
Colpa solo di quello stronzo, figlio di puttana, maledetto, bastardo di un Aokiji Kuzan!
Annuì tra sé e sé. Era a causa sua se non riusciva più a vivere serena nella propria città.
Sapeva di non aver avuto quella che si dice una reazione normale, forse aveva anche esagerato.
Quando mai, dopo la fine di una relazione, uno dei due capisce che cambiare emisfero è l’unica soluzione possibile per tornare a vivere felicemente?
In un altro momento, forse, quel lavoro non l’avrebbe accettato. Ma due mesi prima, quando gliel’avevano proposto, le era sembrato il salvagente che stava aspettando per riprendersi dallo stato catatonico in cui era caduta.
Aveva accettato di getto, sicura. Otto settimane di preparativi l’avevano rimessa in sesto, occupandole la mente e facendola tornare lucida.
Si chiedeva spesso se stava facendo la cosa giusta e, quando capitava, bastava accendere il cellulare e vedere la foto sullo schermo, in cui capeggiava ancora ostinatamente, la faccia da sberle del suo ex, per tornare convinta e sicura, a preparare le cose per il viaggio.
Il suo appartamento era spazioso e accogliente, al terzo piano di una bella palazzina con ascensore, vicino all’università e alla metropolitana. Aveva trovato facilmente un acquirente.
L’aveva comprato otto anni prima, con molti sacrifici, sperando di viverci per sempre, magari con una famiglia sua. Il fastidio provato dopo averci trovato Kuzan con quella donna, glielo aveva quasi fatto odiare.
Non aveva battuto ciglio al momento della firma del contratto, che suggellava il passaggio di proprietà. Per lei aveva smesso di essere casa, quando il suo fidanzato aveva deciso di farci i suoi porci comodi, sconsacrando quel luogo e rubandole il futuro che si era immaginata tra quelle mura.
Dall’altoparlante una voce gracchiante annunciò l’immediato imbarco del suo volo, ridestandola dai suoi tristi pensieri. Ingerì il primo tranquillante della giornata.
Composta, cercando di trovare il coraggio dentro di sé, Robin afferrò il trolley e si avviò all’uscita.
Venti minuti dopo, sedeva al suo posto sull’aereo, vicino al finestrino.
Seguì distrattamente lo sciabordare dei passeggeri che si accomodavano nelle loro postazioni.
L’hostess annunciò la partenza, invitando tutti ad allacciare le cinture.
Robin eseguì veloce, voltando poi il viso verso il finestrino, stringendo convulsamente i braccioli con le mani, facendo dei respiri profondi per calmare il cuore impazzito.
Quanto ci metteva il tranquillante a fare effetto??
Aveva già preso molti aerei in vita sua, soprattutto per lavoro, ma intimamente, odiava volare!
Le saliva la nausea, le orecchie si tappavano e poi fischiavano per tutto il tempo. La tachicardia prendeva il sopravvento, rendendola nervosa e incline agli attacchi di panico.
Un volo di 11 ore poi, non lo aveva mai fatto!
Stritolò i braccioli, desiderando che la poltrona la inglobasse.
Digrignò i denti. Era tutta colpa di Kuzan! Se non fosse stato per lui non avrebbe mai accettato quel lavoro dall’altra parte del mondo, risparmiandosi ore e ore di tortura.
Arrabbiata, più con sé stessa che con lui, chiuse gli occhi con forza, tremando, concentrandosi sulla respirazione.
Forza, Robin… inspira, espira, inspira, espira… coraggio, non è niente, passerà presto. L’ha detto anche Nami. Cosa vuoi che siano 11 ore di volo?
Ancora a palpebre serrate, avvertì una presenza sederlesi accanto, sul posto che aveva sperato rimanesse vuoto. La cosa non la toccò più di tanto.
Inspira, espira, inspira, espira…
L’aereo decollò.
Inspira, espira, inspira, espira… Sembrava funzionare… Bene…
Non era più sull’aereo ma nel suo mondo fatato. Pieno di alberi colorati, praticelli verdi, mamma, Nami e nonno Clover che la salutavano in lontananza… si… stava decisamente meglio…
…inspira, espira, inspira, espira…
…lei che cavalca Chopper, non più tenero pelouche ma renna grande e forte… l’arietta sul viso… Kuzan che le regala il cappello bianco da cowboy, prima di abbracciarla innamor…???
Boccheggiò, spalancando gli occhi. Ma cosa andava a pensare????
Scosse la testa, fissando un punto in fronte a sé con sguardo vitreo, il cuore a mille.
Aveva davvero bisogno di cambiare vita!
Un piccolo vuoto d’aria la fece sussultare, sudando freddo.
Inspira, espira, inspira, espira… forza, coraggio… Inspira, espira, insp- “Ehi, tutto bene?”
Robin sgranò gli occhi, spaesata, prima di individuare la fonte di quella voce che l’aveva interrotta nelle sue fantasie, in un ragazzino tutt’ossa, seduto alla sua destra. Guardò stranita quel personaggio sorridente, perdendo del tutto la concentrazione. Non riusciva a rispondere.
Il cuore batteva furioso contro la cassa toracica e la testa girava vorticosamente.
L’espressione terrorizzata che doveva avere, fece perdere il sorriso al ragazzo, che prese a fissarla.
Ma che diavolo aveva da guardare??? Mai vista una persona in procinto di avere un attacco di panico??
A quanto pare no, perché continuava ad osservarla, incuriosito.
Cercando di calmarsi, si voltò verso il finestrino in cerca d’aria, completamente scossa da brividi di freddo.
Cos’altro doveva capitarle di male nella vita??
Sapeva che sarebbe andata in iperventilazione se non fosse riuscita a calmarsi.
Sentiva gli occhi del ragazzo ancora addosso e la cosa non la aiutava.
Si voltò decisa, per dirgli di smetterla, ma, al posto del suo viso, trovò un piattino strapieno di invitanti dorayaki. Dietro di loro spuntò un sorriso tutto denti che le faceva cenno, incoraggiandola a prenderne uno.
Robin squadrava entrambi a bocca aperta, scioccata, dimenticando per un attimo l’agitazione.
Il ragazzino sembrò intuire il suo turbamento e posò il piatto di plastica sulle gambe. Addentò uno dei dolcetti con calma, sempre esaminandola.
Robin non riusciva a spiccicare parola. Stava capitando un po’ troppo spesso!
Cercava freneticamente una sorta di risposta monosillabica, che facesse capire a quel tipo, quanto avrebbe preferito proseguire il viaggio senza i suoi occhi addosso e, soprattutto, quel rumore assordante di mandibola in fase di masticazione, ma lui la precedette “Come ti chiami?” le chiese, candidamente, a bocca piena.
La mora sgranò gli occhi, muta.
Il mucchietto d’ossa ingoiò il boccone e parlò di nuovo “Io sono Rufy! Piacere di conoscerti!” le tendeva la mano, annuendo contento. Ancora nessuna risposta.
Non si diede per vinto. “Come mai stai andando a Los Angeles?” proseguiva il suo monologo, convinto.
Robin si riscosse a quell’ultima uscita. Riprese un po’ di autocontrollo.
“Mi chiamo Nico Robin…” mormorò pacata, rispondendo solo alla prima domanda.
Non gli strinse la mano. Faticava ancora a farsi toccare da un uomo, in qualsiasi circostanza e in qualunque maniera.
Certo, quello che aveva davanti non poteva definirlo esattamente un ‘uomo’...
Dato che il respiro che si stava regolarizzando, per chissà quale miracolo, si permise di squadrarlo più attentamente, senza farsi notare.
Sorriso da pubblicità, capelli corti e sbarazzini, neri come i suoi, occhi vispi e curiosi. Camicia bianca a maniche corte, bermuda cachi e comode sneakers.
L’età non riusciva a determinarla, ma sembrava in piena adolescenza.
Nel complesso un bel ragazzo, con un fisico asciutto e forte che a prima vista aveva, erroneamente, giudicato gracile, forse per quel suo aspetto fanciullesco. Ora che lo vedeva bene, riusciva a notare perfino i muscoli, sotto la camicia che indossava.
Probabilmente frequentava il liceo, come mai viaggiava solo? Si stupì ad inveire, mentalmente, contro quei genitori moderni che si rivelavano spesso più irresponsabili dei propri figli.
Da che aveva slacciato la cintura di sicurezza, sedeva scomposto sul sedile, come fosse a casa sua.
Dava l’impressione di essere un tipo molto irrequieto. Uno di quelli che non riesce a stare fermo neanche dal dentista, figuriamoci per 11 ore su un aereo! Ed era capitato proprio accanto a lei! Quando si dice la fortuna!
Avrebbe dovuto saperlo…
Legge di Murphy: quando pensi che le cose non possano andare peggio, lo faranno.
Inoltre, non aveva neanche mai smesso un attimo di mangiare! Ma cosa aveva al posto dello stomaco??
Lo fissò allibita, terminare di ingurgitare tutti i dolci in pochi secondi, prima di tornare a sorriderle raggiante.
“Ti sei persa dei dorayaki spettacolari!” asserì, guardandola negli occhi “Come li fa il mio amico Sanji, non li fa nessuno! Certo, lui è un cuoco bravissimo, ogni cosa che cucina è fantastica… ma come fa i dorayaki…” socchiuse gli occhi, assaporando ancora, con la mente, il ricordo dei dolci appena mangiati.
“Robin, (ti posso chiamare Robin, vero?) sei anche tu di Tokyo? Il suo ristorante è nel quartiere di Ikebukuro, si chiama All Blue, ci sei mai stata?” le chiese entusiasta, ma non attese risposta stavolta “Se non ci sei mai andata, te lo consiglio caldamente! Ci lavorano Sanji, il cuoco, Usop e Franky, rispettivamente come cameriere e barista. Poi c’è Brook, il musicista, e lui si esibisce la sera. Sono tutti miei grandi amici! Amo stare là! È un ambiente molto accogliente, un po’ come stare in famiglia! Io c’ho fatto radici!” rise, prima di diventare improvvisamente serio “O meglio… ci avevo fatto radici…” mormorò piano, guardando le sue scarpe.
Robin, seppur controvoglia, non potè non notare il repentino cambio di tonalità nella sua voce.
Si accigliò, suo malgrado, leggermente incuriosita.
“Mi sto trasferendo, in pianta stabile, in California! Più precisamente a Los Angeles… e non sono ancora riuscito a metabolizzarlo completamente! Insomma, non voglio già dare per scontato che mi troverò male! È un paese immenso e pieno di divertimenti! Sono certo che mi piacerà! Però… a Tokyo avevo tutti i miei amici, casa mia, i miei ricordi… tutta la mia vita, praticamente!” la guardò negli occhi, con un sorrisetto “Non è facile dover cambiare completamente abitudini. Specie se non l’hai deciso da solo…” commentò, debolmente.
La mora aveva iniziato a prestargli attenzione. Il discorso si faceva interessante e, anche se non lo avrebbe ammesso, si stava gradualmente abituando all’idea di averlo affianco per 11 ore mentre parlava a raffica.
In fin dei conti, che altro aveva da fare? E poi la sua voce aveva uno strano effetto su di lei. Per qualche strano e contorto motivo, ascoltare questo Rufy parlare dei suoi problemi, la rendeva più tranquilla e, soprattutto, riusciva a non farla pensare alla sua paura di volare.
Lui, intanto, continuava la sua conversazione a senso unico, mestamente. “Mi sono laureato il mese scorso e mio padre ha deciso bene che fosse ora di mandarmi in America, a lavorare con i miei fratelli.” Alzò gli occhi al cielo. “Gliel’ho detto che non serviva. Ace e Sabo se la cavano già bene da soli! Potevo seguire l’azienda di famiglia anche restando in Giappone!” Incrociò le braccia, imbronciato “È stato irremovibile. E mia madre gli ha pure dato ragione! Voglio dire… sono davvero felice di dare il mio contributo per una buona causa e non vedo l’ora di riabbracciare i miei fratelli, non li vedo dallo scorso Natale, ma è stato troppo improvviso! Speravo davvero che mi avrebbe concesso di tenere Tokyo come base...” sussurrò “Senza contare che ho dovuto dire addio alla mega festa che stavo organizzando per il mio 25esimo compleanno!” borbottò, addossandosi del tutto allo schienale, con uno sbuffo irritato.
Robin, che in tutto questo sproloquio non aveva mosso un muscolo, a quell’ultima uscita si girò di scatto a guardarlo, esterrefatta. “Qua-quanti anni hai, scusa??”
Lui si voltò “Venticinque il mese prossimo.” Rispose, innocentemente.
Le sopracciglia corrugate della donna, lo fecero ridere.
La hostess passò per sapere se desiderassero qualcosa dal carrello. Rufy si illuminò. Si sporse, allungandosi a dismisura, per riuscire a vedere quali leccornie prendere.
Robin, incredula, non smetteva di guardarlo, scandagliando il suo volto e il suo corpo. In effetti, aveva iniziato un po’ a stranirsi quando l’aveva sentito parlare di laurea e lavoro…
Sembrava davvero un ragazzino, invece avevano solo cinque anni di differenza. Pazzesco!
Rufy si voltò nuovamente verso di lei, mostrandole entusiasta le braccia piene di caramelle e dolcetti vari.
Robin aggrottò le sopracciglia. Sarà stato pure prossimo ai 25 anni, ma dentro era proprio un bambinone.
Però, doveva ammettere che aveva un viso molto dolce… di quelli che ti ispirano fiducia al primo sguardo.
Forse era per questo che non lo aveva ancora soppresso per la sua parlantina e per la continua confidenza che si prendeva, senza mai chiederle se fosse d’accordo.
“Che bello avevano anche i cioccolatini ripieni!” lo sentì esclamare, mentre sistemava tutto nel suo zaino, tranne un paio di barrette “Questi li mangio ora, il resto per dopo.” Asserì, guardandola. Immancabilmente, con un gran sorriso.
La mora si chiese se avesse mai lasciato trascorrere un’ora della sua esistenza, senza sorridere.
Fece una smorfia, distogliendo gli occhi da lui e guardando fuori dal finestrino. La notte stava prendendo il sopravvento mentre sorvolavano i villaggi della costa, e, presto, non avrebbe più visto nessuna lucina.
Stava lasciando per sempre il suo paese.
Era un pensiero che la feriva, nonostante la decisione fosse sua.
A Nami e a sua madre aveva detto che sarebbe tornata qualche volta, ma in cuor suo sperava di non essere mai costretta a farlo davvero.
Respirò profondamente, sempre decisa ad affrontare a testa alta la sua paura di volare, stupendosi nel constatare che il respiro fosse tornato regolare e il cuore batteva ad un ritmo normale. Forse sapeva chi doveva ringraziare per questo piccolo miracolo…
Si sentì colpire il braccio con una leggera pressione e si voltò.
Cavallerescamente, Rufy le allungava una delle sue barrette, invitandola ad afferrarla. Robin, questa volta, l’accettò di buon grado. Quel pozzo senza fondo le aveva stimolato l’appetito.
“Sono piene di caramello.” Le spiegò il ragazzo, ridacchiando in tono confidenziale “Sono fantastiche quando devi allontanare i brutti pensieri!”
La mora arrossì, non sapendo bene come rispondere.
Era abbastanza ovvio lui avesse notato l’aura nera che la circondava, fin dalla partenza. Del resto, non aveva fatto nulla per nasconderla. Ed era altresì chiaro a lei, che lui avesse cercato un modo per farla sentire meglio, dopo aver visto che soffriva terribilmente di mal d’aria.
Probabilmente, parlare a raffica non era stata un’idea eccelsa, ma l’aveva distratta quel tanto che bastava per potersi calmare e riacquisire padronanza di sé. Oltretutto, aveva anche avuto il tatto di non farle pesare la sua maleducazione, quando lo ignorava bellamente. Acquisì molti punti, ai suoi occhi.
“Sei una professoressa?” si sentì domandare poco dopo.
Robin lo guardò, serena. “Cosa te lo fa credere?” Arrivati a quel punto, poteva anche permettersi di dargli spago.
Lui alzò le spalle. “Il tuo abbigliamento, credo.”
Lei lanciò una breve occhiata al suo vestiario, una camicia rosa, con gonna nera a tubino e ballerine di vernice. Fece il primo vero sorriso, da quando era salita sull’aereo. “No, ma capisco la tua domanda.”
“E allora che cosa fai per riempire le tue giornate, ogni giorno?”
Robin rise. Era un bel modo per chiederle che lavoro facesse. “Sono un’archeologa.”
“Ma dai?? Che figata!! Stai andando a Los Angeles per questo?” si entusiasmò Rufy, saltando sulla poltrona.
Decise che poteva anche raccontargli un po’ i fatti suoi, per sdebitarsi. “Si, mi hanno offerto un ottimo posto.”
“Bello!” commentò ammirato Rufy “Hai mai fatto qualche scoperta importante?” le domandò poi, con una luce di puro interesse negli occhi.
Robin sorrise e passò i successivi venti minuti spiegandogli, nel dettaglio, in cosa consistessero le sue ricerche e a quanto poco mancasse per riportare alla luce i segreti di quell’antica civiltà, che tutti credevano scomparsa per sempre.
Come ogni volta, quando parlava della sua passione più grande, si lasciava trasportare, non accorgendosi del tempo che passava. Convinta di trovarlo se non addormentato, per lo meno annoiato dal suo monologo, prese ad osservarlo di sottecchi. Rimase piacevolmente sorpresa nel notare in Rufy un coinvolgimento sincero che non scemava, anzi, aumentava man mano il racconto proseguiva.
Ancora una volta doveva ammettere di aver preso un granchio, con lui. Mai giudicare le persone dalla prima impressione. Quello che aveva accanto non era affatto un bambinone. È vero, si entusiasmava per cose banali come un pacchetto di caramelle e metteva il broncio come un moccioso, ma, aveva anche un’intelligenza vivace e una fonte inesauribile di curiosità.
Lo stomaco le si contorse in una maniera per nulla spiacevole, osservando i suoi occhi illuminarsi affascinati, da ogni sua parola. Ora notava appieno cosa nascondeva la facciata da ragazzino.
Dopo una buona mezz’ora avevano raggiunto un grado tale di confidenza, che le permise di chiedergli nozioni circa l’impiego futuro che l’attendeva in California.
“Mio padre è a capo, da decenni, di una grossa organizzazione no-profit, che si occupa di combattere la povertà e favorire la scolarizzazione nei paesi in via di sviluppo. La sede principale è proprio a Los Angeles. Io dovrei entrare a far parte dell’organico che si occupa dei rapporti con l’Asia.” Rise “Lui è ben intenzionato a farmi fare la gavetta. Dal semplice impiegato vorrebbe arrivassi, da solo, ai piani alti, così come è successo ai miei fratelli. Ora, loro sono entrambi a capo delle proprie commissioni, per merito del lavoro svolto, non per raccomandazione. Sabo nei rapporti con l’Africa, Ace in quelli con l’America Latina.”
Robin ascoltava rapita. Era rimasta basita nello scoprire che genere di lavoro si apprestava a fare quel ragazzo, in California.
“E tu credi che riuscirai a raggiungere il livello dei tuoi fratelli, con le tue sole forze?” gli chiese.
“Raggiungerli?? Io intendo superarli alla grande! Dammi dieci anni al massimo ed a capo dell’organizzazione il vecchio dovrà mettere me!” rise di gusto “Sono cresciuto con gli ideali di giustizia di mio padre e mio nonno. Nella mia famiglia siamo tutti coinvolti da anni nel sociale. L’analfabetizzazione e la povertà in Asia non esisteranno più dopo che c’avrò messo le mani io! È la mia massima aspirazione da quando sono piccolo e ce la farò, contaci!”
Ed in cuor suo, Robin, non potè che essere d’accordo. Intimamente, sentiva distintamente che quel ragazzo incontrato per caso, su quell’aereo anonimo, avrebbe potuto fare qualunque cosa, perfino combattere una piaga sociale come la fame in Asia.
Non aveva mai incontrato un ragazzo come lui.
Passarono la successiva ora a parlare dei rispettivi parenti.
Lui le parlò del carattere dolcissimo della mamma e di quello burbero ma bonario del padre, ereditato da nonno Garp. Elencò nel dettaglio anche le malefatte compiute coi fratelli, da piccoli, e il desiderio, comune in tutti e tre, di salvare il mondo. Da come ne parlava, si sentiva che adorava la propria famiglia.
Lei gli descrisse la sua infanzia circondata dai libri e dai pelouche che gli regalavano sua madre o nonno Clover. Riuscì, con un groppo in gola, ad ammettere quanto le pesasse non aver mai conosciuto suo padre, morto in un incidente quando aveva due anni. Era una cosa che non aveva mai detto neanche a Nami.
Pazzesco come riusciva ad aprirsi con questo sconosciuto.
Passarono poi ad argomenti più piacevoli, come la passione di Robin per le renne e quella di Rufy per la carne e i dolci, chiacchierando di qualsiasi cosa venisse loro in mente, per le successive ore.
Parlare con lui era facile. Aveva migliaia di argomenti per i quali provava curiosità.
Era incredibile quante poche cose avessero in comune e quanto tutto questo la entusiasmasse.
Con il passare delle ore scopriva sempre più cose sul suo conto che la affascinavano, come non le capitava da tempo. Non avere cose in comune lo rendeva una meravigliosa novità, ai suoi occhi. Come una pietra rara dalle mille sfaccettature, che non vedeva l’ora di scoprire, passo dopo passo.
“L’amica più cara che ho al mondo si chiama Nami. Vive a Tokyo col fidanzato. È una meteorologa.” Inevitabilmente, erano capitati all’argomento ‘amicizie’.
“Wow! Controlla il tempo???” le chiese con gli occhi che schizzavano dalle orbite.
Robin rise un sacco. Che scemotto. “Purtroppo, lo prevede soltanto! Però, ammetto che quando si arrabbia sembra capace di scatenare tempeste! Zoro, il suo ragazzo, è il suo parafulmine preferito!”
“Aspetta, aspetta!” si illuminò lui, sgranando gli occhi. “Hai detto Zoro?? Che sta con una ragazza che si chiama Nami??” Robin annuì. “Lui capelli verdi e lei arancioni?” la ragazza confermò di nuovo.
“Ma allora lo conosco!!” esclamò felicissimo, saltellando sulla poltroncina.
L’archeologa aggrottò le sopracciglia, sorpresa. “Conosci Zoro?”
L’altro annuì. “Fa Roronoa di cognome?” lei disse di si. “E se è pure un maniaco delle spade, allora non ci sono più dubbi!”
“Come lo conosci?” gli chiese, curiosa.
“Ricordi il mio amico Sanji del ristorante? È suo cugino! Ci troviamo tutti là a mangiare, da anni.”
Il mondo era proprio piccolo, alle volte.
Durante tutto il volo non chiusero occhio, troppo impegnati a scoprire di più l’uno sulla vita dell’altro.
Robin non riusciva a smettere di parlare.
Dopo un inizio incerto, durante il quale lo avrebbe volentieri buttato fuori dal portellone, senza paracadute, si scopriva sempre più attratta da lui, come fosse stata una calamita ad un pezzo di ferro.
Per qualche motivo oscuro, voleva sapere tutto di lui e voleva, altresì, che lui sapesse tutto di lei.
Era facile pensare che il viaggio non dovesse mai avere fine, che la loro vita fosse sospesa a 10.000 metri di quota. Per la prima volta sperò di non toccare più terra.
Non riusciva a capacitarsene ma, allo stesso modo, era felice di venire totalmente assorbita dalle sensazioni che questo ragazzo le suscitava. Parlare con lui era come tornare a respirare.
La faceva stare bene. E Dio solo sa, quanto avesse bisogno di estraniarsi dalla realtà, per un po’.
La cena la trascorsero piacevolmente. Rufy chiese anche due bicchieri di vino.
“Per festeggiare un incontro scritto nel destino!” mormorò tenero, senza alcuna malizia. O per lo meno, lei non l’avvertì e, per un secondo, le dispiacque.
Scosse la testa prima di assaggiare il vino, dandosi della sciocca per aver permesso alla sua mente di formulare un pensiero tanto stupido. Si erano appena conosciuti! E poi, quando mai un ragazzo così dolce, in gamba e più giovane, avrebbe potuto interessarsi a lei, sotto quel frangente?
Si voltò a guardarlo e lui le sorrise immediatamente, contorcendole lo stomaco e facendola arrossire. Distolse lo sguardo in fretta, prima che Rufy potesse leggerle negli occhi il suo sconvolgimento.
Vedeva cose che non c’erano. Era solo un sorriso, andiamo! Te ne ha fatti per tutto il giorno!
Doveva essere la recente fine della sua relazione a renderla poco lucida e affamata d’amore. E forse c’entrava anche il vino… non aveva mai retto bene l’alcool…
Si era lasciata attrarre troppo da quel suo fare adorabilmente fanciullesco. Probabilmente perché, caratterialmente e fisicamente, era l’opposto dell’uomo che le aveva frantumato il cuore.
Erano agli antipodi e questo lo rendeva il ragazzo migliore del mondo, ai suoi occhi.
Sospirò pacata. Le stava venendo una cotta colossale per un ragazzo appena incontrato, molto più giovane, troppo esuberante e, soprattutto, destinato a rimanere una bellissima parentesi, con la quale aveva passato alcune delle ore più piacevoli della sua vita.
Lo guardò assaggiare le patate del suo piatto, dubbioso, facendo poi una smorfia, ma mandando giù il boccone, anche se cattivo, e finendole tutte. Sorrise, intenerita. Il suo essere senza fondo lo obbligava a finire quello che c’era nel piatto, ma, da quello che le aveva raccontato, viaggiando tra le zone più povere dell’Asia, era diventata anche una forma di rispetto verso chi non aveva da mangiare.
Si, innegabilmente, lo ammirava.
Nelle ore passate insieme aveva afferrato come lui fosse del tutto diverso da chiunque altro avesse mai conosciuto e, incredibilmente, sentiva di potersi fidare senza condizioni. Era in grado di farla sentire al sicuro e protetta, come Kuzan non era stato in grado di fare mai.
Quasi certamente però, per lui doveva essere solo una donna tra tante. Una da far parlare e distrarre, onde evitarle un attacco di panico.
Avevano solo parlato del più e del meno. Per quasi tutto il viaggio, però, e aveva raccontato a lui cose personali che non aveva mai rivelato neanche a Nami.
Si era aperta con questo ragazzo, come non lo credeva possibile. Le sembrava di conoscerlo da sempre.
“Posso farti una domanda un po’ indiscreta?” Rufy la riscosse bruscamente dai suoi pensieri. Aveva avvertito il suo tono esitante. Asserì con un cenno, curiosa.
“Ecco, poco fa mi sono reso conto che, finora, abbiamo parlato di qualunque cosa, tranne una…” si fermò, mordendosi le labbra. Robin lo incitò a continuare, sempre più incuriosita.
“Beh… non mi hai ancora detto se sei fidanzata o no…” mormorò, giocherellando distrattamente, con un lembo del tovagliolo.
La mora trattenne impercettibilmente il fiato. Aveva ragione… L’amore era l’unica cosa della quale non avevano mai parlato. Ma lei ne aveva fatto volentieri a meno fino a quel momento, sollevata.
“Non voglio farmi i fatti tuoi! Insomma… più di così!” ridacchiò “Ma, beh… ho pensato che una donna come te doveva averlo per forza un ragazzo da qualche parte… magari che l’aspettava proprio a Los Angeles! E, beh, se vuoi dirmelo, ovviamente… mi andava saperlo…” sussurrò le ultime parole così piano che Robin faticò a capirle.
“Io…” iniziò, tentennante.
Che ci voleva? Bastava dire no. Un no secco e deciso. E lei voleva rispondere, accidenti se voleva dirglielo!
Ma era pronta?
“Tu…?” chiese lui, esortandola, mentre la scrutava serio.
Annegando nei suoi occhi, Robin si fece coraggio. “…No… No, non ho un fidanzato.”
E mentre Rufy ghignava soddisfatto, la verità che racchiudeva quella frase la colse in pieno, prima di avvertire un senso di pace farsi strada, dentro di lei. L’aveva finalmente ammesso a voce alta.
Era il suo personale traguardo. Ora avrebbe potuto voltare pagina, davvero.
Sospirò, prima di sorridere dolcemente al ragazzo che aveva di fianco.
Tre mesi fa, tutto quello che contava per lei aveva fatto puf, nell’arco di qualche ora. Ma adesso, nello stesso lasso di tempo, aveva rimesso insieme i pezzi, per merito di un ragazzino esuberante.
Grazie, Rufy...
Guardandolo rilassarsi contro lo schienale della poltrona, tenendo sempre gli occhi ancorati ai suoi, le venne spontaneo farsi una domanda: Perché lo voleva sapere?
La sua mente ora riusciva a pensare solo a questo e glielo domandò.
“Ecco…” cominciò lui, un po’ esitante ma con un grande sorriso “Mi stavo chiedendo se una volta atterrati, siccome andremo a vivere nella stessa città… se ti andava vedersi ogni tanto. Sai, il paese è grande, si fa fatica a fare nuove amicizie. Potremmo farci compagnia a vicenda!”
Robin sollevò un sopracciglio. Non credeva affatto che uno come lui avrebbe faticato a fare nuove amicizie, ma, se era davvero brava a leggere tra le righe, quella che Rufy le stava offrendo non era solo la sua amicizia… La stava guardando con un’espressione così tenera e assorta.
Improvvisamente, il pensiero che lui potesse essere attratto da lei, la sfiorò.
Era impossibile… eppure, scorgeva nel suo sguardo le stesse sensazioni che avvertiva nel proprio cuore.
Felicità, orgoglio, incredulità mista ad eccitazione, calore familiare e la certezza matematica di aver incontrato il proprio destino, a bordo di quell’aereo.
“Perché no?” mormorò, sorridendo apertamente. Non avevano ancora lasciato cadere lo sguardo.
Lui ghignò, euforico, sfiorandole una mano con la sua, mentre il comandante annunciava di lì a poco, l’atterraggio in California. Lei non si ritrasse.
Rufy avrebbe cambiato le carte in tavola, stravolgendole la vita. Non si era mai sentita più sicura.
 
Ci proviamo a vivere davvero, Robin?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Ciao!! Sono tornata ancora con un altro esperimento… adoro Nico Robin! Non vedo l’ora di rivederla in azione! Nelle fic è un personaggio che si presta a mille usi! Un po’ come Sanji…
Vorrei tanto sapere cosa ne pensate, i commenti sono molto graditi (di tutti i tipi) ma, vi prego, siate buoni! È la mia prima AU!!
Spero tanto possa esservi piaciuta!!
Grazie a chiunque passerà di qua!! :-D
Momo
   
 
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