Buio.
Vuoto,
infinito buio.
Un
buco nero senza fondo in cui regnava il nulla assoluto.
Era
questo che accadeva dopo la morte?
L’Oscuro
non aveva mai neanche lontanamente pensato a cosa significasse essere
morti.
Forse perché, grazie a tutti i mali di cui la sua pelle era
imbevuta, da secoli
gli appariva come una cosa del tutto scontata. La gente nasceva, la
gente
viveva, la gente moriva; la gente violava e dava inizio a guerre
colmate di
pura violenza per interessi del tutto effimeri; e per essi la gente
lottava. La
gente si combatteva, la gente uccideva. La gente moriva ogni giorno.
Che
c’era di strano nel morire?
Semplicemente,
a lui non era mai capitato.
Era
il più vicino alla morte fra tutti loro, per questo da
sempre gli era sembrato
facile ingannarla. Neanche lui però aveva mai visto,
tantomeno compreso, la sua
vera natura.
All’improvviso
non sentiva più una sola traccia di attaccamento alla vita,
non provava più alcuna
disperazione; in realtà… non provava proprio
niente. Non c’era più alcuna
emozione, derivante da una primordiale natura umana ormai dimenticata,
a
dimenarsi nelle sue carni. Non aveva più niente da provare.
L’unica cosa
presente era il silenzio.
Non
era in grado di descrivere quella situazione... probabilmente non era
più neanche
in grado di pensare. Riposante, forse. Così l'avrebbe descritta. Un eterno presente nero nel
nulla più
totale.
Forse…
poteva paragonarla a una dolce, eterna animazione sospesa.
Animazione…
sospesa?
All’improvviso
si rese conto di essere ancora in grado di pensare. Non era possibile.
Non
all’altro mondo. I morti perdono tutto; i morti non
possiedono più le capacità
di ragionamento che hanno sfruttato in vita.
Tu
sei morto…
I
morti non pensavano. I morti non erano niente, niente al di fuori di
una
carcassa abbandonata sulla Terra come cibo per permettere ad altre vite
di
proseguire. E lui era morto.
Tu
sei morto… non sei… morto…?
I
suoi stessi pensieri erano una prova contraria inequivocabile. No, non
poteva
essere morto. Non poteva che essere ancora in vita. In qualche modo,
gli esseri
umani probabilmente lo avrebbero definito
‘miracolo’, era sopravvissuto. Non
sapeva che cosa provare, non aveva mai saputo provare quella che loro
chiamavano ‘gioia’, o
‘serenità’. Solo una grande sorpresa.
Vivo.
Sei ancora vivo.
I
vivi potevano provare sensazioni fisiche. Lentamente, come per
confermarlo, il
suo corpo iniziò a percepire un piacevole fresco che lo
richiamava alla vita.
Che cos’era?
Ricorda…
cosa ricordi?
La
tortura del proiettile che lo devastava dall’interno era
completamente sparita.
Percepiva del dolore, comunque; ma era uno di quei dolori buoni, che
seguono al
togliersi una spina acuminata dal fianco o al passare di una qualche
sostanza
benefica su una ferita aperta. Una di quelle sofferenze che si
sopportano
serenamente per un tempo limitato, un prezzo che ogni creatura vivente
è felice
di pagare in cambio del preservamento della propria vita, altrettanto
limitata.
Un limite che veniva compensato solo da un senso che rendesse preziosa
quella
stessa vita.
Peccato
che non abbia un senso, la tua vita.
Dunque,
perché poteva ancora pensare? Perché era ancora
in grado di respirare?
Ricordare… ricordare tutto…
Cosa
era successo?
Mi
spararono.
Sì,
ricordava bene quella caccia frenetica e quell’inseguimento
pazzo, fra le
rocce. Così come ricordava benissimo quel dolore lacerante
nel petto,
quell’agonia di vagabondaggio fra gli alberi e le piante, e
il suo
combattimento disperato e delirante contro i membri della sua specie
del tutto
sua nemica.
Poi…
Per
un momento era stato davvero sul punto di perdere la sfida: logorato
dal
parassita sparato da quell’arma infernale, aveva rischiato di
lasciar vincere
su di lui gli umani, a cui aveva giurato di non consegnare mai la sua
testa.
Per un attimo era stato davvero sull’orlo
dell’abisso della morte… che ora si
allontanava lentamente da lui, cacciata da un qualcosa che, nonostante
le
apparenze fisiche, non aveva niente a che fare con i carnefici che,
ancora una
volta, non erano riusciti a ucciderlo.
Inesatto.
Qualcuno che non aveva nulla a che
fare con i carnefici che ancora una volta non erano riusciti a
ucciderlo.
Gli
tornò alla mente l’immagine di una chioma
biondissima, un visino delicato e due
grandi occhi cristallini che non avrebbero potuto essere più
puri. E la
sensazione di un tocco pieno di vita capace di respingere la sofferenza
più
atroce. Ricordò quel profumo dolce e
quell’odore di bosco.
Una
ragazza… governava sulla foresta…
Quella
era una nobile…
Fu
a quel ricordo che si riscosse del tutto.
Principessa!
Fu
come una scossa di migliaia di volt.
Di
colpo il buio fu squarciato con violenza da una luce brutale, che
occupò tutto
il suo campo visivo.
D’improvviso
tornò a percepire interamente il proprio corpo, dai nervi
sottocutanei alle
articolazioni e ai muscoli sfiancati. La vista, un tempo appannata e
malata, lo
raggiunse subito dopo, perfettamente chiara.
La
prima cosa di cui si accorse fu la sorgente della luce. Una luce
disturbante e
fredda, certo non naturale: era una sorgente artificiale che si trovava
proprio
sopra di lui, illuminando un ambiente di colore chiaro. Questo poteva
voler
dire soltanto una cosa.
Umani.
Decisamente
assurdo: non avrebbe mai potuto essere vivo in un luogo in cui vivevano
esseri
umani. Eppure lo era. Ma un solo pensiero aveva preso possesso
completamente
della sua testa.
Dov’è?
Lei, dov’è?
Fece
scattare la testa di lato con frenesia, guardandosi attorno con foga e
smarrimento: non vedeva nemmeno un essere umano. Ancora più
paradossale: si
trovava in una struttura di loro proprietà, eppure non
vedeva nessuno. Ma la
cosa passò subito in secondo piano, e in lui si fece largo
una classica
rassegnazione.
Hai
solo sognato.
Sì,
molto probabilmente era stato un sogno, illusorio e ingannevole: non
esistevano
umani capaci di guardarlo in quella maniera, tantomeno di toccarlo,
come aveva
fatto la principessa. Si irritò al pensiero di essere ancora
così simile agli
esseri umani, tanto da arrivare a illudersi come loro: era stato solo
il sogno
febbrile di un delirio, che andava al di là del suo
controllo, nient’altro.
Basta.
Questo posto è pericoloso, cerca l’uscita.
Non
aveva tempo per continuare a fare mente locale: il tempo era poco, e la
sua
sopravvivenza tutt’altro che garantita, man mano che
passavano i secondi: fece
per alzarsi in fretta e furia alla ricerca di una via di fuga, quando
un paio
di dita sottili gli avvolsero la spalla fresche, facendolo rabbrividire.
Mi
hanno preso!
I
nervi, pieni di vita, si tesero come corde, le ali si spalancarono
minacciose, le
unghie scattarono fuori pronte a uccidere e lui si volse a fissare
ringhiante
la sorgente di quel contatto con gli occhi inferociti.
Non
azzardarti a toccarmi, feccia!
Fece
appena in tempo a voltarsi che i nervi si afflosciarono, le ali si
ripiegarono
sul corpo, il ringhio si spense in un attimo. Stava fissando due grandi
occhi
chiari che gli restituivano lo sguardo carichi di preoccupazione. Non
gli ci
volle neanche un secondo per riconoscerli.
“Va
tutto bene… siamo solo io e te.”
La
ragazzina da capelli biondi, l’umana che l’aveva
avvicinato. Era la principessa.
Non si era affatto illuso: la sua figura, i suoi occhi, il suo
profumo… era
reale; lei esisteva davvero.
E
gli aveva salvato la vita.
“Come
ti senti?”
È
stata lei…?
Dopo
quel delirio era diventato così debole da perdere
completamente la capacità di
muoversi. Quindi era stata lei, da sola, a trascinarlo fino a
lì?
Tu
non sei umana.
La
piccola umana piegò la testa di lato per guardarlo da tutti
i lati, mettendogli
addosso un tentante impulso di allontanarsi sul momento: odiava essere
guardato. Ogni nervo fremeva d’irritazione e fastidio quando
lo guardavano. Gli
umani, poi… lo fissavano sempre con uno sguardo vorace, che
nascondeva una
follia radicata senza pari.
…
a parte lei.
Non
puoi essere umana.
Per
combattere quella tentazione conficcò con violenza le unghie
nella
morbida superficie che lo sosteneva: solo allora si rese conto di
trovarsi su
uno di quei materassi che solo una volta aveva visto usare dagli umani
per
curare un suo simile. Accanto a lui, di sfuggita, intravide una serie
di strumenti
metallici di ogni forma e dimensione, alcuni dei quali sporchi di
sangue.
Quindi…
Questa
è una delle loro famose cliniche… per quelli come
noi.
Gli
occhi sgranati della giovane umana davanti alla sua reazione lo
riportarono
rapidamente al presente: “Ma… ti fa ancora
così male?”
Subito
l’Oscuro, più per istinto che altro,
andò a cercarsi sul torace il buco che la
pallottola gli aveva scavato in petto, mancando per chissà
quale volere gli
organi vitali: al suo posto trovò una lunga benda bianca avvolta
stretta tutta
intorno al corpo, sotto la quale solo vagamente riusciva a sentire i
bordi
della piaga semi-aperta.
Perché?
“No,
non toccarla,” Lo raggiunse la voce amorevole della
principessa, mentre le sue
piccole mani tentavano di allontanargli delicatamente il braccio dalla
ferita:
“Non guarirà se si riapre.”
Perché?
Di
sfuggita l’Oscuro vide, nascosto a tremare in un angolo della
stanza della
clinica, un Pokemon di media grandezza dai piccoli occhi pieni di
terrore,
caratterizzato da una grande pancia rotonda e una sacca ovale sul
ventre, di
colore rosa. Non ne aveva mai visto uno da vicino, era fra gli ultimi
dei suoi
simili a osare avvicinarsi a lui, ma ne conosceva bene la rara specie:
erano i
più benvoluti fra i branchi dei selvatici.
Un
Chansey.
Allora
sto ancora sognando.
Sogno
o non sogno, evidentemente la principessa non aveva fatto proprio tutto
da
sola: una cosa del tutto naturale, una bimba umana non era in grado di
estrarre
da sola un proiettile come quello che per poco non lo aveva trascinato
nell’oltretomba. La domanda però non era
come… ma perché
aveva scelto di salvargli la vita.
Perché?
“Se
ti fa male posso ancora fare qualcosa, ma in fretta, ti
prego…”
Voglio
una risposta.
Prima
di riuscire a decidere se osare comunicare una seconda volta con lei,
al suo udito
finissimo arrivarono suoni allarmanti a cui i nervi si rizzarono
immediatamente: passi regolari, tranquilli e inarrestabili che si
alternavano
l’uno all’altro; creature bipedi, poco ma sicuro.
Mi
hanno trovato.
La
principessa percepì i
passi subito dopo di lui: allarmata, corse a spalancare
l’unica, grande
finestra che si trovava nella stanza, tornando poi a fissarlo con uno
sguardo
ansioso: “Non c’è più tempo:
se non ti esporrai dovrebbe guarire in un mese
circa. Io ho fatto quello che potevo. Ora vai!”
I
passi aumentavano di frequenza, il tempo che aveva a disposizione
sempre più
breve. Questione di secondi, poi lo avrebbero preso, e definitivamente.
Le sue
condizioni non gli permettevano nemmeno di difendersi:
l’unica scelta possibile
era la fuga. Rimanere un minuto di più avrebbe significato
vanificare del tutto
il lavoro della principessa. Eppure, per la prima volta in vita sua,
l’Oscuro
si trovò diviso in due.
Fuggi.
Adesso.
E
la principessa? L’avrebbe rivista ancora?
Lei
è umana. Non la toccheranno.
Lo
era solo in parte, o comunque non del tutto. E lo aveva toccato, gli
aveva
salvato la vita. E se avessero preso lei al posto suo? Ne erano
perfettamente
capaci: se avessero scoperto l’accaduto avrebbero scaricato
su di lei tutte le
conseguenze della sua sopravvivenza. Nel peggiore dei casi…
Il
proiettile ti ha forse intaccato anche il cervello?
Che
idiota, non era una scelta da porsi: se l’avessero scoperta
insieme a lui
avrebbero avuto un motivo in più per prendersela con lei.
Certo che doveva
fuggire.
“Corri,”
Lo implorò la principessa con gli occhi ricolmi di panico:
“Presto, raggiungi i
giardini, lì sarai protetto. Vai, vattene da qui!”
Il
leggendario Oscuro le rivolse un’occhiata fugace e intensa,
imprimendo nella
sua mente quegli occhi di bambina; poi sfrecciò fuori dalla
finestra in
silenzio come un fantasma fulmineo.
Solo
dopo che anche l’ultima piuma delle sue ali nerissime
fu scomparsa dalla sua vista Alicia osò tirare un sospiro di
sollievo e permise
alla gioia di invaderla dalla testa ai piedi: aveva vinto. Ce
l’avevano fatta:
era riuscita a impedire che la Terra si macchiasse del sangue di un
Pokemon
leggendario, un suo protettore; il Chansey aveva costituito un aiuto
fondamentale,
era stato solo grazie a lui se erano riusciti a estrargli dal corpo
quella
pallottola infernale: l’addestramento dei pasciuti medici
Pokemon, sebbene
recente, era proprio una preparazione di prima qualità. E
Darkrai era
sopravvissuto: era vivo, e stava bene. Era una vittoria piena per tutti.
Alicia però capì di non avere tempo per prendere
fiato, né
di risistemare l’attrezzatura che era stata costretta a usare
dove l’avevano
presa: il Centro si stava rapidamente ripopolando, anche lei avrebbe
dovuto
seguire l’esempio del Pokemon leggendario e fuggire
immediatamente se voleva
evitare di farsi cogliere in flagrante direttamente sul posto. Alle
conseguenze
avrebbe pensato una volta a casa: avrebbe raccontato la storia ai
Pokemon che
le erano affezionati, avrebbe sparso la voce nei giardini di
salvaguardare,
almeno temporaneamente, l’esistenza dell’indebolito
leggendario: quel Chansey
alla fine aveva scelto di aiutarla, era certa che loro non sarebbero
stati da
meno. E Godey era diverso dalle altre persone, Godey era il suo
anziano,
simpatico e comprensivo tutore: di lui ci si poteva fidare, lui
l’avrebbe
capita. Con il suo aiuto tutto sarebbe filato liscio.
Afferrò di corsa il meccanismo sferico che aveva racchiuso
quel Chansey che l’aveva notevolmente sostenuta fino a poche
ore prima,
preparandosi a ritirarlo e a riportarlo da dove veniva.
“Senza di te non ce l’avrei mai fatta, grazie per
il tuo
coraggio; ma acqua in bocca su quanto è successo, nessuno
deve sapere niente.”
Il Chansey ancora tremante ebbe appena il tempo di rivolgerle un timido
saluto
che la ragazzina riaprì e attivò il meccanismo
della sfera metallica: il tondo
infermiere rosato venne risucchiato in qualche secondo
all’interno del
contenitore e serrato dentro in fretta e furia. Alicia
riuscì a tornare nel
magazzino da cui l’aveva preso e a riportarlo dagli altri
suoi simili senza
essere vista quasi per miracolo, e quando finalmente riuscì
a tornare indietro
e a lasciarsi alle spalle l’edificio medico si tolse dal
cuore un peso così
opprimente che le sembrò di essere diventata leggera come un
soffione.
Finito. È tutto
finito.
Hai vinto. Hai vinto
tu.
E ora... le conseguenze. Pochi minuti e nella clinica
avrebbero trovato tracce evidenti della sua operazione, e ne sarebbe
scaturito
un bel caos. L’idea di fare un salto ai giardini per
informare dell’accaduto i
suoi amici non umani fu scartata, non ne aveva il tempo: doveva parlare
con
Godey, immediatamente. Lungo la strada di ritorno incappò
numerose volte in
persone esterrefatte e sospettose nel vederla correre come un gatto
impazzito
senza alcuna ragione apparente: più di una volta fu
costretta a cambiare
bruscamente direzione per seminare qualcuno che tentava di chiederle
spiegazioni. Non si fidava di quella gente, potevano avere in mente
qualsiasi
cosa: e anche se fossero stati in buona fede, non le avrebbero mai dato
retta.
Ma non era un grosso problema, non era la prima volta che si ritrovava
a doversela
cavare da sola: pochi giorni e l’avrebbero dimenticata del
tutto. Così continuò a correre senza sosta e senza curarsi degli sguardi che la analizzavano incuriositi, con l'unico pensiero di tornare a casa, trovare l'architetto che da un paio di anni l'aveva presa sotto la sua tutela e chiedere aiuto.
La vista di casa non le aveva mai procurato tanto sollievo
in vita sua: a essa aveva affidato praticamente ogni sua speranza. Se
Godey non
l’avesse aiutata non aveva idea di ciò che lei
avrebbe dovuto pagare in futuro.
In fondo, agli occhi degli uomini, aveva appena commesso una follia
oscura, se
non un peccato capitale.
Ma Godey non era come loro: se non l’avesse capita lui
allora lei avrebbe avuto la prova che il mondo era completamente
impazzito.
Alicia bussò violentemente alla porta per pura educazione e
subito
si fiondò all’interno in preda ad un fiatone che
non aveva mai avuto: “Zio
Godey! Zio Godey! Dove sei, zio Godey?”
Non aveva mai ricevuto quel silenzio tutte le volte che
aveva chiamato il suo nome, neanche una, nemmeno quando aveva
sviluppato il
piccolo vizio di chiamarlo con quell’appellativo familiare:
qualcosa non
andava. Ed era male, molto male. Cominciò a sudare freddo
ancor prima di
rendersene conto: corse a cercarlo fra le stanze in preda a un pessimo
presentimento: “Zio Godey! Zio Godey, ti
devo…”
Fu quando arrivò alla porta della cucina che si
bloccò come
un pezzo di marmo.
Godey era seduto al tavolo, completamente immobile, in una posizione
che lei non aveva mai pensato di potergli attribuire: le rughe che gli solcavano il volto erano molto più accentuate del solito, e lo sguardo che
aveva assunto
dietro i suoi piccoli occhiali era carico di preoccupazione, stupore,
ira e
quella che Alicia aveva imparato ad identificare come delusione.
Quell’espressione
era di una serietà così grave che avrebbe potuto
schiacciarla anche solo
guardandolo. Le sembrò che il tempo si fosse fermato quando
intravide una delle
bende che l’infermiera Joy aveva portato con sé,
quando l’aveva seguita nei
giardini, dimenticata su una delle sedie nella cucina.
Quella donna non era andata a compiere un qualche intervento
fuori dalla clinica. Era andata ad informare il suo tutore di
ciò che aveva
fatto nei giardini di Alamos.
“Entra.” Fu l’ordine secco
dell’anziano architetto.
Continua...
Nota dell'autrice: che posso dire, non è stato facile: per mia fortuna non ho mai dovuto assistere dal vivo a un'operazione chirurgica, il che mi ha reso difficile un lavoro di descrizione di una clinica che io stessa ho visto raramente nel lungometraggio originale o nell'anime di Sinnoh. Per cui, se l'ambientazione o altro sono poco chiari, fatemelo sapere, sarò lieta di migliorare la struttura del capitolo. Stanno diventando sempre più brevi, è vero, ma ho in mente di separarli in punti ben precisi, tutto calcolato.
Ora, anche se non c'entra un accidente con la storia, c'è una cosa importante che devo far sapere ai lettori interessati: riguarda 'Annales Lucis et Tenebrae'. Tra non molto i capitoli verranno personalmente cancellati dalla sottoscritta: il motivo? Nonostante la mia buona volontà, la storia in questione è partita incredibilmente male: non in senso grammaticale, ma soprattutto per quanto riguarda i personaggi; c'è qualcosa di sbagliato alla radice che ha fatto marcire tutto. Avevo già alcuni sospetti, ma ho dovuto avere una conferma da alcuni 'critici' esterni alla rete per esserne davvero certa, poiché qui le voci del pubblico di EFP evidentemente ancora non arrivano (vi assicuro che le critiche sono molto più preziose di un complimento). Con l'arrivo del prossimo capitolo del 'preludio all'Ascesa', 'Annales Lucis et Tenebrae' leverà le tende dalla sezione fanfiction Pokemon: ho deciso che ricomincerò da capo la storia originale che avevo ideato, puramente di mia creazione, senza Pokemon, in una sezione fantasy a parte. Mi spiace per coloro che avevano cominciato a leggerla, ma, parola di autrice, prometto che ne verrà fuori sicuramente un lavoro migliore.
La Latias oscura per ora si ritira e vi saluta, aspettando pazientemente nell'ombra le vostre opinioni ;-)