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Autore: stormy    07/04/2005    11 recensioni
How do you pick up the threads of an old life? How do you go on, when in your heart you begin to understand there is no going back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go too deep, that have taken hold…
Genere: Malinconico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frodo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questa storia nasce dopo un’ispirazione improvvisa, dovuta a una festa in pieno stile Middle-Earth con tanto di “lembas bread” & “ale”.

A dire il vero era da tempo che pensavo ad una storia del genere.

Il protagonista è Frodo, il personaggio che più adoro in assoluto.

Ho sempre ritenuto perfetto il finale scritto dal mio caro compaesano Tolkien, ma non nego che la curiosità sul destino del Portatore dell’Anello è rimasta.

Di fatto abbiamo poche certezze e si può solo immaginare quale sia stata la sua Eternità.

 È infine davvero guarito?

Oppure le ferite continuano ancora a tormentarlo?

Questo è un mio tentativo di risposta.

Perché poi una sudafricana scrive in una lingua non sua, su un sito italiano di ff? Ebbene è stato quando ho vissuto in Italia che sono passata dall’altro lato della barricata, non limitandomi più a leggere ma iniziando appunto a scrivere. Continuo su questa linea insomma.

È stato così che ho conosciuto delle persone speciali, come Silvia, alla quale dedico questa storia insieme a Sascha, colui che di fatto è il mio Sam.

Prima di lasciarvi sappiate che tutto quanto di nuovo troverete e soprattutto non conforme agli scritti del “maestro”, sono mie licenze poetiche. E abbiate pietà di me se c’è qualche strafalcione che non ho notato o che alle mie orecchie suonava invece bene…

 Vi lascio alla lettura

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How do you pick up the threads of an old life? How do you go on, when in your heart you begin to understand there is no going back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go too deep, that have taken hold…

 

 AINADAMAR

Capitolo uno

Argento

 
Passi leggeri riecheggiavano appena per il lungo patio.

Il pavimento rivestito da losanghe di marmo candido, scolpite finemente da motivi modulari.

 
Un giardino magnificamente tenuto.

Un mare di verde.

Un’intricata quanto perfettamente studiata trama di rami e foglie lussureggianti.

Siepi basse e curate dalle abili mani di giardinieri a fiancheggiare un brevissimo sentiero.

 
Una fontana seminascosta e imponente.

Il rumore discreto e musicale dell’acqua, ritmico nella sua melodia interiore e priva di spartito cartaceo, a fungere da sottofondo a quella notte altrimenti silenziosa.

 
Assenza di suono.

La logica conseguenza della fine del giorno che da qualche ora aveva ceduto alle lusinghe delle tenebre.

 
Quiete.

Il riflesso dell’anima di coloro i quali dimoravano in quelle Terre Imperiture e le cui vite erano rientrate nei binari della tranquillità.

Ora che la minaccia dell’Anello era stata sventata e la spirale impazzita di sangue scarlatto allontanata definitivamente.

 
Per tutti.

Per tutti…?

 
La Luna si stagliava contro la nera ardesia di una cupola eterea infinita e sgombra di nubi.

Signora della notte.

Maestosa.

Regale.

 Distante.

Una nota disarmonica.

A conferma di ciò, un tremito gelido attraversò la schiena della figura che percorreva lentamente lo spazio semicoperto.

 Il marmo sembrava riflettere e ridare all’esterno la freddezza di quella luce serica. Esattamente come accadeva di giorno, quando a essere assorbito era invece il calore dei raggi del Sole. Nelle ore nelle quali la canicola era maggiore, la pietra lattiginosa assumeva una tonalità di bianco insopportabile agli occhi. Quel candore feriva brutalmente le iridi e marchiava a fuoco le piante dei piedi di quanti si avventuravano per quei corridoi senza calzature.

Lui era uno di quelli.

Gli occhi, di un azzurro intenso, sembravano enormi su quel volto pallido. La fronte appena velata da gocce opalescenti di sudore freddo. L’andatura sicura, sebbene non esattamente vigorosa.

Si fermò.

Distolse lo sguardo dalla sua guida notturna.

La Luna.

Colei che gli aveva provocato quel senso di malessere.

Era raro in lui.

Era raro in qualsiasi creatura della sua specie.

Abituato alla vita a stretto contatto con la natura e gli elementi che la costituivano, dal più banale stelo d’erba coperto dalla rugiada del mattino sino ai più alti rappresentanti, quali erano gli Astri, aveva finito con lo stabilire loro dei legami di tipo quasi panico. Come li avesse personificati. Li rispettava come era solito fare con qualsiasi altro Hobbit, Elfo, Nano o rappresentante della Gente Alta che conoscesse. Aveva imparato a non temerli, piuttosto ad amarli.

Nel caso particolare della Luna poi, aveva sempre sorriso alle notti nelle quali, piena, era visibile in tutto il suo splendore, esattamente come soleva salutare le giornate ridenti di Sole, riscaldate dai raggi fecondi.

Poi qualcosa era cambiato.

Durante i mesi nei quali aveva vagato per la Terra di Mezzo.

In quell’occasione aveva smesso di guardare alla Luna positivamente. Aveva iniziato a non soffrirne più la presenza, a non trovare più in lei nessuna bellezza, nessuna traccia di maestà.

Solo un profondo senso di amarezza.

Era diventata l’icona di quella parte del giorno, inteso come entità di ventiquattro ore, che non riusciva più a considerare come ristoratrice o confortante.

Precisamente di notte tutti i pensieri funesti tornavano in superficie con maggiore prepotenza, rendendogli impossibile il riposo, penoso il trascorrere delle ore, lì a occhi spalancati aspettando il sorgere del Sole, ed insostenibile il peso del fardello che aveva finito per trascinare avanti sempre con maggiore fatica.

Un semplice cerchietto d’oro, contenente un potere negativo di incommensurabile proporzione ed effetto.

Un Anello che aveva deviato il tranquillo corso della sua esistenza.

Un Anello che si era impossessato a tratti della sua mente, smuovendo le acque della sua solitamente affabile natura, rendendolo scontroso, bramoso di un potere che non gli era mai interessato, rendendolo cieco di fronte all’evidenza, facendogli allontanare da sé il leale Samwise e dare invece ascolto alla volontà malata e infida di Gollum.

Gli occhi, allontanati dal disco argenteo notturno, si posarono sul marmo. Lo sguardo si focalizzò sull’ombra grigio chiaro che si stagliava longilinea sulla pietra cesellata ad arte e lucida di fronte a lui.

“Sam…”.

Un sorriso triste gli incurvò i lineamenti dolci del volto.

L’ovale sorridente e appena paffuto dell’amico gli riempì la memoria.

Fotogrammi della loro vita nella Contea, poi altri in viaggio per Terra di Mezzo, gli attimi di sconforto, le incomprensioni, le lacrime che avevano versato allo stremo delle forze, Sam che lo proteggeva da Gollum…

“Gollum…”. 

Gli occhi si chiusero, mentre il ricordo di quell’essere di difficile classificazione, il risultato della deformazione di colui che un tempo era stato lo Hobbit Sméagol, sostituiva quello malinconico, ma indubbiamente positivo e ricco di calore di Sam.

Una strana morsa gli contorse lo stomaco, mentre il corpo si irrigidiva dolorosamente e le mani si stringevano a pugno. Violentemente e in un gesto poco consono per lui. Respirò profondamente, cercando di allontanare quel disagio e quello strano sapore metallico che si stava impossessando del suo palato. Dovette passare qualche istante, prima di riaprire gli occhi e voltarsi dietro di sé.

Un riflesso incondizionato, che non aveva potuto evitare, le iridi che si muovevano guardinghe come a temere l’arrivo, tanto inaspettato quanto repentino, dell’essere che aveva cercato di ucciderlo.

Ancora rivedeva la schiena arcuata e attraversata da un’evidentissima spina dorsale a tendere il sottile strato di pelle grigio-rosa malsano di quel corpo semi-deformato, ma incredibilmente agile, dinoccolato e resistente. Poi quegli occhi spropositati ad occupare un buon settanta per cento del volto grinzoso di colui che era stato un membro della sua stessa specie.

E poi quella voce, sibilante e in grado di assumere più tonalità ingannevoli. Da quella spietata e avida di Gollum, a quella lamentosa e infantile di Sméagol.

… il mio tesoro…

Ma era stato Gollum a vincere in quella faida bipolare.

Quello stesso essere verso il quale aveva mostrato più volte pietà.

In maniera inspiegabile per Samwise.

In maniera del tutto logica per lui, invece.

Gollum, ai suoi occhi, non era mai stato troppo diverso dall’essere nel quale lui stesso era andato trasformandosi durante l’Avventura dell’Anello. Aveva rivisto in lui la sua stessa corruzione, sebbene ad un livello molto più avanzato.

L’ex Hobbit aveva, infatti, ceduto completamente alla brama effimera del potere dell’Unico Anello.

Lui no.

Aveva allontanato il torpore che aveva sopraffatto le sue membra esauste e la sua mente continuamente sottoposta all’invito mellifluo della voce di Sauron, proprio nell’attimo immediatamente precedente l’azione che aveva rischiato di compromettere l’esito positivo dell’Impresa.

Salvandosi.

Salvandosi…?

Sospirò ingiungendosi di calmarsi.

Gollum era morto.

La lava incandescente aveva liquefatto il suo essere, insieme all’Anello che si era impossessato della sua anima dannandola e degradandola.

Proprio dopo essersi appropriato di Lui.

Il tesoro così chiamato, l’aveva voluto per sempre con sé, in quel mare gorgogliante di bollicine sature di gas e zampillante di schizzi iridescenti, cangianti, dall’arancione più vivido al giallo più puro e rovente.

Uno scherzo del destino.

… il mio tesoro…

Spostò le iridi, che ora mostravano appena i residui di quello stato di agitazione, soffermandole sui contorni del paesaggio che lo circondava e poi sulla seconda ombra proiettata dalla Luna. Dietro di sé e appena più chiara di quella che si stagliava sul lato opposto.

Due ombre che prendevano vita dalla base dei suoi piedi, appena divaricati.

Piedi da Hobbit.

Non troppo piccoli, candidi e coperti da una curiosa peluria.

Due ombre lunghissime.

Sorrise impercettibilmente e per un attimo in maniera spontanea.

Per i suoi piedi buffi, per la sua ombra altissima.

Ironia.

Può uno Hobbit avere un’ombra così lunga?

Sì.

Scosse la testa, mentre muoveva il busto in avanti.

 
L’espressione del volto nuovamente assorta, come se quel sorriso fosse stato un accessorio stridente.

 
E forse era così.

 
Se nel vecchio Frodo della Contea la tristezza era una nota poco consona adesso, nel nuovo Frodo della Contea esiliato volontariamente a Valinor, nel Regno Eterno che si estendeva al di là dei Porti Grigi, era una caratteristica quasi comune e spesso mal celata.

I piedi si poggiarono con l’usuale leggerezza sugli ampi scalini che permettevano l’accesso al giardino. Imboccò deciso e senza saggiare ulteriormente con lo sguardo le silhouette delle piante maestose che conosceva ormai a menadito.

L’aspetto pregevole della fontana gli riempì le iridi. Come ipnotizzato dal rumore monotono dell’acqua limpida che scorreva incessante, si avvicinò presso la scultura ricavata da una nivea roccia calcarea. Il bordo della vasca inferiore gli arrivava all’altezza del petto, pur non essendo questa esageratamente elevata.

Alzò il mento e osservò il corpo centrale, dal quale sgorgava il flusso in tanti getti copiosi. Sollevandosi poi sulla punta dei piedi, poggiò le mani sull’estremità della vasca e sporse in avanti il volto, studiandone l’improvviso riflesso emerso sulla superficie dello specchio d’acqua, mosso qua e là dagli zampilli che vi si tuffavano dentro.

Il quadro che ne risultava era un primo piano tremolante e non perfettamente visibile a causa dell’ombra prodotta dalle fronde degli alberi più imponenti.

“Frodo Baggins…”.

La voce del piccolo Hobbit modulò il suono come assente e con un’intrinseca nota d’incertezza.

Quasi un volersi chiedere:

Sono davvero io?

O forse, più precisamente:

Sono ancora io?

“Frodo Baggins…”.

Di nuovo, a voce più alta, il giovane originario della Contea ripeté il proprio nome, cercando di coglierne l’essenza e sforzandosi di capire se quelle due parole lo rappresentassero ancora.

Non stentava a credere che molti avessero di lui un’immagine diversa. Memorie relative a un essere allegro, solare, gentile. Tutto parzialmente vero. Era rimasto cortese, questo sì, ma per il resto era cambiato.

L’aver distrutto l’Anello e l’aver ricondotto l’anima nera di Sauron laddove non poteva più nuocere, non aveva avuto come conseguenza scontata l’estinzione del fardello che gli aveva gravato sulle spalle.

Era rimasto un qualcosa.

Un residuo duro a morire.

Una sorta di demone che gli impediva di godere appieno della vita nell’accogliente Contea che gli aveva dato i natali, facendolo sentire fuori luogo, senza motivo apparente.

Peregrin Took, Meriadoc e Samwise erano riusciti a riadattarsi nuovamente alle loro routine precedenti la creazione della Compagnia.

Lui no.

Era un suo problema dunque.

Era un malessere al quale egli stesso non sapeva dare un appellativo, ma che avvertiva, inequivocabilmente.

Senza nome.

Un male oscuro.

Ma era lì.

Con lui.

Non lo aveva del tutto abbandonato.

Nemmeno in quel di Valinor.

Nella terra della letizia e della gioia imperiture.

Nella terra dei Luminosi per antonomasia che lo aveva accolto però ugualmente, insieme a Bilbo, nonostante la loro natura non elfica.

Una terra nella quale si era augurato di poter ricominciare, quasi sperando che la sua malinconia si dileguasse tra le acque azzurre del Mare, durante il lungo viaggio che li aveva fatti allontanare a Ovest della Terra di Mezzo.

Aveva sperato che tutto svanisse in maniera impalpabile, ma al tempo stesso decisa, come vedeva puntualmente fare alla densa bruma mattutina, quando cedeva il passo ai raggi tiepidi del Sole nascente a Est.

Ma lui stava ancora aspettando il suo Sole.

Chissà poi se sarebbe mai sorto.

Chissà se sarebbe mai giunto.

Chissà se lo avrebbe mai trovato.

Sarebbe mai riuscito di nuovo ad alzarsi al mattino serenamente, al colmo dell’aspettativa nei confronti del dì nascente?

E si sarebbe mai di nuovo coricato a letto la sera, soddisfatto della giornata appena trascorsa e desideroso quindi di concedersi un riposo ristoratore?

Sarebbe mai di nuovo riuscito a sedere a tavola e concedersi un pasto di quelli luculliani, tanto cari agli esseri della sua specie, e indice della sua ritrovata gioia di vivere?

Sarebbe tornato mai alla sua vecchia vita?

Nemmeno scrivere la storia nata da quei mesi di avventura, lo aveva aiutato.

Gli incubi che spesso gli rovinavano il sonno avevano come comune denominatore quella strana sensazione di fastidio, irrequietezza.

Perenne a quanto sembrava.

Eterna all’apparenza, come la Terra che adesso lo ospitava.

Non bastava avere accanto la presenza rassicurante di Bilbo o dell’accorto Gandalf, né quella discreta ma solidale degli Elfi. 

Nessuna parola gentile da loro, nessuna conversazione o gesto affettuoso potevano lenire quell’infelicità, quando tornava in superficie. E non c’era modo di prevederlo. Giungeva senza preavviso, guastando la sua permanenza in quel luogo deputato alla tranquillità e alla serenità per antonomasia.

L’Anello, in un modo o nell’altro, aveva segnato la vita del suo Portatore, e la purezza d’animo di colui che generosamente si era offerto per l’incarico, pur avendo resistito a lungo, aveva funto da terreno ideale per il Male, anziché essere un mezzo in più per sconfiggerlo del tutto, come sarebbe stato naturale pensare.

L’occhio nero di Sauron aveva avuto la sua piccola rivincita.

Il volto tremolante, sul quale adesso aveva fissato il proprio sguardo, non gli propose nulla di nuovo in un certo senso. Fisicamente era ancora lui.

“Frodo Baggins…”, formularono quasi come a se stesse le labbra dalla linea improvvisamente dura.

Lineamenti armoniosi ed espressivi.

Numerosi riccioli castani scendevano a mo’ di frangia su una fronte pallida e ancora imperlata di sudore, indice del suo disagio. L’aria era appena calda, una temperatura che difficilmente avrebbe fatto sudare se non unita a quell’inquietudine interiore. Alcune di quelle ciocche erano umide, più scure e incollate sulla pelle, quelle appena più lunghe invece gli facevano il solletico sulla base del collo.

Due orecchie dalla classica sagoma puntiforme facevano capolino da quelle trame color caffè. Il suo biglietto da visita più distintivo in un certo senso. Una delle caratteristiche più evidenti ad un occhio estraneo, grazie alla quale si comprendeva la sua natura non umana.

Anche gli Elfi avevano quel tipo di orecchi, ma la somiglianza con gli Hobbit si fermava lì. Nulla della leggiadria dei Signori della Terra che lo ospitava lo caratterizzava, né tanto meno la linea particolarmente aggraziata ed efebica del corpo, né il portamento regale ed innato. No. Suoi erano invece l’altezza non esaltante, il fisico appena tozzo sebbene snello e niente affatto grossolano nei movimenti, e in generale un sembiante che ispirava istintivamente simpatia e senso di protezione nelle creature delle altre stirpi.

Il suo aspetto lo faceva sembrare ancora un bambino per via dei tratti delicati e fanciulleschi che gli schizzavano la superficie ultimamente cerea del volto.

Gli occhi erano comunque senza dubbio il dettaglio di maggiore rilevanza.

Gli occhi di un saggio sul volto di un bambino.

Occhi screziati da lame argentee a farsi beffa, con la loro perfezione, della luce lunare e a rifletterla, contemporaneamente, in un inconsueto gioco di specchi.

L’iride di un azzurro intenso era per l’appunto arricchita da quella tempesta di acciaio splendente.

Una smorfia di sofferenza modificò quel quadro stabile. Le dita delle mani strinsero con maggiore determinazione il bordo della vasca, il corpo divenne all’improvviso pesantissimo e dovette poggiare interamente le piante dei piedi, ora incapaci di sopportare il suo pur discreto peso, a terra.

Subito, parte dell’immagine riflessa venne meno e la testa, come mozzata da un colpo preciso di spada, fu visibile solo dal naso in su.

Gli occhi.

Ancora una volta.

Il mezzo attraverso il quale denunciava il suo disagio.

Uno sguardo assorto nella maggior parte dei casi, mai interamente privo di quel grigio antracite paragonabile a delle nuvole cariche di pioggia in un cielo terso sull’immacolato verde della Contea.

Si passò una mano tremante sulla fronte, avvertendo sui polpastrelli ghiacciati, il sudore che imperlava in maniera malsana la pelle. Allontanò i capelli dal volto, come a cercare ristoro, ma il movimento gli risultò impacciato. Sentiva il tessuto della leggera camicia che indossava umido. Inspiegabilmente però aveva freddo.

E il dolore che lo aveva riscosso dalla contemplazione meccanica e spassionata del proprio volto, non accennava a diminuire. Era per quella stessa pena fisica che si era alzato di scatto e ritrovato a sedere sul soffice materasso della propria camera da letto, ormai alcune ore prima. Una fitta martellante e persistente all’altezza della spalla, laddove il più temibile dei Nazgûl, Witch-king, lo aveva pugnalato, inferendogli una ferita profonda. Era accaduto a Weathertop. Una scheggia della lama con cui era stato colpito si era fatta velocemente strada verso il cuore, ma non del tutto, grazie alle cure prodigategli da Elrond, Signore di Rivendell.

Una ferita dunque rimarginatasi tecnicamente dal punto di vista medico, ma che lo aveva tormentato durante tutta l’estensione del viaggio, soprattutto quando i poteri malvagi dell’Anello avevano cercato di avere la meglio sulla sua razionalità, oppure se si era trovato a distanza ravvicinata dalle creature totalmente schiave di quel cerchietto d’oro recante una, all’apparenza sibillina, iscrizione nella Lingua di Mordor.

Lo stesso fastidio, sebbene con minore frequenza, si palesava quando a svegliarsi era la seconda delle ferite che aveva riportato durante il viaggio. Quella dovuta al pungiglione dell’aracnide che aveva tentato di ucciderlo più volte e contro la quale aveva combattuto strenuamente prima di cedere.

Shelob…

Era questo il nome di quell’essere innaturalmente enorme e in grado di produrre una ragnatela tanto spessa quanto viscosa che lo aveva impedito nei movimenti, rendendogli estremamente difficile la fuga.

Era andato a letto relativamente tardi, dopo una cena consumata in compagnia della cerchia di Elfi cortigiani della Dama Galadriel e del suo consorte Celeborn, presso la dimora che era stata loro destinata a Valinor.

Non erano rare riunioni del genere a dire il vero. Come non era inusuale imbattersi in gruppi più o meno numerosi, costituiti dai protagonisti dell’Avventura dell’Anello, passeggiare sulla sabbia finissima della spiaggia che costituiva il limite orientale di Valinor. Solitamente appena dopo il levarsi del Sole, oppure nel tardo pomeriggio, quando le colorazioni dai toni più disparati iniziavano a tinteggiare il cielo all’orizzonte, preparando un testimone ideale per la notte. Rosa, sfumature inconsuete di lilla, nuvole topazio, soffici e corpose come panna montata, a dipingere l’etere.

Frodo aveva goduto di quell’atmosfera serena e al tempo stesso gioiosa, sebbene assolutamente parca in espressioni colorite o sollevamenti di gomito. Si sorprendeva sempre per come quelle creature immortali sapessero dosare positivamente le emozioni, negative o positive che fossero, distillandole. Tutt’altra cosa accadeva invece tra gli Hobbit e i Nani, ma anche tra gli Uomini, lo sapeva bene. Abbandonati i cerimoniali ampollosi, anche quest’ultimi erano dalla natura decisamente solare e godereccia.

Era stato lieto di vedere che Dama Galadriel si era del tutto ripresa da un paio di settimane che l’avevano vista non in perfetta forma dal punto di vista fisico. La sua ospite aveva rallegrato il convivio cantando delle melodie particolarmente belle e questo l’aveva resa ancora di più la Regina incontrastata della serata, come a rivendicare l’essersi riappropriata di quell’aura luminosa e splendente che la circondava sempre e che l’aveva abbandonata solo per qualche giorno nefasto.

La notizia del suo misterioso malore aveva francamente sorpreso tutti e per quindici giorni era stato impossibile vederla. Frodo si era recato a palazzo più di una volta e si era informato delle sue condizioni rivolgendo domande a Sire Celeborn, il quale non aveva però rilevato cosa avesse causato il malessere.

Qualche pomeriggio prima, di fronte alla notizia di una ripresa della Dama, si era allontanato più sollevato dalla dimora elfica, osservando a lungo le finestre delle stanze che sapeva ospitavano Galadriel e le aveva augurato una completa guarigione, per poi congedarsi con un inchino.

Tornato a casa, aveva trovato Bilbo in piena fase creativa, intento a scribacchiare versi su versi, seduto nel loro studiolo e assolutamente concentrato sul suo lavoro. Nonostante avesse provato a chiamarlo, per palesare così almeno il suo rientro dopo un intero pomeriggio fuori casa, non aveva ricevuto nessun cenno particolare da parte del cugino e lo aveva visto di nuovo conscio della realtà che lo circondava, solo quando nella cucina si respiravano ormai i profumi di quella che era una tipica cena Hobbit. Ricca come sempre.

Zuppa di funghi, stufato di carne, bruschette dorate e condite con un filo d’olio e salse appetitose, l’immancabile birra e poi una crostata rustica con marmellata di mirtilli e frutti di bosco. Sebbene non mangiasse più con l’appetito di un tempo, amava cucinare e continuava a farlo soprattutto per Bilbo, per quel suo formidabile appetito che non accennava a diminuire.

Lo Hobbit più anziano lo aveva salutato con un: “Salve Frodo! Sei qui da molto, ragazzo mio? Direi di sì visto che hai avuto il tempo di cucinare tutte queste pietanze”, aveva esordito autorispondendosi, per poi dare un morso deciso ad un crostino e masticarlo con gusto, annuendo ad indirizzo del più giovane cugino che, non potendo trattenere un sorriso di fronte a tanta genuinità, si apprestava a servire la zuppa in alcune terrine d’argilla bruna smaltata.

Durante la cena avevano conversato del più e del meno e Frodo aveva poi accennato alla sua visita a palazzo.

Bilbo aveva finito di sgranocchiare la sua terza fetta di dolce, mandandola giù con un abbondante sorso di tè nero con aggiunta di fiori di melissa, complimentandosi ancora per l’ottima cena e aveva poi parlato: “Mi fa piacere sapere che la Dama stia meglio. Vuol dire che dovrò sbrigarmi. Spero comunque che ne venga fuori qualcosa di ugualmente decente”.

Frodo aveva preso a sparecchiare il tavolo nel frattempo e, fermandosi per guardare interrogativamente il suo coinquilino, aveva esternato il proprio dubbio: “Di cosa stai parlando? Devi affrettarti a fare cosa?” aveva, infatti, inquisito, iniziando a riempire una bacinella con dell’acqua tiepida e pronto a lavare i piatti.

“Questo può aspettare, ragazzo mio”, gli aveva sorriso affettuosamente Bilbo, riferendosi alle stoviglie da insaponare e appoggiandogli delicatamente una mano sulla spalla che sapeva essere stata ferita. “Aspettami fuori sotto il portico. Ti raggiungo tra un minuto”.

Scuotendo la testa di fronte a quell’ennesima bizzarria, Frodo si era asciugato le mani con un canovaccio di lino appeso presso il lavello ed era uscito di casa. L’aria della notte profumava intensamente di elanor e niphredil. Un angolo del loro giardino era appunto coperto interamente da un cuscino latteo di niphredil e uno contiguo, ma dorato, di bellissimi quanto piccoli e delicati elanor. Un regalo di Galadriel, la quale aveva portato con sé da Lothlórien due vasetti, colmi rispettivamente delle due specie floreali nel bel mezzo della loro fioritura primaverile. Un ricordo del suo Regno Dorato nella Terra di Mezzo.

 Bilbo si era affacciato poco dopo portando con sé dei fogli scribacchiati, quelli ai quali stava lavorando in precedenza, aveva intuito Frodo fumando un po’ di erba pipa. Mansione che faceva spesso dopo cena, nelle serate nelle quali si sentiva più sereno del solito.L’odore acre ma al tempo stesso piacevole delle foglie di Vecchio Tobia che bruciavano lentamente si era così unito a quello più dolce dei fiori e, osservando ancora le azioni dell’altro Hobbit, che era nuovamente piombato in casa per poi uscirne con in mano un calamaio colmo di inchiostro nero e un pennino creato appositamente per lui dagli Elfi,  aveva aspettato che quest'ultimo si appunto spiegasse.

 Cosa che era avvenuta appena un istante dopo. La bella voce baritonale di Bilbo aveva, infatti, preso a echeggiare intorno a loro, fluttuando sotto il portico ligneo e facendo disegnare sul volto di Frodo l’ennesimo, e raro, sorriso della serata.

 "Che te ne pare?”, aveva infine chiesto, gli occhi vivacissimi per via della lettura ad alta voce dei versi che aveva appena concluso.

“Mi sembra un’idea bellissima. Credo che la Dama lo apprezzerà molto”, aveva risposto Frodo, ripassando mentalmente le strofe che aveva appena udito e saggiandone così le rime. Anche lui come il suo genitore adottivo, aveva sempre nutrito un interesse particolare per la letteratura e le arti in generale ed aveva quindi un ottimo orecchio e un ottimo gusto in fatto di canzoni e poesie, eventualmente musicate.

“Davvero, Frodo? Non lo dici solo per farmi piacere?”.

Di fronte a quel dubbio così profondamente sentito, il giovane Hobbit aveva negato con la testa e rassicurato l’altro con la sincerità che gli era propria. “Niente affatto. Non sono solito mentire, lo sai bene. E men che meno a te. Quello che hai scritto è un canto eccellente, un augurio di pronta guarigione che descrive perfettamente le qualità della Signora del Bosco d’Oro. È uno dei tuoi lavori migliori, mio caro Bilbo". 

"Oh, beh. Grazie allora, mio piccolo Frodo", aveva scherzato Bilbo ricalcando il tono paternale con il quale l’altro aveva concluso il suo discorso, in un chiaro intento di imitare il finto burbero, distratto e assolutamente affettuoso Gandalf. "Ho seguito un'improvvisa ispirazione, sai? Oggi pomeriggio, poco dopo che tu eri uscito, stavo fumando proprio come te ora, qui seduto su questi stessi scalini e mentre osservavo il mare ho spostato lo sguardo verso la dimora della Dama. I versi si sono susseguiti nella mia mente in maniera fluida, credo di poter dire, e questo è il risultato”.

Frodo aveva annuito, come sempre colpito dall'entusiasmo infantile e contagioso di Bilbo quando si trattava di nuove composizioni poetiche. Gli era sempre piaciuta quella freschezza in lui e sapere che lo avrebbe accompagnato per l'eternità lo rendeva felice.

"Queste sono le note che ho buttato giù. Sono solo una specie di spartito abbozzato, si capisce”, aveva ripreso lo Hobbit ultracentenario porgendo un paio di fogli al suo interlocutore che aveva smesso di fumare la pipa e preso invece a scorrere con occhi interessati la serie di note che erano neonate in quel pomeriggio di calma benedetta dai Valar, come sempre lì nelle Terre Imperiture.

"Hai pensato proprio a tutto, eh?”, aveva sorriso genuinamente lo Hobbit dalla morbida e riccioluta capigliatura castana, colpito positivamente dall'armonia delle note. Un degno accompagnamento per quei versi così melodici già di per se stessi.

"Beh", aveva sorriso a sua volta Bilbo, una smorfia sorniona e soddisfatta sul volto che aveva recuperato l'aspetto che lo aveva caratterizzato fino a quando aveva posseduto l'Anello. Di fatto la sua vecchiaia era scomparsa una volta messo piede a Valinor. "Credo che cantare i miei versi senza accompagnamento musicale sarebbe stato in un certo senso... incompleto", aveva spiegato con lo stesso ghigno furbo ad illuminargli il volto.

"Decisamente...", gli aveva allora fatto eco Frodo, tenendogli il gioco.Una serata come tante in un certo senso.

Una serata come quelle che avevano vissuto innumerevoli volte nella Contea, prima della Quest che aveva modificato le loro esistenze.

Un velo di nostalgia aveva oscurato per un attimo i loro volti, prima di essere cacciato di nuovo via, in favore dell'argomento che aveva dato origine a quell'atmosfera rilassata e serena."Vorresti aiutarmi a comporre la strofa finale, Frodo?", aveva allora ripreso a parlare Bilbo.

"Ne sarei onorato", aveva risposto serio lo Hobbit più giovane, alzandosi e sedendosi sui soffici cuscini della panca che ospitava già il cugino. Capo chino sui fogli, la luce viva e appena tremolante del lampadario in ferro battuto, alimentato da una quantità appropriata di olio, ad accompagnarli nel resto di quella serata, il rumore appena udibile del pennino che tracciava segni grafici eleganti su quella carta appena ruvida, e quindi perfetta per assorbire subito l’inchiostro, man mano che il canto veniva completato e modificato qua e là.

La cena di quella sera appena conclusasi, era stata appunto l'occasione per omaggiare Galadriel con il loro presente. Timidamente Bilbo aveva chiesto a Celeborn e alla Dama se era possibile per lui e Frodo onorare quel banchetto con una loro canzone. Il permesso era stato accordato immediatamente, suscitando esclamazioni di piacere. Gli Elfi amavano moltissimo i canti e Bilbo e Frodo erano noti per la loro bravura.  Tutti si erano aspettati evidentemente una canzone Hobbit per così dire, un componimento già noto alle loro orecchie e pronunciato nella Lingua della Contea, per questo grande stupore aveva causato l'ascoltare quel melodioso sovrapporsi di voci maschili cantare nell'Elfico propriamente di Lothlórien. Un Elfo aveva ricevuto da Bilbo una copia dello spartito e con dita veloci ed abili, aveva pizzicato l'arpa durante tutta la durata del canto, fungendo da accompagnamento musicale.

Tutti gli occhi dei commensali erano rimasti incollati sui due Hobbit che avevano appunto espresso la loro gioia per la guarigione di Galadriel in quel modo così speciale. Quando l'ultima nota si era oramai dispersa tra le pareti del salone che li ospitava, volti sorridenti e un applauso entusiasta avevano salutato l'esibizione dei due abitanti della Contea. Dama Galadriel li aveva ringraziati con un breve, ma sentito discorso e illuminati letteralmente con uno dei suoi sorrisi più splendenti.

Quella sera poi a Frodo aveva fatto particolarmente bene conversare con Gandalf, seduto accanto ad Elrond. Aveva intuito che fossero a conoscenza del suo malessere. Tutti lo erano a Valinor. E tutti erano preoccupati per la sua salute. Il suo stato di Portatore dell’Anello, lo aveva reso personaggio notissimo e benvoluto. Se prima era spesse volte appellato come Amico degli Elfi, adesso era molto di più.

Era comprensibile che i suoi amici poi fossero turbati dalla sua infelicità. E ugualmente comprensibile era la loro impotenza di fronte quella situazione. Se era in qualche modo lecito non aspettarsi un’esternazione dei propri dubbi da Elrond, vista la sua natura discreta, poco ipotizzabile era invece che lo stesso Bilbo, così energico e vicino a lui grazie ad un legame che andava molto più in là della mera genetica, si sentisse inibito e preferisse quasi glissare sull’argomento.

Frodo aveva avvertito su di sé gli sguardi dissimulati, ma vigili dei commensali.

Gandalf, Elrond e la stessa signora di Lothlórien erano tutt’altro che ciechi o stolti. Sapevano leggere tra righe ed era chiaro che avessero cognizione della sua sofferenza e con quelle riunioni regolari non facevano altro che ripetergli silenziosamente che era circondato da persone che tenevano molto a lui.

Nessuno gli aveva mai chiesto direttamente il motivo di tale infelicità, anacronistica in un certo senso, ora che la minaccia di Sauron era stata allontanata.

Non era necessario chiedere.

Loro già sapevano. 

Sapevano che il suo disagio sì proveniva da quelle cicatrici fisiche che interrompevano la tessitura liscia e perfetta del suo corpo, ma soprattutto, ed era questo il punto focale, era a livello psicologico e interiore che si poteva parlare chiaramente di segni fino a quel momento indelebili. 

Tutto proveniva da lì.

Da quel senso di spossatezza ed esaurimento delle energie fisiche e morali, come avesse perduto la propria anima, vendendola effettivamente a Sauron.

Era la conseguenza del viaggio e sarebbe stata lì per l’eternità ormai, accompagnandolo come un velo trasparente, ma dal riflesso opaco, grigiastro, a coprire come una patina quanto vedeva e viveva e a minare dunque la freschezza e l’essenza più limpida di quegli istanti.

Attimi che diventavano così pesantemente uno simile all’altro, senza distinzione, né differenza sensibile.

Una cortina pesante, su spalle provate da un’esperienza tanto fuori dal comune quanto distruttiva. 

Si era congedato cortesemente, rispettando la sua natura intrinseca di Gentilhobbit ed era rincasato con Bilbo, particolarmente rinvigorito da quei convivi ed entusiasta per la conversazione che aveva avuto con l’ospitale Elrond e ovviamente per il buon esito della loro esibizione. Pur essendo rimasti in silenzio, mentre percorrevano il sentiero che permetteva l’accesso alla loro abitazione, Frodo aveva percepito l’entusiasmo dell’anziano cugino in maniera palpabile. Sinceramente contento per Bilbo aveva girato la piccola chiave d’argento che apriva il portone principale della casa. 

Volendola guardare dall’esterno avrebbe sicuramente ricordato Bag End di Hobbiton. E la somiglianza non era affatto casuale. Con loro grande sorpresa, non appena messo piede sul suolo sacro di Valinor, Frodo e Bilbo erano stati condotti in quella che era una casetta Hobbit sotto tutti i punti di vista. Un tentativo per farli sentire a proprio agio da subito. 

Situata verso Nord, con tipiche porte e finestre circolari, ad un solo piano e all’interno con dei soffitti a misura di Mezzuomo. Il giardino che la circondava poi era un tripudio di piante in fiore. Un lavoro accurato, degno del più laborioso dei Samwise Gamgee, tale era la cura nei dettagli e l’evidente armonia dei colori di quella flora perfettamente miscelata.

Una cascata di edera dalle foglie verde cadmio con delle ridenti sfumature verde bottiglia si arrampicava sulla parete frontale della casa, costituendo una trama bella e ridente. Il prato era stato tagliato di recente e nell’aria si respirava ancora l’odore caratteristico dell’erba recisa. Siepi di rododendri in fiore delimitavano il perimetro del giardino in tutta la sua lunghezza. I fiorellini di un rosso vivace interrompevano la superficie verde scuro che dava loro vita. L’aiuola di niphredil candidi si armonizzava con altrettante aiuole di camelie purpuree, violacee e rosate, nonché gli elanor già citati. Non mancavano infine delicate dalie dalle sfumature calde del giallo, rosso e arancio, con tutte le nuance intermedie. 

Anche l’interno ricordava Bag End con tanto di studio nel quale ambo i cugini avevano trascorso molto del loro tempo.

Accompagnato Bilbo alla sua porta, gli aveva augurato la buonanotte, per poi recarsi nella sua stanza. Una volta svestitosi si era gettato sul letto psicologicamente esausto e, contrariamente ad ogni aspettativa, era crollato in un sonno pesantissimo e all’apparenza senza sogni.

Svegliandosi di soprassalto aveva avuto l’impressione che le pareti gialline della camera da letto lo stessero soffocando. Portatosi le mani intorno al collo, aveva sentito pulsare una vena selvaggiamente. Costretto da una necessità violenta poi, aveva spostato le proprie dita sulla spalla, stringendola convulsamente e premendo sulla cicatrice della pugnalata, come a voler sedare quell’improvviso risvegliarsi delle carni. L’aveva sentita martellare contro il palmo della mano, in sintonia con il proprio cuore che batteva senza tregua, la gola secca, le labbra doloranti e screpolate come non bevesse da tempo immemorabile e paradossalmente il torace e il volto a ricoprirsi di quell’insano strato di sudore gelido.

 Poi, così come era venuto, il tamburellare impazzito di quello spirito fosco che era rimasto intrappolato nelle sue carni dal giorno triste dello scontro contro il più temibile di Neri Sovrani, era scemato, lasciandolo però provato, lo sguardo incupito e una reazione furiosa contro se stesso, per quella debolezza che lo coglieva e contro la quale poco poteva o, per meglio dire, nulla poteva.
 
Si era alzato di scatto, scorgendo di sfuggita il riflesso del proprio corpo snello e parzialmente nudo riflesso dalla parete limpida dello specchio, la luce crepuscolare data dalle fiamme tremolanti delle candele accese con le quali dormiva da quando era ritornato ad Hobbiton, l’odore della cera che fondeva man mano che lo stoppino bruciava. 

I suoi occhi avevano colto solo il segno scarlatto che le proprie dita, strette come una morsa, avevano lasciato intorno alla spalla, poi aveva afferrato velocemente una camicia e un paio di pantaloni abbandonati su una sedia di fianco al letto ed era uscito dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle ed iniziando a percorrere lo smial silenzioso ed immerso nella penombra. 

Quasi senza accorgersene, aveva aperto il cancelletto che aveva cigolato impercettibilmente e, dopo averlo richiuso alle sue spalle, si era incamminato come posseduto da una qualche entità sovrannaturale, sebbene non esattamente un Valar protettore.

Aveva dormito pochissimo, si era accorto osservando la posizione della Luna. Forse un paio di ore e di nuovo si trovava a percorrere il sentiero verso il Castello di Galadriel.

Difficile dire perché.

Però era lì.
  
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