Questa
storia nasce dopo un’ispirazione improvvisa,
dovuta a una festa in pieno stile Middle-Earth con tanto di
“lembas bread” &
“ale”.
A
dire il vero era da tempo che pensavo ad una storia del
genere.
Il
protagonista è Frodo, il personaggio che più
adoro in
assoluto.
Ho
sempre ritenuto perfetto il finale scritto dal mio
caro compaesano Tolkien, ma non nego che la curiosità sul
destino del Portatore
dell’Anello è rimasta.
Di
fatto abbiamo poche certezze e si può solo immaginare
quale sia stata la sua Eternità.
Oppure
le ferite continuano ancora a tormentarlo?
Questo
è un mio tentativo di risposta.
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How do you pick up the threads of an old life?
How
do you go on, when in your heart you begin to understand there is no
going
back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go
too deep,
that have taken hold…
Capitolo
uno
Argento
Passi
leggeri riecheggiavano appena per il lungo patio.
Il
pavimento rivestito da losanghe di marmo candido, scolpite finemente da
motivi
modulari.
Un
giardino magnificamente tenuto.
Un
mare di verde.
Un’intricata
quanto perfettamente studiata trama di rami e foglie lussureggianti.
Siepi
basse e curate dalle abili mani di giardinieri a fiancheggiare un
brevissimo
sentiero.
Una
fontana seminascosta e imponente.
Il
rumore discreto e musicale dell’acqua, ritmico nella sua
melodia interiore e
priva di spartito cartaceo, a fungere da sottofondo a quella notte
altrimenti
silenziosa.
Assenza
di suono.
La
logica conseguenza della fine del giorno che da qualche ora aveva
ceduto alle
lusinghe delle tenebre.
Quiete.
Il
riflesso dell’anima di coloro i quali dimoravano in quelle
Terre Imperiture e
le cui vite erano rientrate nei binari della tranquillità.
Ora
che la minaccia dell’Anello era stata sventata e la spirale
impazzita di sangue
scarlatto allontanata definitivamente.
Per
tutti.
Per
tutti…?
La
Luna si stagliava contro la nera ardesia di una cupola eterea infinita
e
sgombra di nubi.
Signora
della notte.
Maestosa.
Regale.
La
Luna.
Colei
che gli aveva provocato quel senso di malessere.
Era
raro in qualsiasi creatura della sua specie.
Poi
qualcosa era cambiato.
Durante
i mesi nei quali aveva vagato per la Terra di Mezzo.
In
quell’occasione aveva smesso di guardare alla Luna
positivamente. Aveva
iniziato a non soffrirne più la presenza, a non trovare
più in lei nessuna
bellezza, nessuna traccia di maestà.
Solo
un profondo senso di amarezza.
Era
diventata l’icona di quella parte del giorno, inteso come
entità di
ventiquattro ore, che non riusciva più a considerare come
ristoratrice o
confortante.
Precisamente
di notte tutti i pensieri funesti tornavano in superficie con maggiore
prepotenza, rendendogli impossibile il riposo, penoso il trascorrere
delle ore,
lì a occhi spalancati aspettando il sorgere del Sole, ed
insostenibile il peso
del fardello che aveva finito per trascinare avanti sempre con maggiore
fatica.
Un
semplice cerchietto d’oro, contenente un potere negativo di
incommensurabile
proporzione ed effetto.
Un
Anello che aveva deviato il tranquillo corso della sua esistenza.
Un Anello che si era impossessato a tratti della sua mente, smuovendo le acque della sua solitamente affabile natura, rendendolo scontroso, bramoso di un potere che non gli era mai interessato, rendendolo cieco di fronte all’evidenza, facendogli allontanare da sé il leale Samwise e dare invece ascolto alla volontà malata e infida di Gollum.
“Sam…”.
Un
sorriso triste gli incurvò i lineamenti dolci del volto.
L’ovale
sorridente e appena paffuto dell’amico gli riempì
la memoria.
Fotogrammi
della loro vita nella Contea, poi altri in viaggio per Terra di Mezzo,
gli attimi
di sconforto, le incomprensioni, le lacrime che avevano versato allo
stremo
delle forze, Sam che lo proteggeva da Gollum…
“Gollum…”.
Gli occhi si chiusero, mentre il ricordo di quell’essere di difficile classificazione, il risultato della deformazione di colui che un tempo era stato lo Hobbit Sméagol, sostituiva quello malinconico, ma indubbiamente positivo e ricco di calore di Sam.
Un riflesso incondizionato, che non aveva potuto evitare, le iridi che si muovevano guardinghe come a temere l’arrivo, tanto inaspettato quanto repentino, dell’essere che aveva cercato di ucciderlo.
Ancora rivedeva la schiena arcuata e attraversata da un’evidentissima spina dorsale a tendere il sottile strato di pelle grigio-rosa malsano di quel corpo semi-deformato, ma incredibilmente agile, dinoccolato e resistente. Poi quegli occhi spropositati ad occupare un buon settanta per cento del volto grinzoso di colui che era stato un membro della sua stessa specie.E poi quella voce, sibilante e in grado di assumere più tonalità ingannevoli. Da quella spietata e avida di Gollum, a quella lamentosa e infantile di Sméagol.
… il mio tesoro…Ma
era stato Gollum a vincere in quella faida bipolare.
Quello
stesso essere verso il quale aveva mostrato più volte
pietà.
In
maniera inspiegabile per Samwise.
In maniera del tutto logica per lui, invece.
L’ex
Hobbit aveva, infatti, ceduto completamente alla brama effimera del
potere
dell’Unico Anello.
Lui
no.
Aveva
allontanato il torpore che aveva sopraffatto le sue membra esauste e la
sua
mente continuamente sottoposta all’invito mellifluo della
voce di Sauron,
proprio nell’attimo immediatamente precedente
l’azione che aveva rischiato di
compromettere l’esito positivo dell’Impresa.
Salvandosi.
Salvandosi…?Sospirò ingiungendosi di calmarsi.
Gollum
era morto.
La
lava incandescente aveva liquefatto il suo essere, insieme
all’Anello che si
era impossessato della sua anima dannandola e degradandola.
Proprio
dopo essersi appropriato di Lui.
Il
tesoro così chiamato, l’aveva voluto per sempre
con sé, in quel mare
gorgogliante di bollicine sature di gas e zampillante di schizzi
iridescenti,
cangianti, dall’arancione più vivido al giallo
più puro e rovente.
Uno scherzo del destino.
… il mio tesoro…Spostò
le iridi, che ora mostravano appena i residui di quello stato di
agitazione,
soffermandole sui contorni del paesaggio che lo circondava e poi sulla
seconda
ombra proiettata dalla Luna. Dietro di sé e appena
più chiara di quella che si
stagliava sul lato opposto.
Piedi
da Hobbit.
Non
troppo piccoli, candidi e coperti da una curiosa peluria.
Due
ombre lunghissime.
Sorrise
impercettibilmente e per un attimo in maniera spontanea.
Per
i suoi piedi buffi, per la sua ombra altissima.
Ironia.
Può
uno Hobbit avere un’ombra così lunga?
Sì.
Scosse
la testa, mentre muoveva il busto in avanti.
L’espressione
del volto nuovamente assorta, come se quel sorriso fosse stato un
accessorio
stridente.
E
forse era così.
Se
nel vecchio Frodo della Contea la tristezza era una nota poco consona
adesso,
nel nuovo Frodo della Contea esiliato volontariamente a Valinor, nel
Regno
Eterno che si estendeva al di là dei Porti Grigi, era una
caratteristica quasi
comune e spesso mal celata.
L’aspetto pregevole della fontana gli riempì le iridi. Come ipnotizzato dal rumore monotono dell’acqua limpida che scorreva incessante, si avvicinò presso la scultura ricavata da una nivea roccia calcarea. Il bordo della vasca inferiore gli arrivava all’altezza del petto, pur non essendo questa esageratamente elevata.
Sono ancora io?
“Frodo Baggins…”.Di nuovo, a voce più alta, il giovane originario della Contea ripeté il proprio nome, cercando di coglierne l’essenza e sforzandosi di capire se quelle due parole lo rappresentassero ancora.
L’aver distrutto l’Anello e l’aver ricondotto l’anima nera di Sauron laddove non poteva più nuocere, non aveva avuto come conseguenza scontata l’estinzione del fardello che gli aveva gravato sulle spalle.
Era rimasto un qualcosa.Un
residuo duro a morire.
Una sorta di demone che gli impediva di godere appieno della vita nell’accogliente Contea che gli aveva dato i natali, facendolo sentire fuori luogo, senza motivo apparente.
Peregrin Took, Meriadoc e Samwise erano riusciti a riadattarsi nuovamente alle loro routine precedenti la creazione della Compagnia.Lui no.
Era un suo problema dunque.Era un malessere al quale egli stesso non sapeva dare un appellativo, ma che avvertiva, inequivocabilmente.
Senza nome.Un
male oscuro.
Ma
era lì.
Con lui.
Non lo aveva del tutto abbandonato.Nemmeno
in quel di Valinor.
Nella
terra della letizia e della gioia imperiture.
Nella terra dei Luminosi per antonomasia che lo aveva accolto però ugualmente, insieme a Bilbo, nonostante la loro natura non elfica.
Ma lui stava ancora aspettando il suo Sole.
Chissà poi se sarebbe mai sorto.Chissà
se sarebbe mai giunto.
Chissà
se lo avrebbe mai trovato.
E
si sarebbe mai di nuovo coricato a letto la sera, soddisfatto della
giornata
appena trascorsa e desideroso quindi di concedersi un riposo
ristoratore?
Sarebbe mai di nuovo riuscito a sedere a tavola e concedersi un pasto di quelli luculliani, tanto cari agli esseri della sua specie, e indice della sua ritrovata gioia di vivere?
Sarebbe tornato mai alla sua vecchia vita?Nemmeno scrivere la storia nata da quei mesi di avventura, lo aveva aiutato.
Gli incubi che spesso gli rovinavano il sonno avevano come comune denominatore quella strana sensazione di fastidio, irrequietezza.Perenne
a quanto sembrava.
Eterna all’apparenza, come la Terra che adesso lo ospitava.
Nessuna parola gentile da loro, nessuna conversazione o gesto affettuoso potevano lenire quell’infelicità, quando tornava in superficie. E non c’era modo di prevederlo. Giungeva senza preavviso, guastando la sua permanenza in quel luogo deputato alla tranquillità e alla serenità per antonomasia.
L’occhio nero di Sauron aveva avuto la sua piccola rivincita.
Il volto tremolante, sul quale adesso aveva fissato il proprio sguardo, non gli propose nulla di nuovo in un certo senso. Fisicamente era ancora lui.“Frodo Baggins…”, formularono quasi come a se stesse le labbra dalla linea improvvisamente dura.
Lineamenti armoniosi ed espressivi.Numerosi riccioli castani scendevano a mo’ di frangia su una fronte pallida e ancora imperlata di sudore, indice del suo disagio. L’aria era appena calda, una temperatura che difficilmente avrebbe fatto sudare se non unita a quell’inquietudine interiore. Alcune di quelle ciocche erano umide, più scure e incollate sulla pelle, quelle appena più lunghe invece gli facevano il solletico sulla base del collo.
Anche gli Elfi avevano quel tipo di orecchi, ma la somiglianza con gli Hobbit si fermava lì. Nulla della leggiadria dei Signori della Terra che lo ospitava lo caratterizzava, né tanto meno la linea particolarmente aggraziata ed efebica del corpo, né il portamento regale ed innato. No. Suoi erano invece l’altezza non esaltante, il fisico appena tozzo sebbene snello e niente affatto grossolano nei movimenti, e in generale un sembiante che ispirava istintivamente simpatia e senso di protezione nelle creature delle altre stirpi.
Gli
occhi erano comunque senza dubbio il dettaglio di maggiore rilevanza.
Gli
occhi di un saggio sul volto di un bambino.
Occhi
screziati da lame argentee a farsi beffa, con la loro perfezione, della
luce
lunare e a rifletterla, contemporaneamente, in un inconsueto gioco di
specchi.
L’iride di un azzurro intenso era per l’appunto arricchita da quella tempesta di acciaio splendente.
Subito, parte dell’immagine riflessa venne meno e la testa, come mozzata da un colpo preciso di spada, fu visibile solo dal naso in su.
Gli occhi.Ancora una volta.
Il mezzo attraverso il quale denunciava il suo disagio.Uno sguardo assorto nella maggior parte dei casi, mai interamente privo di quel grigio antracite paragonabile a delle nuvole cariche di pioggia in un cielo terso sull’immacolato verde della Contea.
E il dolore che lo aveva riscosso dalla contemplazione meccanica e spassionata del proprio volto, non accennava a diminuire. Era per quella stessa pena fisica che si era alzato di scatto e ritrovato a sedere sul soffice materasso della propria camera da letto, ormai alcune ore prima. Una fitta martellante e persistente all’altezza della spalla, laddove il più temibile dei Nazgûl, Witch-king, lo aveva pugnalato, inferendogli una ferita profonda. Era accaduto a Weathertop. Una scheggia della lama con cui era stato colpito si era fatta velocemente strada verso il cuore, ma non del tutto, grazie alle cure prodigategli da Elrond, Signore di Rivendell.
Lo stesso fastidio, sebbene con minore frequenza, si palesava quando a svegliarsi era la seconda delle ferite che aveva riportato durante il viaggio. Quella dovuta al pungiglione dell’aracnide che aveva tentato di ucciderlo più volte e contro la quale aveva combattuto strenuamente prima di cedere.
Shelob…Era questo il nome di quell’essere innaturalmente enorme e in grado di produrre una ragnatela tanto spessa quanto viscosa che lo aveva impedito nei movimenti, rendendogli estremamente difficile la fuga.
Non erano rare riunioni del genere a dire il vero. Come non era inusuale imbattersi in gruppi più o meno numerosi, costituiti dai protagonisti dell’Avventura dell’Anello, passeggiare sulla sabbia finissima della spiaggia che costituiva il limite orientale di Valinor. Solitamente appena dopo il levarsi del Sole, oppure nel tardo pomeriggio, quando le colorazioni dai toni più disparati iniziavano a tinteggiare il cielo all’orizzonte, preparando un testimone ideale per la notte. Rosa, sfumature inconsuete di lilla, nuvole topazio, soffici e corpose come panna montata, a dipingere l’etere.
Era
stato lieto di vedere che Dama Galadriel si era del tutto ripresa da un
paio di settimane che l’avevano vista non in perfetta forma
dal punto di vista
fisico. La sua ospite aveva rallegrato il convivio cantando delle
melodie
particolarmente belle e questo l’aveva resa ancora di
più la Regina
incontrastata della serata, come a rivendicare l’essersi
riappropriata di
quell’aura luminosa e splendente che la circondava sempre e
che l’aveva
abbandonata solo per qualche giorno nefasto.
La
notizia del suo misterioso malore aveva francamente sorpreso tutti e
per
quindici giorni era stato impossibile vederla. Frodo si era recato a
palazzo
più di una volta e si era informato delle sue condizioni
rivolgendo domande a
Sire Celeborn, il quale non aveva però rilevato cosa avesse
causato il
malessere.
Lo
Hobbit più anziano lo aveva salutato con un:
“Salve Frodo! Sei qui da
molto, ragazzo mio? Direi di sì visto che hai avuto il tempo
di cucinare tutte
queste pietanze”, aveva esordito autorispondendosi, per poi
dare un morso
deciso ad un crostino e masticarlo con gusto, annuendo ad indirizzo del
più
giovane cugino che, non potendo trattenere un sorriso di fronte a tanta
genuinità, si apprestava a servire la zuppa in alcune
terrine d’argilla bruna
smaltata.
Frodo aveva preso a sparecchiare il tavolo nel frattempo e, fermandosi per guardare interrogativamente il suo coinquilino, aveva esternato il proprio dubbio: “Di cosa stai parlando? Devi affrettarti a fare cosa?” aveva, infatti, inquisito, iniziando a riempire una bacinella con dell’acqua tiepida e pronto a lavare i piatti.
Scuotendo
la testa di fronte a quell’ennesima bizzarria, Frodo si era
asciugato le mani con un canovaccio di lino appeso presso il lavello ed
era
uscito di casa. L’aria della notte profumava intensamente di
elanor e
niphredil. Un angolo del loro giardino era appunto coperto interamente
da un
cuscino latteo di niphredil e uno contiguo, ma dorato, di bellissimi
quanto
piccoli e delicati elanor. Un regalo di Galadriel, la quale aveva
portato con
sé da Lothlórien due vasetti, colmi
rispettivamente delle due specie floreali
nel bel mezzo della loro fioritura primaverile. Un ricordo del suo
Regno Dorato
nella Terra di Mezzo.
“Davvero, Frodo? Non lo dici solo per farmi piacere?”.
"Oh, beh. Grazie allora, mio piccolo Frodo", aveva scherzato Bilbo ricalcando il tono paternale con il quale l’altro aveva concluso il suo discorso, in un chiaro intento di imitare il finto burbero, distratto e assolutamente affettuoso Gandalf. "Ho seguito un'improvvisa ispirazione, sai? Oggi pomeriggio, poco dopo che tu eri uscito, stavo fumando proprio come te ora, qui seduto su questi stessi scalini e mentre osservavo il mare ho spostato lo sguardo verso la dimora della Dama. I versi si sono susseguiti nella mia mente in maniera fluida, credo di poter dire, e questo è il risultato”.
"Queste sono le note che ho buttato giù. Sono solo una specie di spartito abbozzato, si capisce”, aveva ripreso lo Hobbit ultracentenario porgendo un paio di fogli al suo interlocutore che aveva smesso di fumare la pipa e preso invece a scorrere con occhi interessati la serie di note che erano neonate in quel pomeriggio di calma benedetta dai Valar, come sempre lì nelle Terre Imperiture.
"Beh",
aveva sorriso a sua volta Bilbo, una smorfia sorniona e
soddisfatta sul volto che aveva recuperato l'aspetto che lo aveva
caratterizzato fino a quando aveva posseduto l'Anello. Di fatto la sua
vecchiaia era scomparsa una volta messo piede a Valinor. "Credo che
cantare i miei versi senza accompagnamento musicale sarebbe stato in un
certo
senso... incompleto", aveva spiegato con lo stesso ghigno furbo ad
illuminargli il volto.
Una
serata come quelle che avevano vissuto innumerevoli volte nella Contea,
prima della Quest che aveva modificato le loro esistenze.
"Ne sarei onorato", aveva risposto serio lo Hobbit più giovane, alzandosi e sedendosi sui soffici cuscini della panca che ospitava già il cugino. Capo chino sui fogli, la luce viva e appena tremolante del lampadario in ferro battuto, alimentato da una quantità appropriata di olio, ad accompagnarli nel resto di quella serata, il rumore appena udibile del pennino che tracciava segni grafici eleganti su quella carta appena ruvida, e quindi perfetta per assorbire subito l’inchiostro, man mano che il canto veniva completato e modificato qua e là.
Era comprensibile che i suoi amici poi fossero turbati dalla sua infelicità. E ugualmente comprensibile era la loro impotenza di fronte quella situazione. Se era in qualche modo lecito non aspettarsi un’esternazione dei propri dubbi da Elrond, vista la sua natura discreta, poco ipotizzabile era invece che lo stesso Bilbo, così energico e vicino a lui grazie ad un legame che andava molto più in là della mera genetica, si sentisse inibito e preferisse quasi glissare sull’argomento.
Frodo aveva avvertito su di sé gli sguardi dissimulati, ma vigili dei commensali.Non
era necessario chiedere.
Sapevano
che il suo disagio sì proveniva da quelle cicatrici fisiche
che interrompevano
la tessitura liscia e perfetta del suo corpo, ma soprattutto, ed era
questo il
punto focale, era a livello psicologico e interiore che si poteva
parlare chiaramente
di segni fino a quel momento indelebili.
Da
quel senso di spossatezza ed esaurimento delle energie fisiche e
morali, come
avesse perduto la propria anima, vendendola effettivamente a Sauron.
Attimi
che diventavano così pesantemente uno simile
all’altro, senza distinzione, né
differenza sensibile.
Si
era congedato cortesemente, rispettando la sua natura intrinseca di
Gentilhobbit ed era rincasato con Bilbo, particolarmente rinvigorito da
quei
convivi ed entusiasta per la conversazione che aveva avuto con
l’ospitale
Elrond e ovviamente per il buon esito della loro esibizione. Pur
essendo
rimasti in silenzio, mentre percorrevano il sentiero che permetteva
l’accesso
alla loro abitazione, Frodo aveva percepito l’entusiasmo
dell’anziano cugino in
maniera palpabile. Sinceramente contento per Bilbo aveva girato la
piccola
chiave d’argento che apriva il portone principale della casa.
Situata
verso Nord, con tipiche porte e finestre circolari, ad un solo piano e
all’interno con dei soffitti a misura di Mezzuomo. Il
giardino che la
circondava poi era un tripudio di piante in fiore. Un lavoro accurato,
degno
del più laborioso dei Samwise Gamgee, tale era la cura nei
dettagli e
l’evidente armonia dei colori di quella flora perfettamente
miscelata.
Anche
l’interno ricordava Bag End
con tanto
di studio nel quale ambo i cugini avevano trascorso molto del loro
tempo.
Accompagnato
Bilbo alla sua porta, gli aveva augurato la buonanotte, per
poi recarsi nella sua stanza. Una volta svestitosi si era gettato sul
letto
psicologicamente esausto e, contrariamente ad ogni aspettativa, era
crollato in
un sonno pesantissimo e all’apparenza senza sogni.
Si era alzato di scatto, scorgendo di sfuggita il riflesso del proprio
corpo snello e parzialmente nudo riflesso dalla parete limpida dello
specchio,
la luce crepuscolare data dalle fiamme tremolanti delle candele accese
con le
quali dormiva da quando era ritornato ad Hobbiton, l’odore
della cera che
fondeva man mano che lo stoppino bruciava.
Quasi
senza accorgersene, aveva aperto il cancelletto che aveva cigolato
impercettibilmente e, dopo averlo richiuso alle sue spalle, si era
incamminato
come posseduto da una qualche entità sovrannaturale, sebbene
non esattamente un
Valar protettore.
Difficile
dire perché.