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Autore: Giuu13    14/12/2016    0 recensioni
Storia originale ispirata a Battle Royale.
Dal testo:
Doveva uccidere qualcuno per sopravvivere? Doveva affrontare della gente? Era un “gioco” in cui, tra tutti i partecipanti, ne poteva rimanere in vita solo uno?
«No, col cazzo»
Genere: Avventura, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Alle nove esatte furono tutti condotti nelle proprie stanze e chiusi dentro. Sul letto erano adagiati dei vestiti e degli asciugamani e ai piedi del letto, oltre alla sacca nominata da Max, c’erano degli scarponi. In quel momento Astrid vide una porta che il pomeriggio non aveva notato, era la porta del bagno.
Astrid decise di non guardare l’arma che Max e i suoi volevano che usasse per uccidere qualcuno, e si diresse verso il bagno prendendo gli asciugamani. Rimase sotto il getto dell’acqua calda  a lungo, tanto che uscendo aveva tutto il corpo rosso per il calore. Con una certa riluttanza indossò i vestiti che le avevano portato, Max aveva fatto sapere che avrebbe davvero apprezzato vederli vestiti in quel modo, era una sorta di comando nascosto. Non avevano molta scelta. I vestiti comprendevano una maglietta a maniche corte nera, molto semplice, e dei pantaloni verde scuro con decine di tasche. Osservò gli scarponi chiedendosi se avrebbe fatto meglio a metterli o aspettare. Li infilò con rabbia e allacciò le stringhe con scatti nervosi delle mani. Max aveva detto che ci sarebbe stato un segnale a indicare l’inizio di tutta quella pazzia, ma quale sarebbe stato? Non lo aveva precisato, dannazione. Non si stese sul letto perché sapeva che se lo avesse fatto si sarebbe addormentata e dormire era una cosa che non poteva permettersi, quella sera. Da sotto la pila dei vestiti sporchi prese il mazzo di carte che era riuscita a prendere dalla “sala giochi”; aveva cercato di non farsi beccare dalle telecamere e dato che nessuno le aveva detto niente c’era riuscita. A terra cominciò a giocare a solitario in attesa di quel famoso segnale, sperando di riuscire a riconoscerlo. E se non ci fosse riuscita? Le avrebbero fatto saltare la testa?
«No, no, non devo pensare a queste cose, cristo»
Tirò un calcio contro la scrivania e scartò riprendendo a giocare, nervosa.
 
I vestiti erano comodi e leggeri e camminando, i piedi di Lucas si abituarono subito alla forma delle nuove scarpe; fece uno o due salti per la stanza, doveva rimanere sveglio e attivo, doveva essere pronto a scappare via di lì senza essere ammazzato. E senza uccidere nessuno. Inciampò nella tracolla della sacca e per poco non cadde. Si inginocchiò e aprendo la cerniera guardò per l’ennesima volta il contenuto della sacca: dei contenitori con del cibo, due borracce d’acqua, una felpa pesante e la sua arma. Definirla “sua” gli faceva paura, ma guardandola non poteva non sorridere: era un arco, ancora da montare, e c’era una faretra da venti frecce. Ne prese una e con un dito ne percorse il profilo, fino alla punta acuminata e mortale; c’era quasi una freccia per ogni avversario. Avrebbe dovuto montare l’arco subito, perché lui aveva sempre avuto bisogno di tempo e concentrazione e non poteva farlo in un minuto e doveva averlo pronto per il segnale, ma decise che lo avrebbe fatto solo quando si fosse trovato fuori da lì, anche perché usare quel tipo di arma in un ambiente chiuso come lo erano i corridoi sarebbe stato difficile. Chiuse la sacca e si sedette sul letto, in attesa.
 
Rebecca si stava strofinando i capelli con l’asciugamano, mentre osservava intensamente le sue armi appoggiate delicatamente sul letto. Appena entrata in camera si era buttata sulla sacca per vedere quella che sarebbe stata la sua arma e trovandone addirittura due aveva sorriso, la scoperta la confortava e le metteva sicurezza. In mutande e reggiseno si aggirò per la stanza brandendo la sua arma, facendo degli ampi movimenti con le braccia e affondando la lama in un immaginario nemico. Tra le mani aveva un tagliente sai, un pugnale a tre punte, e sul letto c’era il suo gemello, entrambi erano stati lucidati a dovere e le loro else erano ricoperte da nastri colorati, uno blu e uno rosso.
Il suo colore preferito era il blu, le ricordava l’acqua e il mare, la sua piscina e la sua passione. Le importava ben poco di avere un fisico imponente, di avere le spalle larghe e di incutere timore nei ragazzi per questo: lei amava il suo sport, amava l’acqua e nuotare, niente la faceva sentire meglio di una lunga e solitaria nuotata. Prese il sai rosso e lo allacciò alla cintura trovata nella sacca, aveva giusto due agganci per le due armi, ma il sai blu lo voleva tenere in mano, voleva sentire il calore freddo del metallo.
 
In sala computer, qualche piano sotto le stanze dei ragazzi (e il suolo), nella sala di monitoraggio regnava il caos: gente che urlava, che si chiamava e fischiava. Uomini e donne erano divisi in due gruppi: gli uomini erano seduti alle postazioni di sinistra e, uno sull’altro, sgomitando e ridendo guardavano i monitor dei computer, mentre le donne, a destra della sala, ridacchiavano e indicavano i loro schermi.
«Ehi, Letizia, qui c’è una ragazza che ti batte! Avrà minimo minimo la quinta»
«Chi è? Veronica?»
La donna, un’addetta del monitoraggio interno, si avvicinò al gruppo di uomini e si affacciò sulle loro spalle. Sulle schermo di uno dei computer c’era Veronica che si faceva la doccia ignara di essere osservata da decine di occhi, si spalmava il bagnoschiuma sul seno prorompente, che tutti gli uomini osservavano attenti.
«Alla sua età anche io ero così, magra in vita ed esplosiva di seno. Non mi sorprende»
Le sue parole non furono ascoltate da nessuno, erano tutti impegnati ad osservare le ragazze sotto le docce, spiate da telecamere nascoste; la scena di tutti quei pervertiti maniaci metteva un po’ di disgusto a Letizia, che se ne andò ignorando i rigonfiamenti sul cavallo di questi.
«Ehi, Franco, qui ce n’è una piatta, come piace a te»
«Guardate Arianna, dio santo, ha chilometri di gambe e poi…»
Letizia si rimise alla sua postazione, tra due colleghe che ridacchiavano e guardavano i loro computer con gli occhi sgranati; tutte le donne si erano riunite per spiare i corpi atletici e muscolosi dei ragazzi. In quel momento erano sinceramente grate di essere state scelte per quel lavoro, non erano solite rifarsi gli occhi con soggetti di questo tipo.
«Daniela, telecamera cinque, adesso»
«Gin! Ginevra, guarda Roberto, potrei svenire! Telecamere dodici»
«Potresti venire, al massimo»
Le donne scoppiarono a ridere e Letizia con loro; mentre scriveva un rapporto sbirciava gli schermi dei computer, ammirando i ragazzi, triste del fatto di non essere più giovane. Anche osservando le ragazze dai computer degli uomini aveva sentito una stretta al cuore sapendo di non essere più in forma, negli ultimi anni si era lasciata andare. Invidiava da morire i corpi delle ragazze, voleva averne uno così anche lei, e desiderava avere i corpi dei ragazzi per sé.
Con una penna picchiettò contro il computer della sua vicina, Anna, e sorridendo disse: «Daniele è quello messo peggio, considerando gli altri, no?»
Anna rise. «Considerando gli altri sì, ma mio marito alla sua età era orrendo, Daniele è molto meglio»
«Gente, gente! Telecamera numero uno, non c’è nessuno»
Anna digitò sulla tastiera, cliccò due volte su un’icona e apparve l’immagine di un vano doccia vuoto.
«Probabilmente l’ha già fatta e nessuna se ne è accorta»
«Impossibile, sono qui da tutta la sera e non si è ancora visto. È sdraiato sul letto, si è cambiato i vestiti e basta»
«Ti piacciono gli sporcaccioni, eh, Elena? Ti piacciono rozzi, eh?»
Delle altre risate, unite agli ululati degli uomini, riempivano la sala di monitoraggio sotterranea; mentre ai piani superiori i pensieri cupi si stavano moltiplicando.
 
Si sentiva piuttosto paranoico stando sdraiato lì senza aver fatto la doccia, cambiandosi solamente i vestiti, ma il pensiero delle telecamere nella sala di svago lo aveva turbato, tanto da credere che ce ne fossero ovunque. Giulio prese il peluche dal suo comodino, lo avvicinò al viso senza il coraggio di sventrarlo per scoprire eventuali telecamere: si limitò a fare la linguaccia, sperando che qualcuno lo avesse visto, voleva dimostrare che lui sapeva.
Non gli dava fastidio mostrare il suo corpo, era piuttosto a suo agio con esso, ma dover fare la doccia sotto sguardi nascosti di chissà chi e di chissà quante persone lo infastidiva, gli provocava ribrezzo e schifo. Prese un profondo respiro e gemette, si strinse i fianchi avvertendo una fitta dolorosa allo sterno. Inarcando la schiena cercò di calmarsi respirando piano e a respiri corti; non si pentiva minimamente di aver buttato la sedia contro la vetrata, solo non si aspettava che lo picchiassero in quel modo, credeva che il compito di quei soldati (erano soldati, no?) fosse quello di garantire la loro incolumità. Un cazzo! Il dolore era diminuito, così Giulio allungò una mano verso il comodino, verso quella cosa che luccicava alla luce della lampada. Era più leggera di quanto sembrasse, era anche facile tenerla per il manico.
«Una sciabola. Quanta fantasia»
Agitò in aria l’arma provocando dei sibili, poi se l’appoggiò contro il petto e si mise in attesa. Le luci si spensero verso le undici, così Giulio dovette alzarsi per non rischiare di addormentarsi.
 
A luci spente certamente non si poteva giocare a carte, così Astrid cominciò a cantare, storpiando anche i testi e le parole in inglese, quando non le sapeva o non le ricordava. Era alla settima canzone quando un ronzio la spaventò facendola sussultare. Proveniva dall’alto, da un punto imprecisato del soffitto buio.
«Salve, ragazzi! Spero non stiate dormendo, perché ho una cosa importante da dire»
Astrid si alzò in piedi, forse era quello il segnale. Aveva un piano per uscire di lì viva e voleva portarlo a termine; la vista le si era abituata al buio, quindi sapeva dov’era l’uscita.
«Premetto che questo non è il segnale, perciò rilassatevi. Volevo solo annunciarvi che non appena ci sarà il vero segnale avrete due ore di tempo per lasciare l’edificio, chiaro? O ve lo avevo già detto? Beh, in sostanza, chi non lascia la propria stanza e l’edificio morirà qui dentro, questa sarà la sua tomba»
La voce di Max era fastidiosamente allegra e rilassata, al contrario di Astrid che aveva tutti i muscoli tesi per l’ansia.
«E mi raccomando, che ci sia almeno un morto, altrimenti ce ne saranno cinque. Fateci divertire, su! Non vorrete che il gioco finisca subito, no? No, che non lo volete! Beh, ragazzi, ora vado, ci sentiremo più tardi, o meglio: qualcuno mi sentirà»
Astrid cominciò a prendere a calci il letto, poi il cassettone vicino alla porta; afferrò la scrivania contro il muro e prese a scuoterla, a spostarla cercando di ribaltarla. Era terribilmente furiosa, era fuori di sé dalla rabbia; non voleva uccidere nessuno e ovviamente non voleva essere uccisa! Fosse stato per lei si sarebbe fatta scoppiare la testa lì seduta stante, ma probabilmente (sicuramente!) nelle altre stanze qualcuno stava già trovando un modo per uccidere tutti i suoi avversari. Alcuni, ne era sicura, avrebbero partecipato al gioco e lei non avrebbe potuto fare niente, avrebbe dovuto combattere per difendersi e avrebbe dovuto uccidere se necessario. O forse no? E se avesse lasciato passare le due ore e fosse rimasta lì? In quel caso non avrebbe dovuto uccidere nessuno e nessuno l’avrebbe uccisa. Beh, certo, poi sarebbe morta comunque, ma almeno sarebbe rimasta un’anima innocente, se così si può dire.
Si sedette sul letto quasi convinta, ai suoi piedi c’era la sacca aperta e all’interno vide brillare la lama del suo pugnale. Aveva un elsa scura e corta, la lama invece era lunga quasi quanto la sua coscia: o era un pugnale molto lungo o una spada piuttosto corta. Era un ibrido. Prese l’arma titubante e se la portò in grembo. Era tanto leggera quanto pericolosa, aveva la lama sottile, ma appuntita; la infilò nel fodero agganciato alla cintura che aveva in vita, poi si prese la testa fra le mani. Non poteva semplicemente decidere di non partecipare al gioco, non ne aveva alcun diritto: non era una questione che riguardava solo lei e la sua vita, ma tutta la sua famiglia, le loro vite. Aveva dei genitori e una sorella, dei nonni, degli zii e dei cugini e non poteva semplicemente fare l’egoista e decidere di morire. Aveva avuto anche un fratello maggiore, morto qualche anno prima in un incidente stradale, si chiamava Marco ed era perfetto, la persona migliore del mondo, o almeno così pensava lei, ma forse era di parte. Sorrise al ricordo dell’amato fratello. Scosse la testa e decise che no, non poteva morire perché la sua famiglia aveva sofferto già abbastanza: i suoi genitori avevano già perso un figlio e sua sorella aveva detto addio già a un fratello, non poteva farlo ancora con lei. Non avrebbe combattuto per vincere, ma perché doveva vincere, doveva tornare a casa.
Alzò lo sguardo e si chiese come avrebbe fatto ad uscire quando il segnale sarebbe giunto, dato che la porta era chiusa dall’esterno. Avrebbero aperto o avrebbe dovuto buttare giù la porta? Le sembrava difficile dato che era rinforzata. Guardò l’orologio, era mezzanotte.
 
Erano le due e ancora non era successo nulla, nessun segnale, niente di niente. Si erano dimenticati di loro? Impossibile, era il loro gioco, quello. Mentre aveva questi pensieri, Arianna si specchiava al buio, la sua figura appena visibile dai suoi occhi abituati all’oscurità. Vedeva il contorno del suo corpo perfetto e slanciato, i capelli che le sfioravano la schiena mandavano dei riflessi chiari nel buio, quasi illuminavano la stanza da quanto erano biondi. Sorrise scoprendo una fila di denti perfetti e bianchi. Sbuffò non potendo vedersi in viso e così tornò al letto, con le mani alzate cercò la testata evitando possibili scontri con i mobili. Tastò il materasso in carca della sua almarada e quando la trovò la strinse al petto. Era la sua arma, era la sua unica possibilità di salvezza, insieme alla sua bellezza, ovviamente. Avrebbe incantato i ragazzi, avrebbe mostrato le gambe o si sarebbe stretta a loro in cerca di protezione, attenta a strofinarsi adeguatamente e a mettere a contatto le parti giuste del corpo e poi li avrebbe pugnalati con la sua almarada, un pugnale piccolo, elegante e appuntito, proprio come lei. Inoltre, Arianna sperava che tra le ragazze ci fosse qualche lesbica, così da poter adoperare il suo piano anche con loro. Rebecca, con quel corpo mascolino e i capelli corti poteva esserlo e forse anche Ester, l’aveva scoperta mentre le guardava il culo nella sala dei giochi. Alzò le spalle indifferente, non le importava con chi mettere in atto il suo piano, l’importante era vincere e tornare a casa e poi aveva sempre provato il desiderio di andare con una ragazza, la incuriosiva la cosa. Chissà com’era baciare una ragazza. Ester aveva le labbra carnose e sembravano così morbide. Sorrise nel buio della notte. Lo avrebbe anche potuto scoprire.
 
Tre e trentasette. La porta della stanza si aprì lentamente emettendo un debole cigolio. Astrid saltò in piedi venendo investita dalla luminosità che entrava nella stanza e dovette coprirsi gli occhi con una mano. Raccolse la sacca e la mise in spalla di traverso stringendo la cinghia il più stretto possibile, era più comoda con uno “zaino” piuttosto che una borsa a tracolla. Non aspettò un momento di più e non appena gli occhi si abituarono a quella luce intensa corse fuori dalla stanza. Doveva essere quello il segnale. Aveva due ore di tempo per uscire di lì seguendo i corridoi illuminati. Aveva fatto i suoi calcoli per l’elaborazione del piano: trenta ragazzi spaventati avrebbero titubato prima di correre fuori dalle stanze per scappare, si sarebbero chiesti cosa fare, dove andare, se attaccare nel caso avessero incontrato qualcuno. Astrid, no. Astrid quelle domande non se le era poste, aveva deciso di attraversare i corridoi per prima, mentre gli altri si affacciavano per controllare la situazione; lei sarebbe stata lontano, fuori di lì, mentre gli altri iniziavano ad uscire dalle loro tane. Ipotizzando di essere la prima, Astrid non avrebbe incontrato nessuno e perciò non avrebbe dovuto attaccare, né difendersi e rischiare la vita; ci avrebbero dovuto pensare gli altri ad ammazzare qualcuno lì dentro, lei non si sentiva ancora pronta. Quel suo comportamento non sapeva se ritenerlo valoroso o da codardi. Molto probabilmente era da vigliacchi sottrarsi così al primo bagno di sangue e lasciare agli altri il problema da risolvere. Ovviamente, pensando a ciò non tornò indietro per scovare qualcuno e pugnalarlo, preferì continuare a correre sotto i fasci luminosi dei neon. Sentiva solo il rumore dei propri passi rimbombare contro le pareti e il battito del suo cuore nelle orecchie. Tum tum tum. L’adrenalina aveva cominciato a scorrerle in corpo non appena aveva visto la porta aprirsi e non accennava a diminuire, anzi, sentiva una carica interna mandarle energia alle gambe facendole fare metri e metri di strada in pochissimi secondi, molto probabilmente battendo tutti i suoi record.
La sua spada-pugnale le batteva contro la coscia, era una presenza insopportabile, sembrava pesante come un macigno. Il corridoio si divise in quel momento in due strade, entrambe illuminate. Come era possibile? Quegli stronzi si volevano davvero divertire. Doveva scegliere, e in fretta. Se avesse preso la strada sbagliata sarebbe dovuta tornare indietro, il che significava incontrare qualcuno e doverlo affrontare. Non poteva sbagliare. Una strada portava a destra e una a sinistra: Astrid aveva una predilezione per la sinistra e i numeri dispari, senza una vera ragione, ma il suo istinto le diceva di prendere il corridoio a destra e così fece. Si ritrovò ben presto davanti a una rampa di scala completamente illuminata e scese i gradini volando, tre a tre; lungo questo nuovo corridoio c’erano delle finestre alte e strette e Astrid poté constatare di essere al piano terra, quindi vicino all’uscita. In quel momento sentì un’eco di passi dietro di sé, era un suono metallico, perciò, chiunque fosse, stava scendendo le scale in maniera terribilmente rumorosa.
Senza voltarsi per controllare chi fosse, Astrid scattò in avanti e dopo poco vide una porta antipanico (che ironia, lì dentro c’erano trenta persone nel panico) e ci si fiondò contro. Fu fuori in meno di un secondo e senza fermarsi corse verso il bosco di fronte all’edificio, sentiva le ali ai piedi e ora sapeva cosa voleva dire “avere le ali ai piedi per la paura”. Questa fottuta paura di morire la stava facendo correre come mai aveva fatto in vita sua, nemmeno nelle gare più importanti a cui aveva partecipato. A saperlo prima avrebbe gareggiato con una pistola puntata alla schiena, o con una minaccia di morte sulla testa in caso di sconfitta.
Raggiunti i primi alberi si fermò per riprendere fiato e non appena lo fece se ne pentì immediatamente: le gambe cedettero e lei cadde a terra esausta, piegata in due respirando a fatica. Sentiva i muscoli delle gambe bruciare per lo sforzo immane e il cuore accelerato per la paura. Strisciò verso un cespuglio e si nascose, aveva bisogno di un momento di riposo, per riprendere fiato e per mettere ordine nei suoi pensieri. Con una mano si coprì il collare, non voleva farsi beccare proprio per la sua lucina verde vita. Inspiro, espiro, inspiro, espiro, dentro, fuori. Ordine, calma. Tranquillità. Niente paura, niente paura. Niente. Paura. Paura. Paura.
 
Se non fosse stato per la luce che lo colpì in pieno, mentre si voltava, Lucas non si sarebbe mai accorto del segnale e avrebbe continuato a dormire fino allo scadere delle due ore e quindi all’esplosione del collare. Poi sì che avrebbe dormito, ma per sempre. Non appena si accorse della porta aperta si alzò in piedi e corse verso l’uscita, poi tornò indietro e prese la sacca che stava per dimenticare. Sentiva i muscoli fremere, il cuore battere all’impazzata, quasi volesse bucargli il petto. Non sapeva quanto tempo fosse passato dall’inizio del gioco, sapeva solo di aver perso tempo dormendo e doveva recuperare immediatamente. Vide le altre porte spalancate e le stanze vuote, erano usciti tutti, lui era l’ultimo e doveva affrettarsi. Rallentò a pochi passi dalla sua stanza vedendo una porta chiusa. Chi potrebbe premurarsi di chiudere la propria stanza in un momento del genere? Il metallo della porta era graffiato, delle incisioni abbastanza profonde attraversavano la porta in verticale. Cosa diavolo era successo?
«Lucas, sei ancora qui? Il tempo sta per scadere»
La voce di Max proveniva dagli altoparlanti nascosti nel soffitto, aveva sempre la solita nota allegra, anche se un po’…apprensiva? Il tempo stava per scadere e Lucas non riusciva a pensare ad altro e cominciò a correre per i corridoi seguendo le lampade accese; correva a più non posso, faceva dei lunghi passi e si aiutava con le mani nelle curve, si appoggiava ai muri e si dava lo slancio. Era sicuro di non farcela, di morire lì, di sentire una lieve pressione sul collo e poi più niente. Stava immaginando quello che avrebbe provato nel momento dell’esplosione e non si accorse di qualcosa steso sul pavimento e inciampò andando a finire per terra. La sacca scivolò qualche metro più avanti e alzando il viso Lucas sperò che l’arco e le frecce fossero integri. Corse a recuperala pronto a riprendere la sua corsa, ma prima abbassò lo sguardo per vedere su cosa era inciampato e quando vide, inorridì. A terra, in posizione supina, c’era qualcuno che guardava il soffitto. Teoricamente stava guardando il soffitto, perché il volto era ridotto a una poltiglia informe di carne e cartilagine e sangue. Il corpo era quello di una ragazza, sicuramente, ma Lucas non sapeva dire di chi non riconoscendone il viso. Si coprì la bocca con una mano ricacciando in gola i conati di vomito, chiedendosi perché. Perché. Perché. Intorno alla testa la pozza di sangue si stava seccando, ma l’odore che riempiva l’aria era nauseabondo; come aveva fatto a non accorgersene prima?
«Lusa, Lucas, Lucas»
Sentì la voce metallica di Max ammonirlo dagli altoparlanti.
«Dovresti correre all’uscita, non fermarti a guardare. Manca poco, sai?»
Avrebbe voluto fare come Astrid e chiudere gli occhi a quella ragazza, ma non aveva tempo e soprattutto non aveva più occhi, non si distingueva più nulla del suo volto, era solo una maschera rosso sangue.
Riprese a correre più veloce di prima scivolando un paio di volte per il sangue che gli era rimasto sotto le scarpe; con il pensiero viaggiava a velocità anche maggiore delle sue gambe. Chi era stato? Perché? Aveva deciso di partecipare al gioco allora. Significava che non tutti erano pronti ad evitare di farsi coinvolgere, o forse lui era l’unico che ci aveva pensato. Non poteva crederci. Cosa aveva fatto quella ragazza di così male per meritarsi quella fine orribile? Tutti loro, cosa avevano fatto? Non sapeva neanche chi piangere! Non sapeva di chi era quel cadavere! La trovava una cosa orrenda. Avrebbe dovuto usare l’arco allora, combattere, uccidere forse. No, non poteva. Ma doveva. Doveva? Doveva. I suoi lo aspettavano a casa, sicuro, non poteva abbandonarli. L’unica cosa da fare era vincere quel gioco maledetto e tornare a casa, ma prima doveva uscire di lì. La fila di neon che aveva appena superato cominciò a lampeggiare e dopo una decina di secondi si spense. Voltandosi, Lucas se ne accorse e sbarrò gli occhi terrorizzato. Il corridoio dietro di lui era nel buio più totale, il tempo stava per scadere e lui era ancora lì. Sopra la sua testa la luce brillava a intermittenza, si sarebbe spenta in poco tempo. Finalmente trovò delle scale e le scese volando, saltando i gradini e atterrando ai piedi della scala con un tonfo pesante. Riprese a correre senza più fiato e quando vide la porta antipanico sorrise; la spalancò con tutta la sua forza e non appena fu fuori vide il fascio di luce sull’erba davanti a sé spegnersi. Era fuori, ce l’aveva fatta per un soffio. Cadde in ginocchio e immerse le mani nell’erba assaporandone la freschezza della rugiada. La luna illuminava debolmente lo spiazzo d’erba davanti all’edificio ormai buio.
Lucas si chiese se erano riusciti a scappare tutti e a salvarsi, almeno per quella notte. Ricordando poi quella ragazza sconosciuta affondò le dita nella terra umida, il suo cadavere gli tornò alla mente terribile e vomitò tutto quello che aveva mangiato. Si alzò in piedi barcollando e si diresse il più velocemente possibile verso il bosco alla sua sinistra, c’era poca strada da fare paragonata a quella per il bosco proprio davanti all’edificio: avrebbe dovuto attraversare tutta la piazzola d’erba indifeso, senza coperture né armi. Si nascose dietro i primi alberi e aprì la sacca tirando fuori l’arco e le frecce, che erano fortunatamente interi nonostante la brutta caduta. Riuscì a montare l’arco in dieci minuti, dopo vari tentativi falliti per il tremito delle mani e il sudore che gli faceva perdere la presa. Si sistemò la faretra sulla schiena stringendo i lacci per averla ben salda, poi si incamminò tra gli arbusti con l’arco in una mano. Il gioco era cominciato anche per lui.
   
 
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