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Autore: Newdark    14/12/2016    5 recensioni
[Post-Reichenbach]
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Aveva provato a convincersi che non sarebbe tornato ancora. Aveva stabilito che non sarebbe tornato ancora ‒ tutto questo è ridicolo in una maniera che difficilmente può conciliarsi con la sua eccezionale intelligenza, dopotutto.
Ma ha fallito di nuovo, e non se ne sorprende.
Mai, quando c'è lui di mezzo.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Mycroft Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Arieccomi.
Una cosa allegra per le feste imminenti, sì. Ma me la sono vista in testa, questa scena, e quand'è così c'è poco da fare,
è un po' una maledizione.
Beh, buona lettura a chi vorrà.


NewDark

 

 

 

 

 

La Tomba Vuota


 


 

 



     Io mi preoccupo per lui. Incessantemente.





     Il silenzio si snoda tra i sentieri del vecchio cimitero, grave e penetrante. Assordante.
    Non è tardi, non particolarmente, ma il buio è già calato da un pezzo e in giro non c'è un'anima ‒ o forse non è l'espressione migliore, dato il luogo, ma che importa? Il cielo è coperto e minaccia tempesta. Al posto della luna, un pallido lucore annebbiato.
    Perfettamente desolante.
    Forse lui lo gradirebbe, dopotutto.
    Uno scarno sorriso gli distorce un angolo delle labbra secche.
    Aveva provato a convincersi che non sarebbe tornato ancora. Aveva stabilito che non sarebbe tornato ancora ‒ tutto questo è ridicolo in una maniera che difficilmente può conciliarsi con la sua eccezionale intelligenza, dopotutto.
    Ma ha fallito di nuovo, e non se ne sorprende.
    Mai, quando c'è lui di mezzo.





     Il freddo è pungente e il suo viso arrossato ha perso sensibilità. Vorrebbe ‒ lo vorrebbe davvero ‒ che fosse altro di sé ad averla smarrita. Magari quel cuore che per anni ha, senza crederci, spergiurato di non avere. Magari.
    Mycroft Holmes troneggia altezzoso in mezzo alle erbacce, sferzato dal vento gelido di febbraio, le mani intrecciate sul manico dell'ombrello e lo sguardo fisso davanti a sé. Solo di tanto in tanto quello sguardo ha un guizzo improvviso, imperioso, e scivola fulmineo sulla lapide nera lì a pochi metri di distanza. Il suo viso impassibile, ogni volta, si contrae impercettibilmente.
    Chiude gli occhi ed espira, e il freddo condensa il suo fiato in fumose spirali bianche; poi risolleva lentamente le palpebre. In un battito di ciglia ‒ il suo ‒ qualcosa è cambiato. Appare visibilmente più stanco e, in misura non umanamente percettibile, dolente.
    Soltanto lui potrebbe rendersene conto, e non è lì per farlo. Non può deriderlo, come certamente farebbe, per quell'inaspettata crepa nel muro della sua esemplare compostezza.
    L'uomo è attraversato dall'impulso di chinare la testa; e per questo, invece, solleva sprezzante il mento. Poi contempla una volta ancora quel nome stampato in caratteri dorati. Le sua labbra si curvano pesantemente all'ingiù.
    Non sa per quanto tempo ancora suo fratello dovrà essere morto.
    Non lo incontra da più di un anno, ma non è soltanto questo il problema. Non sa con esattezza dove sia ‒ novità cui è certo di non volersi abituare ‒ né come stia ‒ tarlo che, inevitabilmente, lo tormenta giorno e notte. Ma non è nemmeno questo, il vero problema.
    Il problema è che Mycroft Holmes ‒ il Governo Britannico, l'uomo di ghiaccio, colui che è, a tutti gli effetti, l'uomo più potente del Paese ‒ trema davanti ad una tomba vuota.





 

     «Oh... ah, è... lei, mi...» balbetta all'improvviso una voce femminile bassa e nervosa alla sua destra.
    L'uomo si volta di scatto, quasi con ferocia: non l'ha sentita arrivare.
    Per un attimo la donna appare sbigottita: che cosa gli ha visto in faccia? Ma qualsiasi cosa fosse ‒ dolore? Dolore? ‒ è già scomparsa, e il signor Holmes stira le labbra in un sorriso freddo. Lei sussulta. Pare sforzarsi di ricambiare, ma il risultato è semplicemente pessimo. In parte perché è intirizzita, e in parte perché proprio non si aspettava di dover sorridere ‒ nemmeno per educazione ‒ quella sera.
    L’uomo osserva l'agitazione con cui lei si rigira tra le braccia il mazzo di fiori che ha portato con sé e capisce tutto quel che c'è da capire. Torna a guardare fisso davanti a sé.
    «Buonasera» dice soltanto.
    «Buonasera» risponde in automatico lei, tirando inconsapevolmente su col naso. Trema leggermente sul posto ‒ il freddo la sta uccidendo, e il disagio si sta facendo rapidamente largo nel mucchio delle spiacevoli sensazioni che la attanagliano. È la prima volta che incontra qualcuno, lì, e mai si sarebbe aspettata che, tra tutti, ci avrebbe trovato proprio lui.
    Sposta il peso su una gamba e arrossisce. È in imbarazzo, ovviamente, e i fiori che continua a stringersi al petto come fossero una fondamentale parte di sé di certo non aiutano. Li soppesa a lungo, incerta, scoccando di traverso occhiate nervose all'uomo al suo fianco. Lui non mostra di accorgersene ‒ o quantomento di curarsene. Lei si convince che questo sia sufficiente.
    Sospira. Poi si china e deposita con delicatezza il mazzo di fiori sulla lastra tombale ‒ non ha senso temporeggiare, si dice. Quando si rialza, stabilisce che non le importa se lui ha intravisto le sue dita scivolare dolcemente sulla pietra gelida. Non si curerà di che cosa possa star pensando. Non si lascerà intimidire. Quell'uomo deve averla classificata come una sciocca molto tempo prima, dopotutto, e non crede di poter peggiorare più di tanto la situazione. Nemmeno portando fiori sulla tomba finta di una persona viva. Si rilassa appena. Non è questo il posto per temere un confronto con Mycroft Holmes.
    «Era lei, allora» soggiunge di colpo la voce neutra dell'uomo, facendola sobbalzare. Proprio non si aspettava che avrebbe parlato di nuovo.
    Lei boccheggia, in cerca di una risposta. Poi annuisce, in silenzio. Un momento dopo si chiede, nervosa, se non fosse un'accusa. Non lo sembrava, ma è pur sempre con un Holmes che sta parlando, perciò chi può dirlo? Non dovrebbe comunque scusarsi. Non dovrebbe, davvero, non ha alcun senso, non è un suo problema se quell'uomo non apprezza che qualcuno porti dei fiori sulla tomba del fratello. Ma sa che lo farà comunque. «Mi dispiace se lei... non ho pensato...». Prende un respiro più profondo. «Forse le dà fastidio che.
    «Sono deliziose» la interrompe lui, formale, senza guardarla.
    Naturalmente sapeva già delle rose.
    Molly Hooper visita il cimitero una volta al mese e porta sempre con sé un mazzo di rose bianche. Lo saprebbe anche se non le avesse trovate personalmente più di una volta.
    «Lui le odierebbe» commenta lei, e un sorriso incerto le increspa le labbra.
    Rose bianche, Molly? Davvero?
    Le pare di sentirla, la sua voce sdegnata che la rimprovera ‒ come sempre. Cosa non darebbe per ascoltarla ancora.
    Il signor Holmes socchiude gli occhi. «Naturalmente».
    È il guizzo di un sorriso, fulmineo ma indubitabile, quello che Molly Hooper coglie per un istante su quel viso severo e che per un momento la lascia spaesata.
    La campana della chiesetta arroccata sulla collina del cimitero batte le sette.
    Loro tacciono.
    Il vento fischia nelle loro orecchie, e la situazione si fa, gradualmente, stranamente confortevole. La loro mutua compagnia, lì in quel luogo di morte, pare per assurdo rinvigorire la consapevolezza che, da qualche parte, lui è vivo.
    Vivo.
   
Mycroft Holmes si rigira quella parola nella propria testa, assaporandone il suono improvvisamente così rassicurante ‒ con quella donna lì accanto, gli pare che debba essere vero sul serio. Lo è, infatti ‒ perché a volte pare così difficile crederlo?
    Poi, quando il frastuono si placa un poco, l'uomo si irrigidisce. È sicuro che ora lei lo subisserà di domande. Molly Hooper è innamorata di Sherlock, non rinuncerà di certo all'opportunità di chiedere.
    Lui non risponderà. Non lo farebbe neanche se potesse ‒ e chiaramente non può, perché il rischio è sempre troppo alto. Ma lei, probabilmente, non può neanche concepire la possibilità di orecchie in ascolto sempre e dovunque ‒ del resto, come pretendere di più da un pesce rosso?
    «Mi dispiace di averla disturbata» sussurra invece Molly Hooper, tirando di nuovo su col naso e sfregandoselo distrattamente con la manica del piumone. «Non credevo che qualcuno, oltre me, potesse essere tanto sconsiderato da... con un tempo simile... cioè, non intendevo che lei...». Molly esplode in una risatina nevrotica e tace, abbassando la testa.
    L'uomo inarca un sopracciglio, colpito dall'erroneità della propria valutazione più che da quel balbettìo sconclusionato.
    Lei arretra un poco, ciondolando, come accennando ad andarsene. Ma poi si blocca di colpo, quasi fosse stata fulminata. Si fa di nuovo avanti, crucciata, verso la lapide. C'è della carta, incastrata sotto una grossa pietra lì accanto alla tomba. Si inginocchia per terra, sollevandola un poco. Brandelli di fogli fradici e sgualciti svolazzano via, trascinati dal vento, mentre Molly Hooper rinviene quello che sembra un fascicolo completamente inzuppato di pioggia e strappato in diversi punti. Le labbra della donna tremano. Ripone i fogli dove li ha trovati e si rialza, tirando su col naso ed evitando in ogni modo di incrociare lo sguardo dell'altro.
    Si aspetta che lui parli con quel suo tono altezzoso e sprezzante, che evidenzi l'idiozia di un simile gesto ‒ è convinta che abbia mentito, sulle rose, com’è possibile che non lo infastidiscano? Ma il signor Holmes tace, e non sembra avere alcuna intenzione di rilevare quanto sciocco sia depositare fascicoli di casi di omicidio irrisolti su una tomba.
    Del resto, non è la prima volta che Lestrade se ne lascia dietro qualcuno.
    È un visitatore irregolare, l'ispettore, e appare ogni volta come fosse capitato lì per caso. S'inginocchia davanti alla tomba ed estrae i fascicoli dalla giacca. Poi si rialza, e si fuma una sigaretta. Qualche volta racconta dei suoi grattacapi sul lavoro, di tutti i casi di cui non riescono a venire a capo ‒ e sono parecchi ‒ di quanto, diamine, gli farebbe comodo il suo aiuto. E che, malgrado fosse un uomo assolutamente insopportabile, arrogante e sgarbato, era anche maledettamente insostituibile. E un amico, anche se lui ‒ il grande genio non ha mai voluto capirlo. Qualche volta gli si inumidiscono gli occhi, mentre lo dice. Qualche volta lo insulta perché non si è lasciato salvare ‒ doveva esserci un modo, Lestrade ne è convinto e lo sarà sempre. C'è sempre un modo, quando sei Sherlock Holmes. Questo continua a ripeterlo tutte le volte. E poi se ne va, e sembra sempre un po' più vecchio di quando è arrivato.
    Mycroft Holmes sa tutto questo e molto di più, semplicemente perché sulla lapide c'è una microcamera ‒ non perché si diletti del dolore altrui, ma perché in tutta questa storia occorre tener d'occhio proprio ogni cosa.
    Sa che la signora Hudson, dopo quella visita con John, è venuta una sola altra volta. Si è avvicinata alla tomba con passo malfermo, e pochi istanti dopo è scoppiata in singhiozzi incontrollabili. «Oh, Sherlock!» ha gridato, ed un attimo più tardi è sgambettata via, il naso affondato nel fazzoletto e l'espressione addolorata e sgomenta di chi abbia subito un torto imperdonabile da qualcuno di cui si fidava ciecamente.
    E poi, naturalmente, c'è John. E Mycroft non vorrebbe proprio pensarci.
    I primi tempi veniva ogni due giorni. Si piazzava lì davanti, le mani intrecciate dietro la schiena e la posa rigida del soldato. Restava immobile anche per un'ora. Anche se pioveva. Anche se la gamba aveva ricominciato a dargli fastidio.
    Furibondo.
    Poi ha iniziato a venire una volta a settimana, e a lungo andare pareva che ogni volta gli costasse di più ‒ non era chiaro se venire o andarsene, forse entrambe le cose.
    Distrutto.
    John Watson vaga ogni volta tra le file di lapidi come se non fosse interessato a trovarne una in particolare ‒ e come se non sapesse perfettamente dov'è quel che cerca ‒ poi, nei pressi della meta, si irrigidisce tutto. Smette di camminare, guarda per terra. Prende un respiro profondo, alza gli occhi e la vede. Per un istante, è un uomo apertamente disperato. Poi si avvicina, zoppicante, e appare così stanco. Ha iniziato a consumarsi, in maniera così evidente che Mycroft si domanda spesso che cosa mai troverà Sherlock al suo ritorno. Ma non può fare altro che sorvegliarlo in silenzio.
    Non ha mai portato niente, John, ma ha parlato spesso ‒ e Mycroft non vuole ricordare. Dopo le prime due visite, ha smesso di ascoltare.
    D'improvviso, si rende conto che Molly Hooper lo sta fissando.
    Il suo viso s'indurisce immediatamente in un sorriso di circostanza ‒ benché dubiti ne esista uno per una simile evenienza ‒ talmente gelido da far sfigurare il vento che li colpisce con foga.
    La donna sussulta e distoglie lo sguardo, a disagio, ma soltanto perché si è accorta che durante i venticinque minuti che hanno trascorso lì insieme l'uomo appare invecchiato di altrettanti anni. Tira su col naso. Allora c'è davvero qualcuno, nel corpo di quell'Holmes così rigido e impenetrabile, oltre al suo straordinario cervello.
    Per un istante, il vento freddo le fischia nelle orecchie, assordandola e confondendola. Poi, la voce bassa dell'uomo la riscuote.
    «Perché proprio rose bianche?» domanda, e d'improvviso suona così terribilmente provato che, si fosse trattato di chiunque altro al mondo, Molly Hooper non avrebbe esitato a mettergli un braccio intorno alle spalle e a tentare di confortarlo in modo assolutamente impacciato. In ogni caso, la domanda è più o meno legittima e la risposta non è particolarmente compromettente. Ma lei arrossisce lo stesso.
    «Gli... somigliano un po', secondo me» balbetta, puntando nervosamente lo sguardo altrove.
    Il signor Holmes inarca un sopracciglio. Attende un'ulteriore spiegazione, una di quelle commosse rievocazioni da film con sviolinate lamentose di sottofondo e quel giorno c'era tutto quel bianco, da quel momento ho sempre pensato che lui ‒ qualcosa di sciocco e melenso e banale che riporti il pesce nel suo acquario.
    Ma non arriva niente.
    A Molly Hooper le rose bianche fanno pensare a Sherlock Holmes. E basta.
    E se da un lato non ha idea di come possa avergli accostato un'immagine simile, dall'altro si vergognerebbe ad ammettere quante sono le cose che a lui fanno pensare a Sherlock.
    Io mi preoccupo per lui. Incessantemente.
    Più di una volta ha considerato l'idea di informare John, a dispetto di ogni cautela e di ogni sforzo compiuto fino ad allora ‒ perché riesce ad immaginare con estrema precisione quanto debbano essere taglienti i bordi del suo cuore spezzato e per nessuna ragione, mai, vorrebbe essere al suo posto ma ogni volta ha soffocato la tentazione. Perché Mycroft Holmes sa sempre quale sia la cosa più ragionevole da fare, e la fa.
    Provare affetto non è un vantaggio, Sherlock.
    «Buonasera, dottoressa Hooper» mormora d'un tratto, sottraendosi a quella sfilza di pensieri turbinosi e sollevando su di lei uno sguardo illeggibile. Le accenna un inchino.
    «B-buonasera a lei» risponde la donna, colta di sorpresa, ma è certa di aver intravisto l'ombra di un sorriso ‒ mesto ‒ sulle sue labbra, un istante prima che lui si volti e s'incammini.

    L'ombrello nero girandola nervosamente alla sua destra, sferzando violento l'aria fredda, come un'arma pronta a colpire. Pronta a scattare per difendere qualcosa che lui non può permettersi di perdere ‒ non è sempre stato così, con Sherlock?
    Il vago sorriso scema mentre l'uomo percorre a passo svelto i viali alberati e scarsamente illuminati. Al suo posto, emerge l'espressione dura e risoluta di chi abbia una missione di suprema importanza da assolvere ‒ una missione a cui, in effetti, si è votato una vita fa.
    Far sì che quella tomba rimanga vuota il più a lungo possibile.

 

 

 

 

 

 

   
 
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