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Autore: magixludo    17/12/2016    1 recensioni
Quando l'eroina si manifesterà
occhi di gelo e capelli di fiamma avrà

Larissa Seleucida ha diciassette anni, occhi azzurro ghiaccio e non è l'eroina di cui parla la profezia.
La prescelta è Rebecca, la sua migliore amica dai capelli rosso fuoco.
La cosa più saggia da fare ora sarebbe lasciarsi cancellare la memoria, ma Lara non è intenzionata a scordare che la magia esiste davvero e insiste per affiancare Reb nel suo ruolo di ”protettrice dell'equilibrio“. Il mondo che inizia a scoprire è incantato e ogni cosa nuova è uno spettacolo, tuttavia non ammetterebbe mai la vera ragione per cui ha deciso di non dimenticare: se per accompagnare la sua amica d'infanzia, se per scoprire quale elemento è in grado di manipolare oppure per seguire la persona che le ha rubato il cuore.
L'ultima opzione è quella più controversa perché se fosse vera allora dovrebbe capire se il ladro sia il ragazzo dagli occhi verdi o l'uomo dagli occhi azzurri.
Nella scelta tra il bene e il male, segui il cuore o la testa?
*(urban)fantasy*storia presente anche su wattpad con lo stesso titolo*
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
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Capitolo 5. L’insegnante di inglese

 

Ho perso le speranze che il provveditorato nomini un docente in tempo utile, di sicuro arriverà prima o poi, ma le altre quinte hanno già iniziato il programma e non vorrei ci trovassimo troppo indietro e fossimo poi costretti a fare le corse a maggio per finire il libro. Il mio sconforto aumenta se penso che è passata una settimana da quando la scuola è cominciata e le altre materie hanno già assegnato almeno un capitolo.
È sabato, quattro ore e poi festa fino a lunedì: avevo progettato di passare la domenica con Rebecca, ma quando è atterrata mi ha chiamata dicendomi di soffrire il jet-lag e non volere vedere nessuno tanto che era stanca, mi ha comunque rassicurata dicendo che lunedì verrà scuola e ci incontreremo; dopo quella telefonata ho pensato di non contattarla più per lasciarla riposare.
Siamo alla penultima ora, e vorremmo poter uscire adesso siccome per ultimo dovremmo avere inglese ma pare che non abbiamo portato alcune autorizzazioni – poco importa se siamo praticamente tutti maggiorenni e abbiamo consegnato i fogli ognuno dei quattro anni precedenti – e quindi, anche se resteremo scoperti per sessanta minuti, rimarremo in classe. Quando suona la campanella mi alzo dal primo banco e raggiungo alcune amiche in fondo all’aula: se dobbiamo restare qui, ci divertiremo a spettegolare. Assorta nella conversazione che va avanti da dieci minuti e con le spalle alla cattedra, mi accorgo che è entrato qualcuno solo quando i miei compagni iniziano a tornare ai loro posti producendo orribili stridii con lo strisciare di sedie e banchi. Decido a tornare a posto anche io e mi domando se hanno trovato un supplente o hanno mandato semplicemente un bidello. Mi giro e vedo la figura dietro la cattedra che mi sembra stranamente familiare. Torno al mio banco mentre lui si toglie in un cappotto e la tuba, liberando una matassa di riccioli. L’abbigliamento mi ha già riportato con la mente a quel pomeriggio in libreria, ma è quando parla e si presenta che i miei dubbi vengono dissipati: «Salve a tutti, sono il vostro nuovo insegnante di inglese, Benjamin Smith.»


Mentre lo osservo organizzare il suo registro personale ricopiando i nostri nomi realizzo due cose: a. non mi ha riconosciuta – mi ha qui di fronte alla cattedra e ma non ha inarcato neanche un sopracciglio, capisco che voglia mantenere la sua professionalità, ma neanche un lampo di riconoscimento è passato nei suoi occhi, ammetto di essere dispiaciuta e dallo scoprire quanto sia stato irrilevante il suo incontro con me – e b. a differenza sua, io non ho rivelato il mio nome, motivo per cui quando lo leggerà sul diario di classe continuerà a ignorarmi. Sto meditando se fargli notare a fine lezione che ci siamo già incontrati, quando si alza e ci chiede di presentarci e aggiungere anche un qualcosa che ci riguarda. La prima studentessa dice nome, cognome e che è vegetariana perché adora gli animali, il secondo che gioca a calcio dopo la scuola, la terza che l’anno prossimo vorrebbe frequentare la facoltà di giurisprudenza, e così via… dato che è partito dalla fila laterale in fondo – io sono davanti al centro – e siccome i miei compagni di classe li conosco, non ascolto ciò che dicono ma concentro la mia attenzione su Ben… sempre ammesso che mi sia ancora concesso di chiamarlo così. In libreria la tuba li nascondeva e non mi ero accorta che avesse i capelli ricci di un castano scuro con alcuni quasi bianchi sulle punte, nonostante la colorazione inusuale, le macchie chiare sono troppo disomogenee per essere opera di un parrucchiere, quindi sicuramente sono naturali, mi domando se li abbia avuti così fin dalla nascita… Senza il cappotto vedo anche cosa indossa sotto e, ricordandomi anche quel poco che ho visto in libreria, immagino che non si sia vestito così solo per impressionare i suoi alunni, ma sia il suo stile solito: un tre pezzi di colore grigio scuro con camicia bianca. Mi balena in mente l’immagine di un altro maschio con la passione per le magliette candide, tuttavia dura meno di un istante perché è il mio turno di parlare: «Mi chiamo Larissa Seleucida» ha chiesto di presentarci in inglese «e adoro leggere» questa è stata l’informazione che ho deciso di aggiungere, sperando che ricollegasse viso, voce e luogo… e invece niente. Ha ascoltato tutte le conversazioni in piedi davanti alla cattedra, quando si è accorto che era arrivato il turno della ragazza seduta al banco proprio di fronte a lui si è sporto leggermente per osservarmi meglio, ma quando ho finito di parlare è passato a concentrarsi sull’alunno successivo senza battere ciglio.
Quando l’ultimo studente si è presentato, il professore ricomincia a parlare per illustrarci il programma che svolgeremo quest’anno: «Ho controllato il programma che avete già fatto e sono stato felice di constatare che avete trattato tutti gli autori principali, così possiamo partire direttamente con i nuovi senza arretrati.»
Nonostante adori il periodo che andremo a studiare quest’anno – non sapendo quando sarebbe arrivato il docente avevo iniziato a sfogliare il libro – non riesco a prestare attenzione a ciò che dice, troppo sorpresa dal fatto che stia parlando in italiano, un perfetto italiano senza alcun tipo di accento o errore, e non riesco ad evitare di domandarmi perché al nostro primo incontro non abbia usato questa lingua quando gli ho rivelato di non essere inglese… d’un tratto l’“aura calmante” che lo avvolgeva dalla libreria sparisce, forse sono semplicemente io che ora sono più sospettosa nei suoi confronti, ma il suo atteggiamento da english gentleman con me non attacca più. Non so se lo nota, ma io cerco di essere il più esplicita possibile indietreggiando con il banco ed incrociando le braccia al petto; sta tenendo d’occhio tutta la classe, specialmente gli occupanti dell’ultima fila, ma sono sicura che con la coda dell’occhio mi abbia vista. Non smette di parlare, tuttavia dice qualcosa che cattura la mia attenzione: «Il programma comprende anche alcune autrici, come le sorelle Bronte; sono sicuro che tutte le ragazze abbiano sentito almeno parlare di Cime tempestose, e sono altrettanto certo che almeno una di voi al momento lo abbia in lettura, così per quando raggiungeremo questo punto del programma conto che questa persona faccia un’esposizione orale sul romanzo.»
Ci sono due cose che realizzo: a. il mio allontanamento improvviso deve averlo fatto arrabbiare perché mi ha assegnato un compito e b. mi ha assegnato come compito una recensione del libro che mi ha regalato; non ha detto esplicitamente il mio nome, né tantomeno guardava nella mia direzione, ma sono abbastanza sicura che si stesse riferendo a me. Provo a nascondere il sorriso che cerca di nascere, non so perché ma sapere che mi ha riconosciuta mi rende felice, lui mi guarda negli occhi e non riesco più a impedirmi di sorridere. È quando torna dietro la cattedra – quella è stata la sua ultima frase prima che la campanella suonasse – che mi rendo conto che la sua “aura calmante” ha ripreso a fare effetto. E questo non mi sta bene, non mi piace essere influenzata.
L’aula si è quasi svuotata e io mi avvicino alla cattedra perché ho la sensazione di dover dire qualcosa: «Professore, riguardo all’esposizione sul libro… al momento io lo sto leggendo, se vuole potrei farla io…» parlo in italiano, perché ora so che è pratico della nostra lingua. Non so come gli altri abbiano interpretato quello strano “assegno” e in realtà non posso essere neanche davvero certa che stesse parlando con me, così per sicurezza, e per evitare che tocchi a qualcuno che non lo ha letto, mi offro per la recensione orale, tanto il libro lo sto leggendo davvero: l’ho iniziato appena tornata a casa come mi ero ripromessa di fare e, anche se vado un po’ a rilento nella lettura dato che non sono madrelingua e quello resta un inglese non proprio recente, dovrei riuscire a finirlo per quando studieremo l’autrice.
Lui, ancora seduto, alza lo sguardo dal registro su cui stava segnando l’argomento della lezione e poi anche il mitico sopracciglio: «Temo di aver sbagliato qualcosa nel parlare se il mio messaggio non è arrivato chiaro: è ovvio che mi stessi riferendo a te, del resto sei l’unica in classe di cui conosco la lettura corrente
» e mi rivolge un caloroso sorriso, ma io non mi faccio distrarre, né tanto meno mi lascio sfuggire il cambio di lingua.
«Perfetto, allora aspetto notizie, professore» rispondo usando anche io l’inglese; in realtà ho fatto dei calcoli approssimativi sulle pagine del libro e le poche ore di lezione che abbiamo e dovrei avere circa un mese per concludere la lettura e preparare l’esposizione davanti alla classe, ma è sempre meglio avere conferma della data di consegna di un compito dal docente assegnatario.
Lui rimane un attimo meditabondo e sto quasi per andarmene pensando che forse voglia essere lasciato lavorare, ma poi ritorna a parlare e questa volta usa l’italiano, forse desideroso che il suo messaggio arrivi chiaro e comprensibile: «Forse sarò io che continuo ad avere problemi con la comunicazione, ma credevo di averti già detto che puoi chiamarmi Ben» devo starlo guardando con tanto d’occhi perché si affretta ad aggiungere «magari non durante la lezione, ma in momenti come questo in cui siamo soli può andar bene» mi guardo intorno accorgendomi di essere rimasta sola con lui, di colpo non voglio altro che lasciare anche io l’aula.
«D’accordo… Ben, allora ci vediamo lunedì prossimo» dico salutando e sperando di mettere fine all’assurda conversazione, lui ricambia il saluto con un baciamano e poi torna alle sue carte. Sono troppo sconvolta e desiderosa di andarmene per fare qualcos’altro che non sia uscire da scuola immediatamente.
Mentre mi avvio verso la metro mi guardo intorno alla ricerca di Tommaso, non perché abbia una cotta segreta per lui, ma essendo riuscita a urtarlo anche ieri e l’altro ieri (anche se comunque dopo martedì non ha fatto più scenate, si è limitato agli sguardi sprezzanti) cerco comunque di localizzarlo per non finirgli addosso. Alla fine lo vedo, è dall’altro lato della strada e parla con il suo amico dai capelli rossi; i nostri sguardi si incrociano per un istante… e basta, ritorniamo entrambi a concentrarci su quello che stavamo facendo.
In piedi nel vagone del treno che mi riporta a casa non posso fare a meno di sorridere al pensiero che quell’assurda maledizione che ci faceva scontrare sempre sia cessata. Sicuramente è questo il motivo della mia felicità, perché altrimenti dovrei ammettere che sono contenta di poter chiamare il mio nuovo professore per nome mentre siamo in privato, una situazione che potrebbe creare non pochi problemi nel corso dell’anno.

  
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