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Autore: simocarre83    19/12/2016    2 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UNA NOTTE E FORSE MAI PIU’

La prima cosa della quale mi resi conto quando ripresi i sensi, ancora prima di aprire gli occhi, fu che ero legato. Ero sdraiato a terra supino, mani e piedi legati con delle corde. Le braccia e le gambe erano divaricate. Il piccolo particolare delle corde che mi legavano gli arti mi face immediatamente ricordare quello che era accaduto. Ancora non avevo aperto gli occhi. Forse era la paura che me li faceva tenere ancora chiusi, facendomi restare uno “sveglio in incognito”, seppur consegnato completamente ai miei nemici. A giudicare dal fresco della sabbia e dell’aria doveva essere tramontato già il sole. E, anche se non aperti, gli occhi non percepivano alcuna traccia di luce. Quindi doveva essere buio. A fine giugno, quel buio si raggiungeva solo verso le dieci e mezza. Fu a quel punto che udii distintamente quello che stava accadendo intorno a me. Alla mia destra ed alla mia sinistra potevo sentire chiaramente degli strattoni. Come se gli oggetti a cui erano fissate le mie mani ed i miei piedi fossero, contemporaneamente, strattonati da altre persone. Capii che dovevano esserci una persona alla mia destra ed una alla mia sinistra. Mi ricordai allora che non ero solo. Fu lì, in quel momento, che aprii gli occhi. Alla mia destra avevano legato Michele. Alla mia sinistra Giuseppe. Nonostante i loro sforzi, quei pioli erano molto ben piantati nel terreno. A nulla servivano quegli strattoni. Lentamente, abituandomi al buio, illuminato solo da un fuocherello, acceso a qualche metro da noi, aguzzai la vista e mi accorsi del fatto che a Giuseppe e Michele erano stati levati i costumi. Solo a quel punto mi accorsi anch’io dello stesso particolare. I miei due amici, risvegliatisi qualche minuto prima di me, erano già in preda al panico. Si agitavano, si contorcevano, probabilmente coscienti della situazione che si era venuta a creare, coscienti del fatto che quei pioli, quelle corde e tutta la loro condizione non lasciavano presagire nulla di buono. D’altra parte, negli ultimi dieci giorni, loro erano già stati in situazioni simili e sapevano che di lì a poco avrebbero potuto provare dolore, molto dolore. Troppo dolore. Cercai di parlare, se non che la progressiva coscienza che stavo acquistando, mi fece accorgere che tutti e tre avevamo un giro di scotch sulla bocca, trasformando quegli urli in deboli mugolii.
Quando videro che anche io avevo incominciato a mugolare, e solo a quel punto, si affacciarono nel nostro campo visivo tutti e tre i nostri nemici.
“Bene! Così vi siete svegliati!” esclamò Cosimo.
“Era ora! Così possiamo divertirci un po’!” continuò Amaraldo.
Dai visi pallidi di Giuseppe e Michele incominciarono copiose a scendere delle lacrime. Sarebbero scese anche dai miei occhi. Il problema era che ero ancora allo stato primitivo di incredulità per la nostra mancanza di intelligenza e di buon senso.
Avrei accettato di perdere in qualsiasi altra situazione. Purché avessi avuto l’opportunità di combattere. Sapevo che quei pensieri erano ancora peggio della paura di Giuseppe e Michele. Perché annebbiavano ancora di più la mia mente e mi impedivano di ragionare. Di razionalizzare. Ad esempio, che cosa avevano in mente di farci? Avrebbero usato quelle pistole che avevano portato con loro? Ci avrebbero uccisi? Ci avrebbero torturati? Ma per avere cosa in cambio? Per raggiungere quale obiettivo? Per un attimo, pur di non pensare a quelle cose, preferii pensare che sarei morto volentieri in modo veloce pur di non soffrire. Ad un tratto, i tre tirarono fuori le pistole e le puntarono ciascuno alla testa di uno di noi. E Marco parlò.
“Adesso, se fate i bravi, noi vi liberiamo la bocca. Però non dovete urlare. D’accordo?”.
Evidentemente tutti e tre dimostrammo di voler collaborare, perché con uno strappo deciso, ci levarono la striscia di scotch. E solo per quello avrei urlato di dolore, rendendomi conto che non mi conveniva farlo, anche solo per la pistola che avevo puntata contro come deterrente.
“Bene!” continuò Marco. “Adesso giochiamo un po’. Io vi farò una domanda. Voi avrete dieci secondi per rispondere. Se lo farete, bene. Passeremo immediatamente alla parte divertente. Se non risponderete entro i dieci secondi, vi rimetteremo il bavaglio di scotch. Ma solo per non essere eccessivamente infastiditi per le vostre urla. Perché per cinque minuti esatti, vi colpiremo con i bastoni che due di voi conoscono già benino. Ovunque ci venga voglia di farlo. Per cinque minuti interi. Pensateci! Dieci secondi per scegliere che ne sarà della vostra vita per i prossimi cinque minuti. Non male eh? Poi vi leveremo il nastro per dieci secondi. Altri dieci secondi per decidere il destino dei successivi cinque minuti. E così fino a quando non parlerete, oppure fino a quando non ci stancheremo. E a quel punto ho tante altre idee per farvi parlare. Appena sfrutterete i dieci secondi di tempo che avrete disponibili per parlare, il gioco finirà, e ci divertiremo per un po’ in qualche altro modo, prima di lasciarvi qui, ad aspettare di essere scoperti da qualcuno domattina” e Marco si fermò, aspettando di vedere la nostra reazione.
Michele guardava Amaraldo, che lo sovrastava, con aria di sfida, ma anche profondamente intimorito di quello che si aspettava. Non sapeva quale fosse la richiesta di Marco. Certo era che se non fosse stato legato, pistola o no, avrebbe combattuto con il suo ex-amico fino alla fine, sua o dell'altro.
Giuseppe piangeva disperatamente. Non aveva smesso di piangere per tutto lo spaventoso discorso di Marco. Sommessamente, ma grosse lacrime gli uscivano dagli occhi. Sapeva quello che stava per succedere e non si rendeva minimamente conto del livello di dolore che avrebbe potuto sopportare prima di soccombere.
Io non avevo mai sentito pronunciare minacce tanto spaventose da parte di una persona. Non so cosa provavo in quel momento. Non avrei voluto rassegnarmi per nessun motivo al mondo, ma non sapevo se sarei riuscito a resistere al dolore che stavo per provare. Prima di tutto, però, avrei sentito la domanda di Marco. Se la risposta fosse stata compatibile, avevo deciso di rispondere a qualsiasi domanda mi avesse fatto. Fondamentalmente, c’era solo una domanda a cui non potevo rispondere. A costo di perdere la vita su quella spiaggia. Speravo, perciò, che Marco non stesse per fare proprio quella domanda.
“Voglio sapere chi sono e dove sono in questo momento Vito e Nicola?”
-Porca vacca… proprio ‘quella’- pensai -certo, anche uno come Marco può arrivarci, che quella è proprio la domanda giusta-
E ci arrivò.
Paradossalmente, a quel punto, per un attimo, non pensai più a Maria e ai ragazzi. Non pensai neanche a me stesso. Pensai a Giuseppe. Sapevo che lui sapeva. E sapevo che, più di ogni altra cosa, non doveva lasciar intendere che sapeva. Altrimenti, per lui, sarebbe stata la fine. E sembrò funzionare, all’inizio.
Pur non guardandoci, o avendo concordato qualcosa prima, tutti e tre rispondemmo e ci comportammo nello stesso modo. Silenzio assoluto. Sguardo fisso davanti a noi. Nessuna flessione della bocca. Nessun volgimento di sguardo. Addirittura Giuseppe smise di piangere. Fui immensamente grato a Michele e Giuseppe, che non mi avrebbero mai tradito, soprattutto sapendo le implicazioni di quella storia. Tradirmi significava anche fare del male a Maria. Lo sapevamo tutti e tre e infatti la risposta fu la medesima per tutti: silenzio.
Furono i dieci secondi più lunghi della mia vita. Ma passarono. E sapevamo, avendo già conosciuto sulla nostre pelle che persona fosse, che Marco non ci avrebbe mai permesso di ritornare sui nostri passi nei successivi cinque minuti. I giochi erano fatti.
“Scotch!” ordinò immediatamente. Gli altri due eseguirono. Si alzarono per conservare le pistole e prendere i bastoni. Si riavvicinarono.
A quel punto mi sentivo veramente perso. Dover uscire da quella situazione tradendo la persona che amavo era assolutamente impossibile. Subire in silenzio quelle torture anche. Inspirai profondamente e trattenni il fiato. Dopo pochi secondi sentii la canna fischiare nell’aria, lo strepitio della canna che toccava la mia pelle e un bruciore terribile sulla coscia destra. Avevano iniziato. I successivi cinque minuti furono un susseguirsi ininterrotto di colpi fortissimi inferti in qualunque parte del corpo. Erano in grado di colpire parti delicate con una precisione ed una forza tremenda. Ricevemmo colpi ai fianchi, sul torace, sul ventre, sulla pianta dei piedi e gli stinchi, sull’interno delle gambe, dappertutto.
Praticamente da subito abbandonammo tutti e tre lo stato di silenzio assoluto acquisito fino a pochi secondi prima. Urlammo come dei forsennati e solo lo scotch ci impedì di far sentire la nostra voce probabilmente fino a Policoro. E cinque minuti in quella situazione furono lentissimi. Parvero dieci anni. Fregandocene della nostra età, e abbandonato quasi immediatamente il coraggio che ci aveva caratterizzato, tutti e tre piangevamo come dei disperati. Comprendemmo quasi subito che guardare dove venivano diretti i colpi serviva veramente a poco. L’unica cosa che ritenni opportuno fare in quel momento fu cercare e stringere forte la mano di Michele e di Giuseppe. Resosi contro della situazione fecero la stessa cosa anche loro. Era l’unico modo che avevamo per comunicare la stima reciproca ed incoraggiarci in quel momento terribile. Eppure, quei cinque minuti ebbero fine.
“Allora! Vediamo se avete cambiato idea e siete disponibili a rispondermi! I dieci secondi partono adesso!” disse Marco.
Gli infami, però, non ci levarono lo scotch. Finiti i dieci secondi, sorridendo per il “giro gratis”, come lo definì in quel momento Marco, ricominciarono con altri cinque minuti.
Alla fine dei cinque minuti, lo scotch lo levarono. Ma, e fui ancora grato ai miei amici per la loro lealtà, con lo stesso risultato di prima. E, anche in quel caso, i dieci secondi volarono.
Di nuovo scotch, di nuovo colpi, di nuovo cinque minuti, di nuovo dieci secondi.
Per altre due volte.
Poi ancora cinque minuti, poi di nuovo i dieci secondi con lo scotch alla bocca: un altro “giro gratis”. A quel punto, però, la sofferenza, raddoppiata dall’impotenza di non poter comunque avere quella possibilità al termine dei cinque minuti regolamentari, giocarono brutti scherzi. E Marco colse subito l’occasione. Michele stava resistendo stoicamente ai suoi colpi, io pure, ma Giuseppe ebbe un momento di esitazione. Aprì gli occhi e voltò la faccia verso di me. E, purtroppo, Marco capì immediatamente la situazione. E decise di cambiare tattica. Ma solo dopo la fine dei cinque minuti. Finiti, tolsero lo scotch a tutti e tre.
Michele emise un urlo, per sfogare il dolore e la rabbia degli ultimi dieci minuti.
In preda al dolore ed alla paura, “Bastardi!” fu l’unica affermazione, pronunciata sottovoce, che rivolsi ai nostri tre aguzzini. Salvo prendermi un’altra bastonata sul braccio da Marco.
Giuseppe, che più o meno al quarto minuto di tortura aveva rivolto lo sguardo verso di me, vedendo i nostri occhi chiusi, ed incrociando subito dopo lo sguardo di Marco, aveva capito immediatamente di aver fatto uno sbaglio. Un enorme sbaglio. Io me ne accorsi perché sentii Giuseppe che, più che urlare, strillava istericamente, e soprattutto mi aveva lasciato la mano. Prima ancora di aprire gli occhi, Marco mi anticipò sadicamente la scoperta che aveva fatto.
“Bene! Abbiamo incominciato a deciderci a parlare, a quanto pare. Bella l’occhiata che ti ha lanciato Giuseppe! Dice molte cose!”
Guardai immediatamente Giuseppe negli occhi. Non l’avevo mai visto così spaventato. E anche Giuseppe poteva dire lo stesso di me. E infatti non ero deluso, non ero arrabbiato, ma impaurito, a quel punto si. Terrorizzato. Terrore di vedere svelato il segreto più importante della mia vita.
La paura non poté che decuplicare, quando Marco si inginocchiò vicino a me e mi sussurrò una cosa nell’orecchio.
“Guarda come mi diverto adesso a far soffrire il tuo migliore amico”
Quella frase mi pietrificò. Cosa aveva in mente di più doloroso di quello che stavamo passando ora?
Marco si allontanò da me, scambiando il suo posto con quello di Cosimo, su Giuseppe. Si inginocchiò vicino a quest’ultimo, mentre ci levavano lo scotch.
“Tu sai tutto, non è vero? Sono amici di Simone? E sai anche dove abitano?” chiese Marco sottovoce.
In quel preciso istante, stringendo la mano di Giuseppe, sentii di fare l’unica cosa che poteva salvarlo da una sofferenza che non sapevo quale sarebbe stata, ma che sicuramente sarebbe stata la più grande mai subita prima.
“Si! È vero! Sono miei amici! di Milano! Quindi perché prendertela con loro due? Sono io che ti devo dare quelle informazioni!” dissi coraggiosamente, cercando di attrarre su di me la pericolosa attenzione di Marco. Senza però riuscirci.
“Lo so, ormai, che tu hai tutte le informazioni di cui ho bisogno. Ma ti conosco troppo bene. Tu non me le daresti mai, queste informazioni. Ma io ne ho tanto bisogno. E visto che adesso sono altrettanto sicuro che anche Giuseppe conosce quelle informazioni, preferisco chiederle a lui. Quindi si cambia gioco!” disse.
Si sdraiò vicino a Giuseppe. E incominciò a parlare, quasi al suo orecchio, cercando di tenere alzato il volume della propria voce solo per permettermi di ascoltare con molta fatica quello che stava dicendo a Giuseppe.
“Caro Giuseppe, penso che tu sia abbastanza intelligente da capire che ti conviene dirmi subito dove abitano Vito e Nicola”. Si alzò, prese un pezzo di lamiera ondulata che era stato abbandonato lì dietro da qualcuno e con forza lo conficcò nella sabbia in corrispondenza del piolo a cui erano legate le nostre mani. Forse iniziavo a capire quello che stava succedendo. E non mi piaceva proprio per niente. Poi Marco continuò.
“Ti racconterò brevemente quello che succederà tra breve. Io so che tu puoi rispondere alla mia domanda. Quindi ti do l’opportunità di farlo in qualsiasi momento. Basta solo la tua risposta alla domanda”
Si fermò e fece un cenno a Amaraldo. Tremai, nel preciso istante in cui vidi quello che stava facendo. Da come Michele mi stringeva la mano compresi che anche lui stava capendo. E si rendeva conto, come me d’altra parte, dell’assoluta crudeltà di quello che stava per passare Giuseppe. Amaraldo aveva preso un pezzo di stoffa e con questo aveva chiuso gli occhi di Giuseppe che cercò, urlando, di dire ciò che evidentemente gli stava più a cuore in quel momento.
“Scusami Simone! Scusa! Perdonami! Non l’ho fatto apposta!” incominciò ad urlare.
“Lo sappiamo! Non credergli! Non sei solo! Non fidarti di lui! Non ascoltarlo! Non concentrarti su quello che ti dirà!” dicemmo sia io che Michele. A più riprese. Cercai di urlare più volte a Giuseppe, che non doveva, per nessun motivo, ascoltarlo. Fino a quando uno schiocco di dita di Marco non fece di nuovo calare il silenzioso bavaglio di scotch sulla bocca di entrambi.
In poco più di un minuto, Marco aveva completamente isolato Giuseppe da noi due. Eravamo sdraiati a pochi centimetri da lui, come prima. Ma ora Giuseppe non poteva toccare la mia mano. Non poteva vederci. Non poteva neanche sentire quello che gli stavamo dicendo. Poteva però sentirci urlare. E incominciò a capire dove stava andando a parare Marco. Poi Marco continuò.
“Adesso tu non puoi vedere e non puoi tenere la mano di Simone. Tra pochissimo Amaraldo e Cosimo ricominceranno a colpire i tuoi due amici. E lo faranno non per cinque minuti, ma se necessario per tutta la notte, fino a quando tu non parlerai. Poi smetteranno le sofferenze di tutti e tre. Perciò quello che è accaduto finora non è stata colpa tua, come ha detto Simone. Ma quello che accadrà a loro, da ora in poi, è e sarà solo colpa tua. Tu l’unico responsabile, tu l’unica persona che può salvarli. Piangi, pregami finché vuoi, ma l’unico modo per interrompere la loro tortura sarà rispondere a quella piccola, unica, innocente domanda”
Ecco quello che stava per fare. Non avevo dubbi sul fatto che fosse la tortura peggiore a cui poteva sottoporre Giuseppe, che respirava a fatica e continuava a piangere e singhiozzare, mentre ebbe un sussulto quando, terminate quelle frasi, il lento e cadenzato rumore dei colpi inferti a me e Michele ricominciò a trapanargli il cervello. Assieme alle urla coperte dallo scotch posto sulle nostre bocche. Beh! Lui sussultò, anche se ce la stavamo passando peggio noi, per qualche secondo. Solo per qualche secondo, però, perché poi Marco cominciò la vera tortura con lui. E a quel punto non c’erano più paragoni.
“Un vero amico protegge e difende i propri amici a costo della propria incolumità. Non permette che soffrano così. Tu a Simone vuoi veramente bene? Perché farlo soffrire così? Si sta contorcendo sotto i colpi di Cosimo. Pensa al dolore che gli stai provocando. Pensa che in questo momento è come se ci fossi tu a torturarlo! Si dice che bisogna essere disposti a morire per gli amici. È questo quello che tu stai facendo? In fin dei conti non si tratta semplicemente di consegnarci persone che non hai praticamente mai conosciuto? Salveresti i tuoi due amici, oltre che te stesso. Invece, ostinandoti a non parlare, come stai facendo, stai torturando i tuoi amici. Li stai facendo soffrire. È solo colpa tua!”
Mentre Amaraldo e Cosimo continuavano a colpirci, Giuseppe stava subendo una forma di tortura più sottile. A tratti addirittura più dolorosa. Da una parte Giuseppe sentiva noi due lamentarci e mugolare sotto lo scotch a causa dei colpi inferti. Dall’altra, le parole di Marco, appena sussurrate al suo orecchio, erano come frustate che lo colpivano direttamente al cuore. Dapprima cercò di non ascoltarlo, come gli avevo detto i poco prima. In fin dei conti, pensò, quello che diceva era una sciocchezza: loro li avevano legati, loro li stavano picchiando, cosa centrava lui? Dove stava la sua responsabilità?
Poi, però, quelle sensazioni lo fecero inciampare nell’errore peggiore che potesse fare in quella situazione. La privazione sensoriale, l’impossibilità di essere stimolato dai suoi amici con i nostri sguardi, addirittura con quella semplice mano che gli stringevo, lo fecero sentire solo. Quello fu il problema. Il vero problema.
Giuseppe incominciò a sentirsi solo. Ed i nostri urli strozzati, iniziarono a sortire l’effetto sperato da Marco. Sentirsi solo in quella radura, alla mercé dei suoi nemici, gli fece, infine, paura. Più che paura. Terrore. Più che terrore. Panico. E Marco infierì.
“Vi vantate tanto di essere amici, inseparabili, e poi sei disposto a vederli torturare pur di non rivelarci un indirizzo? Bell’amicizia quella che vi lega. Almeno quei due stanno soffrendo insieme, ma secondo me tu sfrutti l’occasione di non essere colpito, facendo torturare i tuoi, chiamiamoli, amici pur di salvarti. Sei solo una persona meschina e inutile!”
In quello stato pietoso, le cose peggiorarono improvvisamente. Per uscire da quello stato, infatti, Giuseppe si aggrappò all’unico senso ancora disponibile. Quello che non avrebbe dovuto neanche lontanamente usare. L’udito. Per uscire da quello stato, l’unico modo che ritenne possibile, fu ascoltare Marco. E Marco lo sapeva.
“Se fossi tu al loro posto vorresti che Simone o Michele ci dessero quell’indirizzo? O preferiresti che aspettassero che i brandelli della tua carne incomincino a staccarsi di dosso? Perché è questo quello che succederà tra un po’”
E fu allora che quello che sentì lo toccò a tal punto da fargli perdere la ragione.
Poteva essere che dire a Marco quello che voleva sapere fosse veramente l’unica soluzione a quel problema? Possibile che cedere a quella richiesta potesse veramente far smettere in quel momento esatto le torture inferte ai suoi amici? Allora si che dipendeva tutto da lui. Se quello che stava succedendo, come gli stava dicendo Marco, poteva finire immediatamente dicendogli quel dannato indirizzo, poteva farlo. L’avrebbe fatto per i suoi amici.
Io e Michele, intanto, continuavamo a ricevere colpi su colpi. Michele si chiedeva quanto ancora sarebbe durata quella tortura. Anche io me lo chiedevo, ma mi chiedevo ancora di più quanto ancora Giuseppe avrebbe continuato a resistere. Da quando Cosimo aveva cominciato a colpirmi, non sentivo più quello che Marco stava dicendo. Ma probabilmente Giuseppe, intelligente e furbo, ma pur sempre il più piccolo di noi tre, stava subendo da Marco una tale pressione psicologica ed emotiva, da impedirgli di ragionare. Mi dispiaceva tantissimo che Giuseppe avesse commesso quell’errore. Non l’aveva fatto apposta, la sua malizia non arrivava al punto di comprendere che anche un’occhiata lanciata ad un suo amico in quel momento difficile, nascondeva uno scorcio di verità che a Marco bastava per concentrare tutte le sue furiose attenzioni su di lui. Giuseppe non doveva cedere. Giuseppe non doveva mollare, per quanto quello fosse il momento più difficile della sua vita. In quel momento, piuttosto che pensare ai colpi che stavo ricevendo, al dolore di quelle botte, pensavo a quanto sarebbe stato bello avere dei poteri telepatici. Poter comunicare con Giuseppe e fargli sentire, urlargli tutta la mia amicizia, l’affetto che provavo per lui.
Sapevo infatti che il pericolo maggiore era che lui, nonostante le nostre urla e i nostri lamenti, incominciasse a sentirsi solo. Se fosse accaduto quello, se solo avesse incominciato a sentirsi solo contro i nostri tre nemici, era finita. E avevo capito che Marco lo sapeva ed aveva, sin da subito, con quella privazione sensoriale, provato a farlo. E mentre io e Michele ci divincolavamo in mezzo a quella serie infinita di colpi, Giuseppe, a quel punto, al punto di sentirsi solo, ci era già arrivato e, nonostante tutto, in silenzio, tremante, subiva l’attacco più forte e pesante della sua vita. Da parte di Marco.
-Possibile che in qualche occasione, per proteggere e salvare un amico sia necessario tradirlo? Tradirlo. Quello che sto pensando di fare significa tradire Simone. Significa tradire il mio migliore amico. Significa tradire la sua fiducia e la fiducia di tutti i miei amici. Significa venire meno a una promessa. Quella di proteggere Maria, Vito e Nicola, da tutto e da tutti. Maria: Simone non mi aveva mai parlato in quei termini di una ragazza prima d’ora. Ci deve tenere parecchio. Sto tradendo Simone. Sto tradendo Maria. Sto tradendo tutti i miei amici-
Esattamente questo pensò Giuseppe in quel momento. E quel pensiero lo fece scendere ancora di uno scalino in quel vortice di sentimenti. Facendogli toccare il fondo. Solitudine. Paura. Terrore. Panico. Disperazione. Illusione della salvezza. Senso di colpa. Quello fu il fondo. Giuseppe provò ribrezzo. Non per quello che aveva pensato. Giuseppe provò ribrezzo per sé stesso.
In quel momento ciò che stava sentendo, quello che stava pensando, la sua coscienza, la paura e la sofferenza gli giocarono un brutto scherzo. Perse il controllo e si fece la pipì addosso.
Marco lo vide e sentì di aver vinto. Giuseppe era cotto a puntino.
“Sei patetico! Non vali niente. E non siete neanche amici. Scommetto che ti va bene solo perché non sto riservando a te lo stesso trattamento di loro due. Sei solo un egoista. Uno sporco egoista pisciasotto!” disse, a voce un po’ più alta del dovuto.
In quel momento Michele era troppo lontano per accorgersi di tutto quello che stava passando Giuseppe, ma io no. Io, sentendo quella frase, capii che Giuseppe li aveva passati già tutti gli stati della disperazione che l’avrebbero portato a cedere, altro che evitare di sentirsi solo. Cercai di sollevarmi e vidi chiaramente tutto quello che era accaduto. Mi lasciai scivolare a terra. Sapevo che, con quella reazione, Giuseppe aveva raggiunto il fondo ed era cotto a puntino per parlare. E che, con il bavaglio di scotch, non potevo neanche fare nulla per evitarlo. Sperai solamente che Vito e Nicola potessero essere abbastanza saggi da rivolgersi ai carabinieri non appena fossero venuti a conoscenza della situazione. E mi arresi tra dolore e lacrime.
Come spesso accade quando si è vicini alla meta, quello è proprio il momento in cui la terra ti cede sotto i piedi. Perché la malvagità e il sadismo di Marco gli avevano fatto tirare troppo la corda in quell’ultimo affondo.
Fu, paradossalmente, solo una parola pronunciata da Marco a cambiare le sorti di quel combattimento interiore: “Egoista”.
Giuseppe accettava “ostinato”, “falso amico”, addirittura “pisciasotto”. Potevano essere una buona rappresentazione della realtà di quella sera. Almeno per persone che non lo conoscevano fino in fondo. Ma “egoista” no. Lui non era un egoista. Tutto quello che stava accadendo, poteva esserne anche lui la causa.
Ma non perché fosse egoista.
E qui, Giuseppe, rimbalzò di colpo sulla strada giusta, inaspettatamente per tutti.
Lui non era un egoista. Tutto quello che stava accadendo accadeva perché aveva sbagliato a rivolgermi per quella frazione di secondo lo sguardo. Stava accadendo perché era stato un idiota. E stava accadendo perché non voleva mettere in pericolo persone innocenti come Vito e Nicola. E stava accadendo per mantenere fede alla promessa fatta a me riguardo a Maria. E stava accadendo perché, almeno in parte, ce l’eravamo cercata. Stava accadendo per tutte quelle ragioni. Ma nessuno poteva permettersi di dire che stava accadendo perché lui era un egoista.
L’unica cosa che fece, in quegli ultimi secondi, allora, fu stringere i denti e tapparsi la bocca. E sopportare. Sopportare per un semplice motivo. Sapeva che io mi fidavo di lui. Gli avevo confidato un segreto. Parte di quel segreto, lui non era riuscito a mantenerlo tale. Lui mi aveva, forse, deluso. Ma certamente non mi avrebbe tradito mai. Così, l’uomo che stava crescendo in lui, la persona adulta che aveva incominciato ad essere in quell’estate, straordinariamente molto di più di pochi giorni prima, non avrebbe mai permesso a niente e nessuno di strappargli il resto della storia. Neanche con la forza. E le minacce. O le intimidazioni. E la violenza. E lo disse. Lo disse con tutte le sue forze. Urlandolo.
“Non tradirò mai l’amicizia di Simone. Non lo farò mai!”.
E quella frase solo un sordo non l’avrebbe sentita. L’importante era che io e Michele la sentimmo, la udimmo perfettamente. E diede a tutti e noi tre tanta di quella forza da continuare a subire qualunque cosa, pur di non cedere a quel ricatto, a quelle torture, fisiche o psicologiche. Solo in quel momento, Marco lo capì. Non arrivando neanche lontanamente a capire quello che era realmente successo. Capì solo che ancora non era riuscito a raggiungere il suo obiettivo, anche contro quel bambino, come lo considerava ancora. Disse ai suoi di fermarsi. Immediatamente i colpi cessarono.
Ma non l’interrogatorio. Avrebbe tentato con la soluzione estrema. Sperando in quella. Fece anche togliere lo scotch a me e Michele. Michele, per tutta risposta sputò addosso ad Amaraldo, che lo colpì con un calcio nel fianco. Contorcendosi ancora per il dolore promise che l’avrebbe trovato anche in capo al mondo. Amaraldo sorrise.
“Cambiamo gioco! Ma vi avviso che mi sto stancando di giocare. E se mi annoio non va bene!” disse Marco.
Poi i tre puntarono ciascuno la pistola alle nostre teste. Caricandola.
“Per quello che non ha detto finora, Giuseppe meriterebbe una pallottola in fronte! Ma così non parlerebbe più. E saremmo punto e a capo. E avrei una persona in meno con cui divertirmi dopo”
I tre, che avevano preventivamente accordato una strategia del genere, spararono un colpo di fianco a ciascuno dei tre, sbagliando di poco il bersaglio. Un’altra scarica di adrenalina mi fece aumentare ancora di più la tensione. Soprattutto piangevamo, tutti e tre irrefrenabilmente.
“Conterò fino a dieci, dopodiché vi spareremo, cogliendo questa volta il bersaglio, ponendo fine a tutto. Dopo qualche minuto di atroce dolore, naturalmente. Se non parlerete. Se, invece, uno di voi parlerà, dicendomi quel maledetto indirizzo, finirà l’interrogatorio. Uno…” urlò Marco.
Voltai il mio sguardo verso Michele e Giuseppe. La stessa cosa fecero loro due. L’unica cosa che vidi in quegli sguardi fu il desiderio che quelle torture psico-fisiche finissero al più presto, associato però alla ferma convinzione di non dargli alcuna informazione che potesse mettere in pericolo Vito, Nicola e soprattutto Maria.
“Piuttosto muoio!” fu la mia risposta, condivisa con il silenzio da parte degli altri due.
“Due…” “Tre…”
Silenzio.
“Che idioti che siete! Morire pur di non dire una cosa che potrebbe anche non portare da nessuna parte” sgridò Amaraldo.
“Quattro…”
I tre alzarono impercettibilmente il tiro delle loro armi. E presero la mira.
“Cinque…”
Ancora silenzio.
“Invece di spararmi, liberatemi e vediamo chi è più forte! Così ci si comporta da uomini!” urlò Michele.
“E poi dove starebbe il divertimento? Noi vogliamo vedervi soffrire, sennò non c’è alcun motivo di fare tutto questo. Anzi, a noi dispiace seriamente dovervi uccidere. Preferiremmo molto di più che voi parlaste. Così uccideremmo solo Vito e Nicola. E i loro parenti, ovviamente. Ma continueremmo a godere per la fine della vostra amicizia. Perché dopo una azione del genere, sapere che avete lasciato nelle mani dei loro aguzzini degli innocenti, chi avrebbe più il coraggio di guardarvi in faccia? Sei…”
Silenzio. “Sette…”
Silenzio. “Otto…”
“Maria ti amo!” fu l’unica cosa che ebbi il coraggio di dire, di esclamare in quel momento, rilasciando tutti i muscoli sulla sabbia, arreso a quella condanna.
“E chi sarebbe Maria?” chiese Marco.
“È il motivo per cui non ti dico l’indirizzo di Vito e Nicola. È il motivo per cui non te lo dirò mai” risposi, rassegnato a quel destino. Come ultimo regalo per Marco. Come ultima e inutile confessione a quei ragazzi.
“Bene! Allora quasi quasi ti risparmio la vita! Così poi ti vengo a trovare e ti racconto come mi sono divertito con lei!” concluse sorridendo Marco.
Silenzio. “Nove…”
Mi sarebbe dispiaciuto che il numero seguente fosse l’ultimo suono distinguibile che avrei udito prima della mia morte. Questo fu quello che pensai in quel momento, probabilmente in preda ad una disperazione che non mi permetteva di ragionare, di fare più nulla. Rialzai lo sguardo e osservai Marco negli occhi. La stessa cosa fecero anche Giuseppe e Michele con gli altri due. Non avremmo mai abbassato lo sguardo ai nostri nemici, in quel momento. Se avessero voluto sparare, nessuno avrebbe potuto impedirgli di farlo. Ma l’avrebbero fatto a delle persone che dimostravano il coraggio di continuare a guardarli negli occhi. Aspettammo qualche secondo. Adesso, mentre Marco doveva trovare il coraggio di fare quello che aveva promesso, noi tre avevamo, in un ultimo pazzo impeto di coraggio, tutta la voglia di scoprire se Marco avrebbe dato quell’ordine.
Solo qualche secondo. Poi una serie di déjà-vu.
Il fruscio di un oggetto che taglia l’aria, come quello delle canne con cui ci avevano colpiti tante volte, in quella sera.
Il tonfo di un oggetto che colpisce la carne, come quello che avevano fatto, per innumerevoli volte, proprio quelle canne, proprio quella sera.
Uno strepitio, soltanto simile a quello delle canne che colpivano la nostra carne. Ma diverso nel timbro.
Poi le urla. E quelle ce le ricordavamo benissimo, avendole sentite ed emesse fino a pochi minuti prima. Solo che ad urlare non eravamo noi.
E poi ancora. Di nuovo. Fruscio. Tonfo. Strepitio. Urla. Forti. Quasi disumane.
Già dopo la prima serie le pistole erano volate a un metro e mezzo di distanza. I tre aguzzini erano a terra, accovacciati, in preda al dolore di sentire un polso ed una caviglia seriamente contusi. A terra, vicino a ciascuno di loro, due sassi grossi e pesanti. Quasi senza fare neanche caso a noi tre, due ragazzi, passeggiando, passarono in mezzo a noi. Seguiti da un altro, che passò, come quello prima di lui, tra me e Giuseppe. I tre si posizionarono tra noi ed i nostri aguzzini. La vista offuscata dalle lacrime e dalla disperazione non mi faceva distinguere chi fossero quelle tre figure. Una passò a prendere le pistole, le altre due minacciarono gli altri tre che le successive articolazioni a saltare sarebbero state quelle del ginocchio, se si fossero anche solo preparati a muoversi o reagire. Capimmo immediatamente quello che stava accadendo quando udimmo una voce amica che, da dietro le nostre spalle, ci diceva una cosa che avevo già sentito in un’altra occasione, e che, anche in quel caso, aveva rappresentato la fine del pericolo che incombeva su di noi.
“Quante volte ve lo devo dire che stare fuori, di notte, fa male!? E voi mai a darmi retta! Almeno copritevi le spalle, la prossima volta!” disse la voce dietro di noi. Scoppiammo tutti e tre a ridere, sonoramente e di una risata di sfogo della tensione. Era Emanuele. Davanti a lui, con in mano le pistole appena prese e la fionda con cui tenevano sott’occhio i nostri tre nemici, c’erano Francesco, Vito e Nicola.
“Grazie a Dio siete arrivati! Metteteli fuorigioco per qualche minuto! Almeno il tempo di liberarci!” dissi io.
Immediatamente, come se non volessero sentirsi dire altro che quello, Francesco, Vito e Nicola, si voltarono nuovamente verso i tre a terra e, scaricando un po’ la fionda, tutti e tre colpirono e stesero a terra svenuti Amaraldo, Cosimo e Marco. Poi conservarono in tasca le fionde e corsero subito a slegarci. Noi, appena liberati, dopo aver rindossato i costumi, andammo verso le docce per sciacquarci un po’. Tornammo che al nostro posto c’erano i nostri tre nemici, svegli ma doloranti per i colpi di fionda ricevuti.
“Perché gli avete lasciato il costume addosso?” urlò Michele a Emanuele. Che non gli rispose. Ci pensai io a farlo.
“Ci tieni veramente a levarglielo!?”.
“Perché, loro non hanno fatto la stessa cosa con noi, prima?!” chiese nervosamente.
“E tu vorresti essere come loro? Io non ci tengo”
“Però con me l’hai fatto!”
“Si! Ma perché te lo meritavi!” risposi. “E loro si meritano molto più di quello. Ma io non mi abbasso al loro stesso livello ripagandoli con la stessa moneta! E tu?” chiesi, mettendolo a tacere.
Ma non potendolo fermare. Perché la tensione emotiva e lo stress accumulato fino a quel punto non potevano essere fermati, neanche da uno più forte di me. Michele corse verso Amaraldo ed incominciò a prenderlo a calci. Giuseppe lo imitò con Cosimo, ricoprendolo di pugni. Fin quando si stancarono. In tutto quel tempo io rimasi in disparte lasciandoli stare. Sapendo che nessuno sarebbe comunque riuscito a fermarli. E si sfogarono. Su Cosimo e Amaraldo. Nessuno toccò Marco. Sapevano che quello era un affare che toccava a me gestire. Dopo qualche minuto e un sacco di botte i due implorarono pietà e vennero lasciati stare da Michele e Giuseppe. Che si allontanarono per ritrovare la calma. Io li seguii. Emanuele, Vito, Nicola e Francesco, rimasero nella radura. Curiosi di sapere quello che sarebbe accaduto poi.
Giuseppe e Michele non tornarono prima di essere andati a prendere le mazze da baseball. Appena le videro i tre incominciarono a tremare e pregare, implorare, di non fargli del male. Anche io presi la mazza da baseball. E la lanciai addosso a Marco. “Questa è tua!” esclamai. Era proprio la sua. Si ricordò dell’ormai piccolo e quasi invisibile livido che una scatoletta di tonno gli aveva provocato all’addome, solo la settimana precedente. La mazza gli cadde addosso, colpendolo direttamente sull’addome e sul viso, entrambi scoperti e indifesi dalle mani, troppo lontane, legate com’erano ai paletti nel terreno.
“E adesso ci divertiamo!” dissi, avvicinandomi a Marco. Infilai la mano nella tasca del costume dalla quale estrassi le chiavi della macchina. Le lanciai a Giuseppe che, sapendo cosa fare corse via, scomparendo nell’oscurità.
Dopo un minuto dalla spiaggia, giunse di nuovo Giuseppe, con la macchina di Marco. La parcheggiò direttamente nella radura, a pochi metri dagli altri.
“Ora” esordii “Tu sai che non sono una persona violenta. Non lo sono mai stato. Non ti ho quasi mai toccato, neanche con un dito. Ecco. Questo vale con te. Ma non con gli oggetti di tua proprietà”.
Marco sgranò gli occhi, non appena ripresi la sua mazza e, cominciando dagli specchietti, dai finestrini e dai vetri, distrussi ogni centimetro quadrato della carrozzeria di quella macchina nuova. Che certi suoi amici gli avevano comprato per festeggiare la patente, presa la settimana prima. E che Marco aveva festeggiato sequestrando e “divertendosi” a modo suo con Giuseppe, il sabato prima. Dopo un quarto d’ora di mazzate inferte alla macchina, mi lasciai cadere all’indietro, sfinito ma soddisfatto come non ero stato mai da due anni a quella parte. In quel momento, Vito, con i guanti con cui prima aveva afferrato le pistole, prese il resto della refurtiva che avevo portato via dal covo prima dell’arrivo dei carabinieri, e la nascose sotto il sedile del conducente. E mise le pistole nel vano del cruscotto della macchina. Mentre gli altri procedevano con la demolizione della macchina sotto gli occhi impotenti di Marco, mi allontanai per una decina di minuti. Passeggiai un po’ sulla spiaggia, attento a non entrare in contatto con l’acqua salata, perché conciato com’ero il sale era proprio quello che mi mancava per completare la tortura. Prima di tutto ritornai alla bicicletta. Presi il cellulare e chiamai immediatamente Maria. Per rassicurarla che tutto era a posto. Che non c’erano stati problemi e che ci saremmo rivisti il giorno dopo. Non avevo ancora il coraggio di dirle quello che avevo osato dire davanti alla morte, ma sapevo di volerlo fare con tutte le mie forze.
Lasciai la bicicletta e mi diressi nuovamente a piedi verso la radura. Arrivai che tutti e sei si stavano riposando al fresco appoggiati alla macchina, ormai completamente distrutta, che per una settimana era appartenuta al nostro peggior nemico. E pure lui non è che versasse in buone acque.
“Ragazzi” dissi, rivolgendomi a Emanuele, Francesco e i due gemelli “per favore, lasciateci soli con loro. Andate alle biciclette e aspettateci lì. Tra cinque minuti arriviamo!”
I quattro ubbidirono, lasciandoci nuovamente soli con Amaraldo, Cosimo e Marco. Appena li vidi definitivamente allontanarsi, incominciai quella che sapevo sarebbe stata l’ultima azione nei confronti dei tre ragazzi. Quella definitiva. Almeno per Marco ne ero certo.
“Come dicevo prima a Michele, probabilmente meritereste di essere trattati come avete fatto voi. Anzi, ne sono sicuro! Per fortuna vostra, noi non siamo come voi. Solo per una cosa, sono costretto a farvela pagare” dissi rivolgendomi a tutti e tre. Poi concentrai l’attenzione su Marco.
“Anzi, a fartela pagare. Sai che finché non ho visto le foto scattate ad Angelo, non ho capito che eri tu? In questi anni sono stato tantissime volte da solo, in tante occasioni. Avresti potuto trovarmi in qualunque momento. Torturarmi, fare quello che volevi, e nessuno sarebbe mai arrivato alla conclusione che a farlo eri stato tu. Potevi prendertela sin da subito con me. Avresti fatto la cosa migliore. Se rimanevi nascosto mentre Cosimo o Amaraldo mi picchiavano, probabilmente non avrei neanche capito che dietro tutto questo c’eri tu. Sono troppo ingenuo. E comunque mi ero completamente dimenticato di te. Mi avresti fatto soffrire e quasi sicuramente avrei cercato di sopportare in solitudine le cose che mi avreste fatto. Facendo tutto quello che era in mio potere, per non fare entrare in questa storia i miei amici. Invece, siete stati voi a coinvolgerli. Mi hai fatto soffrire, facendo prima di tutto soffrire loro. Facendo soffrire le persone alle quali tengo di più. Inducendo una persona simpatica e a modo come Michele a diventare un bullo ed un violento. Inducendolo a rompere l’amicizia con noi e andarci contro. Ci hai provato anche con Emanuele ma ti è andata male. Poi hai attaccato tutti quanti noi, usando Michele, per due anni. Poi sei riuscito a separarci, ma solo per un anno scolastico. Infine, due settimane fa, quando pensavi di essere riuscito a causarmi la sofferenza maggiore di tutte, quando pensavi di avermi isolato, non hai fatto i conti con un ragazzo che ha tre anni meno di te. Non hai fatto i conti con Giuseppe, che al momento opportuno ha sempre trovato la forza, il coraggio e l’umiltà di parlare. Allora, invece di prendertela con me, picchiarmi, farmi del male, ti sei attaccato ancora ai miei amici. Quando non ti è servito più, forse perché ti eri reso conto che non è mai stato così cattivo come Amaraldo, l’hai preso e hai torturato Michele in modo indescrivibile. E hai dimostrato tutta la tua debolezza, perché Michele, invece di scappare a testa bassa e allontanarsi da tutti, ha mostrato una forza d’animo incredibile, essendo disposto a chiedere scusa a noi, pur di ritornare nostro amico. Così ti sei sentito alle strette ed hai deciso di puntare su Giuseppe, rapendolo, e facendogli del male. E lui, Giuseppe, l’hai addirittura rispedito da me, facendomi capire qualcosa che ormai avevo già capito. Facendomi finalmente sapere che era con me che ce l’avevi. Poi oggi, hai raggiunto il limite. Posso solo lontanamente immaginare il dolore e la solitudine che sei stato capace di fargli provare. La privazione sensoriale e tutta la violenza usata nei nostri confronti, dando la colpa a lui, è stata la tortura peggiore che potevi inventarti. Complimenti. Hai superato te stesso. A parte che pure superandoti non ci hai raggiunto, perché Giuseppe e prima ancora Michele si sono comportati da veri amici. E perché, finora non sei mai stato capace di causarci veramente danni gravi, mentre a noi è bastata un’oretta di lavoro ben organizzato per decimare la tua banda e mandarne in carcere quattro, di tuoi affiliati. Finora tu hai lavorato, hai tramato, solo per il piacere di vederci soffrire. In effetti, la banda, le rapine, la violenza, le minacce, le torture… tutto solo con il preciso obiettivo di far soffrire me. Ecco! È per questo che sto per fare quello che sto per fare. Non per tutto quello che hai fatto a me. Ma per tutto quello che hai fatto a loro e a tutti gli altri che hai sadicamente maltrattato”
Tirai fuori dalla busta tre bottiglie da un litro e mezzo di aranciata. Una la diedi a Giuseppe e una a Michele. La terza la tenni per me. Aprimmo ciascuno la nostra bottiglia.
“Massì! Brindiamo!” fu l’affermazione spavalda di Marco, accompagnata dalle risate degli altri due.
A quel punto nessuno voleva farlo più di me, quindi sorrisi con quel mio sorriso bastardo. In realtà un po’ mi era mancata quell’espressione a metà tra un secchione e un bullo. Anche io, come Marco solo un’oretta prima, mi sdraiai vicino al mio nemico.
“Vedi?! Sbagli nello stile!! Hai fatto un unico grande errore. Te la sei presa con gli amici della persona sbagliata. Della persona che ti conosce meglio di tutti questi tuoi schiavetti tuttofare che ti hanno seguito in questa operazione. E sai come va a finire?” chiesi.
“… E vissero tutti felici e contenti?” rispose Marco, prendendomi ancora in giro.
“No! È che poi ci rimetti tu!” risposi. E al mio segnale i tre vennero ricoperti dalla testa ai piedi di aranciata. Quasi tutto il contenuto della bottiglia. Ne lasciammo solo un po’. Ci eravamo messi d’accordo prima per fare quello. Io gli avevo detto che ne dovevano lasciare un po’ in ciascuna bottiglia, ma né Giuseppe, né Michele avevano, ancora, capito il motivo.
“Bello! Ci battezzi con l’aranciata? Bella tortura!” esclamò Marco scoppiando in una fragorosa risata. Alla quale fece seguito la risata degli altri due.
“Io non ci trovo niente da ridere. Sentite? La serata e calda e tira un po’ di vento dal mare” osservai. Mi inginocchiai e mi fermai con la testa sulla sua, in modo da poter vedere pienamente la sua espressione. Che non avrei mai voluto perdermi.
“E allora?” chiese Marco continuando a ridere. Anche se a questo punto, come se quelle parole avessero lasciato per la prima volta un segno dentro di lui, lentamente finì la risata e non gli venne più da ridere.
“Ti ricordi quel giorno di settembre in prima media? Quando dalla finestra aperta è entrato uno sciame di moscerini e sei quasi svenuto? Ti ricordi che sono stato io ad accompagnarti premurosamente in infermeria, e che, una volta arrivata, tua zia mi ha spiegato che avevi una profonda ed inguaribile paura degli insetti?”
Nessuna risposta. Marco stava capendo. E, sì, decisamente, quella cosa, ora, non lo faceva più ridere.
“Ecco, tra qualche minuto, uno, forse due, o cinque, ma non molto di più, ecco, tra qualche minuto, tutti gli insetti della pineta e della spiaggia, mosche, zanzare, api, vespe, forse anche qualche calabrone, di certo scarafaggi e formiche, si accorgeranno di voi e del golosissimo aroma che emanate. E verranno a trovarvi. Visto che la compagnia sta aumentando, quindi, noi adesso ce ne andiamo!”
Mentre parlavo vidi Marco cambiare espressione lentamente ma inesorabilmente. L’espressione sfacciata e insolente che aveva avuto fino a qualche secondo prima aveva lasciato il posto ad un’espressione triste. Prima. Poi sempre più impaurita ed indifesa. Volevo fargli provare un po’ dei sentimenti che aveva fatto provare a me per due anni e a Giuseppe negli ultimi giorni. e ci stavo riuscendo benissimo. Stavo per alzarmi, poi mi riabbassai all’altezza di una faccia più che pallida di Marco.
“Ah! Per chiarire, se ti vedo anche solo un’altra volta, anche solo per sbaglio, vicino a me, Giuseppe, Michele, Francesco, Emanuele, Vito, Nicola o qualsiasi altro loro conoscente, o vengo a sapere che per te questa storia non è finita, ti prometto che la mazza da baseball non la userò solo sulla macchina, perché ti do tante di quelle botte che se riesci a raccontarlo a qualcuno ti devi considerare fortunato!”
A quel punto mi rialzai per andarmene.
“Non puoi andartene così! Non puoi lasciarmi così! Vi prego! Liberatemi!”
Presi la solita striscia di scotch e chiusi anche quella bocca.
Noi tre ce ne andammo, mentre Amaraldo, Cosimo e Marco, in preda al terrore più completo, continuavano a cercare di urlare. E a divincolarsi. Ma, come stavano constatando in quel momento, quei pioli li avevano piantati veramente bene. Mentre eravamo a metà strada verso le bici, ad un certo punto, Michele si fermò. Prese e, senza dire niente a nessuno, si girò e ritornò verso la radura. Appena si accorsero della sua presenza cercarono di riacquistare una certa dignità. Michele si avvicinò a Marco e, abbassandosi, si avvicinò ancora di più a lui.
“Io, però, non sono come Simone!” e così dicendo tirò fuori il coltellino svizzero dalla tasca.
Si rialzò e in pochi secondi tagliò le gambe dei tre costumi, sfilandoglieli. Prese le aranciate e le finì di versare su quelle parti appena scoperte del loro corpo. Fino all’ultima goccia.
E fu semplicemente il panico. Alla luce della torcia elettrica che si era portato dietro aveva visto che il corpo dei tre ragazzi era già stato raggiunto da qualche zanzara. I tre mugolavano come disperati. Marco aveva veramente paura degli insetti. Neanche lui si ricordava più di quell’avvenimento accaduto anni prima. Della vergognosa figura fatta con me, proprio quando stava nascendo quell’amicizia che poi non sarebbe continuata. Per colpa sua. Percorse in un paio di secondi tutti i sentimenti che aveva fatto provare a Giuseppe pochi minuti prima. Michele stava per andarsene, quando osservò il corpo di Marco. Ad alta voce, in modo che potessero sentirlo anche gli altri due, esclamò “Almeno Giuseppe le ha prese due volte e soffriva per la tortura psicologica quando se l’è fatta addosso. Tu hai fatto prima!”
Ritornò lontano dalle loro urla, arrivando nuovamente da noi due che lo aspettavamo. Io lo osservai. Avevo capito cosa era successo e volevo dire qualcosa a Michele. Questo si fermò, mi ricambiò lo sguardo severo e mi disse una cosa che, per la prima volta in vita mia, riuscì a farmi stare zitto.
“Non farmi la morale, e non dirmi che hai lasciato l’aranciata nelle bottiglie solo per fargliele bere domani mattina, quando li libereranno” disse, andandosene senza neanche aspettare la mia risposta. Seguito da Giuseppe che non se la sentì di dirmi niente. E seguito da me, che in realtà me la ridevo soddisfatto, perché Michele aveva fatto proprio quello che volevo, e se ne era pure accorto.
Giungemmo finalmente alle biciclette e raggiungemmo gli altri. Tutti e quattro gli altri ci guardarono, sapendo che era sicuramente successa qualcosa, se non altro per i lamenti e le urla strozzate che sentivano in lontananza. Nessuno di loro, però, ebbe il coraggio di chiedere che cosa fosse successo. Montammo tutti in bicicletta e, silenziosamente, percorremmo quei quattro chilometri e mezzo per tornare dalla spiaggia a casa. Francesco e Emanuele a casa loro, gli altri ospiti a casa mia per la notte. Arrivammo che era da poco passata l’una. Vito e Nicola apportarono le prime essenziali cure alle nostre ferite e poi se ne andarono, spiegandomi che era perché la madre gli aveva poi vietato di rimanere a casa mia a dormire perché quella mattina erano arrivati in spiaggia e senza dire niente alla zia erano scomparsi per più di un’ora. Io non potei fare altro che accompagnarli all’uscita, solo dopo averli ringraziati ancora per l’intervento coraggioso ed efficace di un’oretta prima. A quel punto Giuseppe e Michele, ciascuno per il suo, vollero chiedermi qualcosa. Il primo fu Giuseppe.
“Ma quando hai incominciato a elaborare il piano?” chiese Giuseppe.
“L’idea mi è venuta sabato notte mentre aspettavamo disperatamente il tuo ritorno. A grandi linee. Poi l’ho affinata nel corso della settimana. L’unica cosa era che non sapevo come fare ad agire indisturbato. E domenica mattina, ti ricordi quando abbiamo fatto quella chiacchierata a quattr’occhi? Ecco in quel momento mi è venuta l’idea della falsa partenza e del ritorno da clandestino!”
“Fortissimo!” esclamò Giuseppe. In qualche tratto del suo modo di agire dimostrava ancora, inevitabilmente, tutti e solo i suoi quindici anni.
Poi fu la volta di Michele.
“Ma adesso che cosa gli succederà?” chiese.
“L’altra mattina, mentre tutti erano al mare, ho preparato la lettera che ho lasciato fuori dal loro covo per i carabinieri. Lettera anonima. Anche perché Dorian, Salvatore, Giovanni e Massimo, non sanno che siamo stati noi a stenderli. Ho preparato anche una lettera, che ho lasciato nella macchina di Marco dopo che Vito vi aveva lasciato le pistole ed il resto della refurtiva. Nella lettera ho descritto per filo e per segno tutto quello che è accaduto in questi ultimi giorni. Marco stesso sa che non può essere così ingenuo da incolpare me di quello che sta passando in queste ore, altrimenti dovrebbe ammettere tutto il resto. E comunque lo farei io. E sa anche che non gli conviene parlare, perché visto quello che ci ha fatto, può finire in galera con l’accusa di abuso di minore. Quindi di lui non sapremo più niente per un bel po’ di tempo!”
“Almeno ammettilo! Perché non hai svuotato completamente le bottiglie di aranciata alla prima passata?” chiese, sempre Michele tutto d’un fiato, sapendo che, da come avevo reagito in spiaggia, non avevo molto piacere a raccontare una cosa del genere. Io, però ci pensai un attimo e poi gli risposi.
“Semplicemente perché nonostante tutta la sofferenza che ha causato a me in questi anni e a Giuseppe in questi giorni, sono convinto del fatto che tu sia di gran lunga la persona che ha sofferto più di ogni altro in tutta questa storia. E che sapevo che anche cercano di fermarti, non ci sarei riuscito fino in fondo. E poi perché se ti conosco bene, tu, quando sei ritornato, avrai sicuramente tenuto a dire che tu non sei me. Ecco! Volevo che capissero fino in fondo quanto possiamo stare bene nella stessa compagnia pur essendo diversi. Che non è necessario conformarsi tutti allo stesso modo di pensare e di comportarsi, per andare d’accordo. Che non è necessario, per andare d’accordo, crearsi un gruppo di amici su misura” fu la mia risposta. Completa e sincera. Michele, come spesso accadeva, non ebbe la forza di reggere il mio sguardo, in quell’istante. E cercò di cambiare discorso.
“Ma sapete che quando l’ho fatto sono stati presi dal panico? Marco se l’è addirittura fatta addosso!” disse con aria gioviale, come per contagiare il sorriso degli altri due. Senza però riuscirci.
Immediatamente il volto di Giuseppe si adombrò. Gli vennero in mente tutte le cose che l’avevano portato, poco più di un’ora prima, ad avere la stessa reazione. Solo in quel momento, sentendo quelle parole, la paura prima e l’esaltazione per la vittoria poi lasciarono il posto all’imbarazzo ed alla vergogna per quello che era successo. Non tanto per essersela fatta addosso, ma per aver pensato, anche solo per pochi secondi, di tradire me e Michele. Scoppiò a piangere e singhiozzare. Io mi accorsi subito della situazione, ma non feci neanche in tempo ad intervenire che, con molta soddisfazione da parte mia, vidi una scena che non vedevo da anni e che non vedevo l’ora di apprezzare nuovamente. Michele scattò in piedi dal suo letto e si diresse immediatamente da Giuseppe.
“Scusami Giuseppe! Non era assolutamente mia intenzione prenderti in giro! Non mi permetterei mai di fare commenti al riguardo! In quest’ultima settimana tu hai sofferto più di tutti noi messi insieme! E quello che ti hanno fatto stasera è stato disumano! Perdonami se quello che ti ho detto ti ha ferito!” disse, preoccupatissimo, commosso e profondamente e seriamente dispiaciuto da quello che aveva provocato. A quel punto mi alzai. E mi avvicinai anche io al letto su cui giaceva Giuseppe. Appoggiai una mano sulla spalla di ciascuno dei miei due amici e gli sorrisi. Giuseppe in quel momento si calmò e ricambiò il sorriso, ancora bagnato dalle lacrime di pochi secondi prima.
“Oggi è stata una giornata che ci porteremo per sempre dentro. Oggi, la scena di queste ultime due estati è cambiata. Definitivamente. Oggi è cambiato tutto! Tutte le prove di quest’anno passato, la violenza, le paure, i litigi, le incomprensioni, addirittura le torture, tutto è finito ora. Possiamo, con la giusta punta di orgoglio, dire che il merito è stato nostro e di Francesco e Emanuele. È vero che nel corso di questi mesi altre persone ci hanno aiutato, per ultimi Vito e Nicola, ma noi, soprattutto noi cinque abbiamo, contro ogni aspettativa, trovato la forza e il coraggio di sistemare le cose. Non ci siamo mai conosciuti così tanto come in queste ultime settimane. E in queste settimane abbiamo tirato fuori il meglio di noi stessi. E ciascuno di noi ha tirato fuori anche le proprie debolezze. Ma sono queste cose che rendono vivi. Sono queste cose che ci rendono uomini. Se siete d’accordo, nessuno al di fuori di quelli che erano presenti questa sera alla radura, deve sapere i particolari di questa storia!” dissi con un atto di fiducia e di controllo che avrei col tempo imparato a coltivare nella mia vita.
La risposta affermativa di entrambi i miei Amici suggellò una volta per tutte quella amicizia e quell’accordo. La mattina seguente anche Emanuele, Francesco, Vito, Nicola e la stessa Maria, per ciò di cui lei era a conoscenza, avrebbero confermato l’accordo.
Nessuno avrebbe più tirato fuori quella storia. Sebbene tutti noi non l’avremmo mai dimenticata.
Quella fu veramente una notte speciale. Una notte in cui accaddero delle cose che non si sarebbero mai più ripetute. Perché quella notte bastò. Bastò a non farle accadere più. Mai più.
 
---O---
 
Passò quell’estate e fu strano accorgersi che quella fu, contemporaneamente, la più bella e la più brutta estate della mia vita. Fortunatamente, dopo quella notte, l’estate più brutta lasciò il posto all’estate più bella. Con l’arrivo del mese di luglio, incominciammo nuovamente ad andare al mare. Anche se i segni delle botte ci misero un po’ ad andarsene, per i primi giorni il mare non lo perdemmo perché andammo nel tratto di costa tra i lidi, costa piuttosto selvaggia e, a quel tempo dell’estate, frequentata ancora da pochissime persone. Praticamente andammo al mare nel tratto di costa più vicino alla famosa radura, ma non ci mettemmo più piede. Solo Giuseppe, una sera che tornammo a casa dal lungomare con tutti gli altri, riaprì un attimo il discorso, solo per dirmi che la notizia dell’arresto di Marco, Cosimo e Amaraldo era saltata all’occhio della cronaca del paese per lo strano ritrovamento effettuato alla spiaggia di Policoro dei tre ragazzi, fisicamente provati e legati, e della loro macchina completamente sfasciata ma con ancora le pistole e il rimanente della refurtiva.
Nessuno ovviamente sapeva nulla, neanche le autorità, su chi era stato a conciarli così. Almeno per quello, Marco non aveva avuto bisogno di qualcuno che gli dicesse di tacere la loro identità. Con tutto quello che ci aveva combinato, se solo avessimo parlato, come minimo avrebbe visto raddoppiarsi gli anni di galera a cui venne condannato.
Quello fu l’anno del mio unico, vero, grande amore. Perché quella ragazza, Maria, qualche anno dopo, quando entrambi avevamo ventidue anni, me la sposai. Quello fu l’anno in cui la compagnia di amici si allargò immensamente, con l’ingresso in quella compagnia di Vito e Nicola, che ebbero un ruolo importante anche dalle vacanze successive, sia da semplici amici che, successivamente, da cognati.
Con l’arrivo del resto della famiglia a Policoro, non dovetti neanche più preoccuparmi della gestione della casa ed ebbi ancora più tempo per divertirmi con i miei amici.
Quell’estate, però, passò anche. E la scuola, prima, e le vacanze dell’anno seguente, poi, fecero diventare i contorni di quella storia sempre più vaghi nella mente mia e degli altri. L’anno seguente, infatti, non andai a Policoro. Era l’anno della mia maggior’età. E fui invitato a passarlo con la famiglia di Maria, lontano da quei posti. In Spagna. L’estate successiva, quella della maturità, io e Maria ce ne andammo da soli in Grecia. Una vacanza all’insegna del divertimento e dell’affetto tra noi due.
Poi si incominciò a lavorare. E vidi, naturalmente, ridursi le vacanze da tre mesi a tre settimane. E per un altro paio di anni non ci andai neanche in vacanza, così impegnato a risparmiare per mettere su famiglia con la mia ragazza, ormai fidanzata. E incredibilmente, la lontananza riuscì a ottenere il risultato che Marco, nella sua malvagità e con la sua violenza non sfiorò neanche. Smettemmo di sentirci. Non lo facemmo apposta. Solo che crescendo, quei mille chilometri stavano sempre di più facendo la differenza. Per non parlare del fatto che ciascuno dei quattro miei amici, non rimase a Policoro. Giuseppe e Francesco si trasferirono a Bari per l’università e poi vi rimasero per lavoro. E lavoravano parecchio. Così smisero addirittura di frequentarsi benché abitassero nella stessa città. Emanuele andò a Potenza a studiare e poi trovò lavoro a Matera. Michele, dal canto suo, si trasferì con la sua famiglia a Roma.
Insomma, al tempo del mio matrimonio, a settembre del 2005, già non ci stavamo più sentendo da tre anni. Ciascuno di noi, però, nel proprio cuore, serbava ancora quella storia, che nessuno mai raccontò ad altri. Per molti altri anni.
Almeno sedici.

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NdA: Fine!! A parte un epilogo ... che uscirà giovedì! assieme, ovviamente, a qualche commentino in più. A presto!
  
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