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Autore: revin    19/12/2016    0 recensioni
La vita da reclusa è molto più dura di quella che Gwen avrebbe potuto immaginare, soprattutto in un penitenziario di massima sicurezza interamente dominato da uomini. Fox River è un inferno al quale sembra impossibile poter sopravvivere. Ma Gwen ha una missione da compiere... la vendetta.
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Michael/Sara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alle 18 e un minuto tutti i detenuti del Braccio A vennero fatti radunare sulla linea gialla di fronte alle celle e contati uno ad uno, prima di essere rispediti ai rispettivi alloggi.

Michael Scofield della cella 40 fu l’unico tra tutti i detenuti che venne raggiunto da una delle guardie e scortato fuori dal Braccio.
Sapevo che il suo ultimo affare irrisolto riguardava Lincoln, ma non avevo la più pallida idea di come avesse intenzione di tirarlo fuori dall’isolamento e farlo arrivare in infermeria.

In attesa dell’ora fatidica, mi ero seduta in terra accanto alle sbarre e avevo lasciato che la mente vagasse tra le flotte di pensieri che turbinavano irrequieti.
Pensavo e ripensavo all’evasione. Alla sua riuscita o al suo fallimento. Bellick e la dottoressa Tancredi ormai conoscevano la verità, un fallimento avrebbe comportato gravi ripercussioni per tutti noi. Ma se invece l’evasione fosse riuscita? Sarei mai riuscita a ricongiungermi a Michael e Lincoln?
I dubbi si rincorrevano nella mia testa, veloci come numeri da bingo.

Per lo più desideravo che tutto filasse liscio e che i miei due amici ottenessero la tanta agognata libertà, ma in certi momenti, ripensando a criminali del calibro di T-Bag e Abruzzi, mi ritrovavo a chiedermi se avessi fatto la scelta giusta nel decidere di aiutare Michael in quell’impresa. E Charles? Era vecchio ed era ferito. Avrei dovuto convincerlo a restare per il suo bene. Stava rischiando la pelle, oltre che di rallentare il resto del gruppo e mandare all’aria l’intero piano calcolato al minuto.
Nessuno poteva sapere come sarebbe finita, cosa avrebbe atteso oltre quelle mura i 9 uomini che tra meno di un’ora avrebbero tentato la fuga.
C’era una sola certezza: conquistata la libertà, non sarebbe stato così facile mantenerla.
La loro non sarebbe più stata una vita, ma un’intera esistenza fatta di diffidenza, sospetto, paura. Sarebbe stato peggio della prigione.

A meno di 5 minuti dall’ora X, Michael venne nuovamente portato in cella, precedendo l’apertura delle porte di uno scarto brevissimo. I detenuti cominciarono a riversarsi fuori e a prepararsi per raggiungere la mensa e andare a cena. Quello sarebbe stato l’ennesimo pasto che avrei saltato.
Sarei corsa su per le scale fino al piano rialzato se non fosse stato per il secondino di guardia poco lontano dalla mia cella. Non potevo rischiare di attirare l’attenzione o farmi vedere accanto alla cella 40 a così breve distanza dall’evasione, altrimenti qualcuno avrebbe potuto ricordarsi di me e collegarmi alla fuga.
Non potevo fare altro che pazientare.
All’interno del Braccio, vedevo fluire la lunga massa indistinta di galeotti verso l’uscita sud e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare, oltre ai minuti preziosi che stavo sprecando e che avrei potuto usare per salutare Michael, era che quell’ultima settimana a Fox River senza i miei amici mi sarebbe parsa un’eternità.

Contai esattamente 11 minuti prima che la guardia si spostasse dalle scale per scegliersi un’altra postazione di controllo. Era proprio quello che stavo aspettando. Appena l’uomo mi diede le spalle, sgusciai come una biscia e percorsi velocemente le scale prima di raggiungere il primo piano. Nella 40 era già stato sistemato il lenzuolo a coprire l’entrata, segno che gli otto galeotti avessero già dato inizio alle danze.
Dopo essermi nuovamente assicurata che nessuno in particolare stesse facendo caso a me, scostai il lenzuolo e m’infilai dentro la cella, rapida e circospetta. Improvvisamente 5 paia di occhi preoccupati si voltarono verso l’entrata, tranquillizzandosi solo dopo essersi assicurati di non essere appena stati scoperti. 
  • Cavolo Gwen, volevi farci morire?  -  borbottò Sucre, ritrovando il consueto colorito in viso.
  • Scusate, non volevo.  -  Sorrisi in direzione dell’uomo più bello e anche lui ricambiò, felice di vedermi.  -  I minuti corrono. A che punto siete?
Nella cella, oltre a Michael e Sucre, anche T-Bag, Tweener e Westmoreland stavano attendendo il proprio turno per infilarsi attraverso il varco dietro al gabinetto, così come immaginavo avessero già fatto anche Abruzzi, C-Note e Sanchez.
Vidi sfilare da sotto il materasso del letto a castello un involucro bianco che Michael consegnò a David, e quest’ultimo seguì l’esempio degli altri, seguendoli lungo la galleria oltre al muro. Poi fu il turno di Charles.
  • E’ stato carino da parte tua passare a salutarci. -  esclamò viscido come sempre T-Bag, avvicinandosi a me mentre aspettava che arrivasse il suo turno. -  Devo proprio dirtelo tesoro, quelle gambe e tutto il resto mi mancheranno da impazzire.
“Ecco una persona di cui certamente non avrei sentito la mancanza”.
 
Decisi di comportarmi bene, d'altronde stavo per dirgli addio una volta per sempre. Se per il resto dei miei giorni fossi stata tanto fortunata da non dover più trovarmelo davanti agli occhi, la mia sarebbe stata di gran lunga una vita migliore.
 
Sorrisi sardonica.  -  Ma guarda, e io che per tutto questo tempo ho dato per scontato che apprezzassi tutt’altro tipo di gambe.

Sbuffai quando lo vidi avvicinarsi a me con fare intimo. Di T-Bag non c’era da fidarsi neanche in prossimità delle ultime battute. 
  • Sparisci da qui o giuro che una ginocchiata tra le palle non te la toglie nessuno, e poi voglio proprio vedere come farai ad oltrepassare il muro e correre fuori. 
Ignorando la minaccia intrinseca, mi appoggiò un braccio intorno alle spalle.  -  Oh piccola, a volte sai essere così scurrile. Sono sicuro che ci rivedremo là fuori.
  • Personalmente pregherò perché tu venga preso e rispedito nuovamente in cella. Gli psicopatici stupratori solitamente durano poco nel mondo esterno. Fammi solo una cortesia, prova a non farti prendere nei prossimi 7 giorni. Per il bene della mia salute mentale vorrei non dover rivedere la tua brutta faccia, Theodore!
Il pervertito si stava preparando a controbattere, ma Michael lo bloccò in tempo, mettendogli tra le mani un involucro di stoffa bianca, - probabilmente la tuta bianca che avrebbero dovuto indossare al reparto psichiatrico per confondersi insieme agli altri detenuti e passare inosservati - prima di spingerlo lontano da me, verso il passaggio.
Era arrivato il momento tanto temuto, il momento dei saluti.
  • E così ci siamo.  -  iniziai, a corto di frasi ad effetto.
  • Si, ci siamo.
Michael sembrava amareggiato tanto quanto lo ero io. Era difficile separarsi, soprattutto dopo aver scoperto ciò che ci univa.
  • Sei riuscito a risolvere la faccenda di Lincoln?
Annuì.  -  Dovrebbe già trovarsi in infermeria.
  • Avrei voluto salutarlo.  -  dissi sincera.
  • Lo avrebbe voluto anche lui.
Nel frattempo era arrivato anche il turno di Fernando che mi salutò con un ultimo abbraccio.
  • Va a riconquistare la tua bella.  -  gli augurai.
  • Lo farò.  -  rispose, prima di raggiungere gli altri dall’altra parte.
Infondo Sucre si era dimostrato essere un bravo ragazzo. Auguravo anche a lui di riuscire nell’evasione e trovare la felicità. Doveva essere un ragazzo davvero molto innamorato se aveva rischiato tanto e deciso di evadere a soli 16 mesi dalla sua scarcerazione. Lo ammiravo molto per il suo coraggio.
Rimasti ormai gli ultimi all’interno della cella 40, io e Michael ci scambiammo una lunga occhiata significativa tenendoci per mano.
  • Dai, non perdere tempo. Ogni minuto è prezioso, quindi vai e sta attento.  -  gli dissi con la morte nel cuore.
  • Sta attenta anche tu.
  • Certo. Forza, non fare aspettare Lincoln.
Lo strinsi a me come se fosse l’ultima cosa importante che mi restasse al mondo, come se in quell’abbraccio potessi trattenere una parte di lui con me.
  • Spiagge bianche e palme a perdita d’occhio, ricordatelo.  -  Era il suo modo per ricordarmi che quello non era un addio.
  • Ci rivediamo a Panama, galeotto.
Completati i saluti, anche il ragazzo si inabissò nel buio delle gallerie insieme ai suoi compagni, e quando il gabinetto venne nuovamente risistemato al suo posto, non mi restò nient’altro che tornare di sotto, aspettare e pregare che tutto andasse per il verso giusto.
Per tutta la durata della pausa e dopo, alla successiva chiusura delle celle, mi sembrò di rivivere nuovamente quella sensazione di angoscia mista ad ansia e paura che avevo provato la prima volta che avevo messo piede a Fox River. Rinchiusa tra quelle quattro mura, sola, in mezzo alla peggior specie di criminali esistenti al mondo, mi ero sentita come un pesce fuor d’acqua e avevo finito per raggomitolarmi come un riccio impaurito.
Anche questa volta avevo paura, una paura diversa che non riguardava più me, bensì Michael e Lincoln.
Potevo pregare per loro, potevo desiderare che Lincoln riconquistasse la sua libertà e riabbracciasse suo figlio o che Charles riuscisse a stringere i denti e scavalcare il muro insieme agli altri o che Fernando riuscisse a riconquistare l’amore della sua vita.
Potevo e volevo credere che un giorno io e Michael avremmo avuto il nostro lieto fine, ma in ogni caso io non sarei stata con loro ad assicurarmi che le mie preghiere si avverassero. Non questa volta.

Avevo seguito un percorso parallelo con un gruppo di galeotti male assortiti e inevitabilmente avevo conosciuto più a fondo le loro storie. Avevo condiviso il loro segreto e mi ero lasciata coinvolgere, rischiando di mettere a repentaglio la mia stessa libertà.
Eppure quella sera le nostre strade si dividevano.
Erano da poco passate le 20 quando sentii scattare l’allarme. Nel lasso di un battito di ciglia, Fox River si trasformò in un inferno. Le guardie vennero radunate e armate fino ai denti alla notizia che nel carcere fosse appena entrato in atto un tentativo di evasione da parte di un gruppo di detenuti.
Vidi secondini correre da una parte all’altra e gridare ordini a destra e a manca, mentre i prigionieri chiusi ancora nelle loro celle, gridavano impazziti. L’allarme aveva inevitabilmente fomentato gli inquilini dell’intero Braccio. Ricordavo che una situazione molto simile si era verificata anche durante la rivolta esplosa la settimana dopo il mio arrivo. Anche il quell’occasione era esploso il caos generale.

Ad un certo punto, i detenuti diedero il via ad un vero e proprio circo, lanciando dalle celle di tutto: carta, vestiti, rotoli di carta igienica. Sentivo le loro urla e il costante frastuono provocato dallo sbattere di oggetti metallici, tazze di latta, solo per il puro piacere di fare rumore e tifare per gli ignoti compagni che avevano avuto il coraggio di fare ciò che a loro non era stato concesso.
Per ore le urla e i frastuoni invasero il Braccio A, e c’era da scommettere che anche nel resto del penitenziario fosse esploso il pandemonio.
Le guardie perlustrarono l’intera struttura. Vennero messe a ferro e fuoco le singole celle dei presunti evasi, scoperto il passaggio nascosto dietro il gabinetto della 40. Ricomparve sulla scena anche il povero capitano Bellick, trovato imbavagliato e legato come un salame nel fosso scavato proprio sotto la stanzetta delle guardie, ma del gruppo di uomini che aveva tentato la fuga non si seppe più nulla neanche a notte inoltrata, quando il caos si era ormai affievolito.

L’evasione era riuscita. In giro non si videro più molte guardie a curarsi dei detenuti all’interno delle celle e nessuno passò come di consueto per la ronda notturna, segno che si fossero già riversati fuori dal penitenziario per dare inizio alla caccia.
Nel mio piccolo microcosmo, chiusa nella totale oscurità della notte, immaginai amici e nemici là fuori, correre a perdifiato nel mondo esterno con il battito ultraccelerato e l’adrenalina a mille.
 
“Michael, Lincoln… adesso è tutto nelle vostre mani”.
   
 
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