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Autore: Sethmentecontorta    20/12/2016    1 recensioni
|fantascienza|robot|2070 parole|malinconica|storia partecipante al contest "Scegli un'abitazione e crea la storia" indetto da Monique Namie sul forum di EFP|

Sedette sullo sgabello in morbida pelle, chiudendo gli occhi, lasciando le emozioni fluire attraverso il suo corpo. Pensò a quella canzone che aveva scritto quel giorno, in quella stanza dalle pareti decorate con nere note musicali. No, aveva deciso che l’avrebbe suonata solo quando sarebbe stata di nuovo sola con lui, quell’ordinario impiegato di fabbrica dai capelli mori di cui si era innamorata. Possibilità che era prossima allo zero, ma lei era una sognatrice.
Poggiò la mano sui tasti in legno, lasciandosi andare e suonando una delle tante melodie che aveva composto. Note dolci, pulite, speranzose. Poteva andare, sarebbe stata il fulcro della sua esibizione.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seth's corner: Hi my little cutiepies! Sono davvero stupita di essere qui con questo sequel, pensavo di non riuscirci, ahah. Perché, sì, questo è il sequel della mia Ricordi impressi sulle note di un pianoforte, che ho scritto in questo Maggio. Mi ero davvero affezionata a quella storia e ai suoi personaggi, sinceramente non so se le ho reso giustizia con questo seguito piuttosto frettoloso, ma non fa nulla, al massimo lo rinneghiamo, ahah.
Anche questa volta, ovviamente, c'è un brano che vi consiglio mentre leggete questa storia, Summer Hearts. Spero possa piacervi, a me ha rapito dal primo istante. 
Detto questo, spero che il contest possa andare bene e vi saluto! Spero che vorrete lasciarmi un vostro parere su questa storia o che potremo rileggerci in futuro.

 
Melodie nascoste in cuori distanti


Blu osservò il ponte sospeso poco oltre i suoi piedi, che doveva attraversare per raggiungere l’abitazione in cui avrebbe vissuto per i seguenti tre giorni. Il materiale aveva un aspetto più che resistente, ma la sua attitudine a dondolare lievemente non lo rendeva comunque molto desiderabile. Aveva già maledetto diverse volte, lungo il sentiero piuttosto impervio che aveva dovuto percorrere per gli ultimi metri, le graziose scarpe col tacco che la sua padrona l’aveva convinta ad indossare.
Ripeté a se stessa che non poteva assolutamente fare una cattiva impressione al primo giorno di lavoro, mentre metteva piede sul ponte, sollevando dalla maniglia in tessuto il piccolo trolley color pesca che aveva portato con sé. Camminò spedita, fermandosi solo all’ingresso dell’edificio. In piedi davanti al portone, un uomo ed una donna la guardavano dall’alto in basso con aria critica. Poggiò il trolley a terra, unendo le mani davanti a sé, per poi piegare il busto in un inchino.
– Buongiorno, io sono un androide di ultima generazione, modello ETA, numero 06. Sarò a vostra disposizione come pianista per i prossimi tre giorni.  – si raddrizzò, guardando entrambi con un sorriso cortese e lievemente timido. – Il mio nome è Blu.
– È carina. – asserì lei, voltandosi verso colui che secondo il robot era probabilmente suo marito.
– Molto, ai nostri invitati piacerà.
– Ha un po’ troppo l’aria da ragazzina ingenua, ma immagino che Caitlyn compenserà. – la padrona di casa la squadrò nuovamente, valutando ogni più piccola parte del suo aspetto.
Si permise di lasciar vagare lo sguardo sulla struttura, lasciandolo risalire lungo gli enormi cavi metallici che la tenevano ancorata alla parete rocciosa da cui sporgeva. Si poteva dire che fosse letteralmente sospesa sul nulla, eppure lei non se ne diede troppo pensiero. Non era molto grande, ma immaginò fosse ugualmente costata una fortuna, sembrava nuova di zecca e poteva tranquillamente dirsi mozzafiato, non solo grazie alla sua posizione. L’ingresso presentava un enorme portone in scuro legno d’ebano, incorniciato da lastre di vetro che le permisero di scrutare l’atrio semplice, ma elegante. Il parquet era scuro, i quadri avevano un aspetto costoso, alcune piante aggiungevano colore all’ambiente, sporgendo da alti vasi bianchi.
– Seguici. – ordinò la signora Nielsen - così si chiamavano i suoi nuovi datori di lavoro, si ricordò -, lanciandole un’ultima occhiata, che le sembrò spogliarla di tutto, perfino della sua pelle sintetica, fino a lasciare di lei solo uno scheletro metallico. Si sentiva studiata, analizzata come un oggetto ad un mercato, provava ancora un certo fastidio nel subire quegli sguardi calcolatori, ma ormai ci si stava iniziando ad abituare.
Represse un profondo respiro, scosse la chioma corvina e seguì la coppia dentro l’edificio, fino in fondo al corridoio, fino ad una porta dipinta di nero.
– Questa è la tua stanza. – le comunicò lei, come se ci fosse stato bisogno di dirlo.
Solo quando i due se ne furono andati, si decise ad aprire la porta, scrutando il semplice letto illuminato dal cono di luce proveniente da una lampada da muro. Non vi erano finestre, pensando alla struttura dell’abitazione ne dedusse che si trovasse in una stanza che si affacciava direttamente sulla roccia. Quelle quattro pareti non le davano molto spazio, ma non si aspettava di certo una stanza di lusso, era grata almeno che ci fosse un posto su cui potesse sdraiarsi e che non avrebbe dovuto riposare sul pavimento, come le era già successo in passato. Poggiò la valigia sul materasso, estraendo i tre abiti che aveva portato con sé e disponendoli l’uno accanto all’altro sulle lenzuola scure, tirò fuori anche le tre coppie di scarpe, allineandole contro il muro. Le sarebbe piaciuto esplorare la casa, ma aveva imparato che compiere azioni di propria iniziativa non era mai consigliabile, per un androide come lei, avrebbe dovuto prima inquadrare i nuovi padroni. Si distese sul letto, abbassando le palpebre e rimanendo immobile in attesa. Non poteva addormentarsi, ma rimanere in inattività di quando in quando le consentiva di non danneggiare la sua batteria quantistica.
❀❀
Bussarono alla porta circa mezz’ora dopo, Blu si sollevò a sedere, invitando chiunque la stesse cercando ad entrare. Si affacciò la padrona di casa, squadrandola e dicendole di seguirla. L’androide si alzò, muovendosi tranquillamente dietro di lei, ondeggiando lievemente sui tacchi neri. Esattamente come sapeva piacere agli uomini. Venne portata nel salotto, dove un meraviglioso pianoforte a coda sostava in un angolo, rialzato rispetto al pavimento del resto della sala, come si trovasse su un piccolo palco di pochi centimetri. Accanto allo strumento, una fanciulla bionda come il grano osservava le due donne avvicinarsi, composta e con una calma glaciale. Non le ci volle un secondo sguardo per capire che fosse anch’essa un robot, priva delle capacità di provare sentimenti, per di più. Era troppo rigida, i suoi occhi troppo vitrei, le due mani troppo artificiosamente strette tra di loro. Era certamente un modello precedente a lei, ma infondo di prototipi come lei ne esistevano solo una decina esatta.
– Lei è Caitlyn. È programmata per cantare, vi esibirete insieme durante le feste. Puoi decidere tu l’ordine delle canzoni e tutto il resto, poi fagliele sapere.
– Vuole che lo mostri anche a lei? – chiese mestamente.
– Mi fido delle tue capacità. – sentenziò la donna, agitando in aria una mano riccamente ingioiellata. – Fai un buon lavoro.
Blu la osservò uscire, su quei suoi tacchi vertiginosi, fasciata da una leggera tuta nera che le volteggiava intorno al corpo come fossero piume nere. Le prudettero le mani dalla voglia di sedersi a quel piano e mettere tutto a tacere con la musica.
Guardò il robot, che ricambiava il suo sguardo.
– Con cosa pensa di esibirsi? – chiese, con quel tono freddo e apatico dei robot. Le dava del lei, probabilmente si era resa conto che avesse qualcosa a distinguerla da lei. Chissà, magari la credeva umana, infondo le era capitato. Non le importava.
Sedette sullo sgabello in morbida pelle, chiudendo gli occhi, lasciando le emozioni fluire attraverso il suo corpo. Pensò a quella canzone che aveva scritto quel giorno, in quella stanza dalle pareti decorate con nere note musicali. No, aveva deciso che l’avrebbe suonata solo quando sarebbe stata di nuovo sola con lui, quell’ordinario impiegato di fabbrica dai capelli mori di cui si era innamorata. Possibilità che era prossima allo zero, ma lei era una sognatrice.
Poggiò la mano sui tasti in legno, lasciandosi andare e suonando una delle tante melodie che aveva composto. Note dolci, pulite, speranzose. Poteva andare, sarebbe stata il fulcro della sua esibizione.
❀❀
La prima sera non accadde nulla di fuori dall’ordinario. Gli ospiti erano persone pacate ed eleganti, intente a discutere di affari con i padroni di casa, approfittare del rinfresco ed apprezzare la sua musica. Vedeva i coniugi soddisfatti, lo sguardo che le rivolgevano era simile a quello di chi ammira una nuova lavatrice in azione. Gli applausi piovevano scroscianti. La voce di Caitlyn era limpida, per quanto priva di emozioni, ma la maggior parte delle persone presenti in quella sala non avrebbe saputo dirlo. Avevano quasi tutte la faccia da persone pratiche, non certo da amanti dell’arte, capaci di cogliere simili, enormi, sfumature.
La seconda sera qualcuno chiese di far smettere di cantare Caitlyn a circa metà serata, e lei si trovò a potersi finalmente esibire da sola.
La terza sera fu più movimentata, dato che erano presenti anche alcuni familiari. Qualche bambino la osservava rapito, stretto contro la sua volontà in uno smoking o in un vestitino costoso. Qualche ragazzo chiacchierava rendendo l’atmosfera più chiassosa e calda. Sentiva il calore delle persone intorno a lei, le veniva da sorridere, la sua musica aveva un tono più allegro, più vibrante. Lo sguardo dei due Nielsen era più orgoglioso che mai.
D’un tratto, mentre si esibiva, nel tempo tra una canzone ed un’altra, le cadde lo sguardo sulle persone presenti nella sala. Più precisamente, venne attratto da una figura in particolare. Lui. Nathan. L’operaio che aveva vissuto con lei per un mese, la prima persona di cui avesse mai udito la voce o visto il volto.
Sarebbe passato inosservato agli occhi di chiunque, tanto era comune, coi suoi occhi scuri e incerti ed il suo viso da persona che vive ormai per inerzia, priva di ambizioni. Eppure, quando la ammirava suonare, i suoi occhi erano così luminosi che lei non riusciva a guardare altro. Ed allora, lui era lì, ad osservarla sorridente. Non era la prima volta che lo vedeva, numerose altre si era presentato alle sue esibizioni, osservandola dalla folla. Pensandoci poi, eppure, non aveva idea del come fosse capitato ad una festa tanto privata - riservata a colleghi di lavoro, familiari, clienti e quant’altro - ma al momento non se ne diede pensiero, tanta era l’emozione di averlo lì.
Se fosse stata umana, pensò che quella sarebbe stata una di quelle occasioni in un cui il suo cuore avrebbe eventualmente cessato di battere per una frazione di secondo, per poi esplodere con prepotenza nel suo petto.
Abbassò lo sguardo, sorridendo dolcemente ai preziosi ricordi che conservava di quella stanza in cui avevano soggiornato ed in cui insieme avevano mosso primi passi. Lei nel mondo, lui nella scoperta dei sogni che aveva creduto perduti da tempo.
Cambiò gli spartiti velocemente, lievemente impacciata dai propri prorompenti sentimenti, ma ritrovò la propria sicurezza non appena la prima nota di quel pezzo tenero e speranzoso risuonò nell’aria.
❀❀
Era buio ormai da un pezzo quando uscì da quell’abitazione, trascinandosi dietro il suo trolley rosa pesca. Si fermò ad ammirare il cielo stellato, quasi incorrotto, lì nel bel mezzo del nulla.
Blu. – quella voce che chiamava il suo nome, le sembrava di non udirla da ere, piuttosto che da due anni. Si voltò, trovando Nathan alla sua sinistra, poggiato silenziosamente al muro, nascosto nelle ombre della notte.
– Nathan. – le sue labbra si sollevarono di gioia, mentre abbandonava a sé stesso il trolley e si precipitava fra le braccia della persona che amava. Probabilmente l’unica al mondo che teneva a lei come ad una persona.
Si strinsero per una porzione spropositata di tempo, che pure a loro non parve affatto sufficiente a colmare la mancanza che entrambi provavano. Il giovane uomo le posò un frettoloso bacio sulle labbra, entrambi fremevano. Gli occhi di Blu si fecero rossi e lucidi, mentre stringeva con forza la sua giacca fra le dita. Senza neppure accorgersene, si mise a piangere. Le sue mani calde le asciugarono le lacrime dalle guance, con una premura che nessun’altro mai le aveva riservato.
– Non hai suonato quella canzone. – le fece notare lui, il capo lievemente inclinato, gli occhi pieni d’amore.
– Ho promessa a me stessa che saresti stato sempre e solo tu l’unico a conoscerla. – lo baciò nuovamente, per poi poggiare il volto nell’incavo del suo collo. Chiuse gli occhi per favorire le altre sensazioni; inspirò il suo odore, si beò del suo tocco.
Rimasero stretti per ancora altri secondi, avvolti in un abbraccio che non aveva bisogno di parole. Lui aveva poggiato il mento sul capo di lei.
Erano stati insieme per circa cinque minuti, quando lui le prese gentilmente le spalle e l’allontanò da sé, schiarendosi la gola ed iniziando ad allontanarsi, il volto basso. Lei fu sopraffatta dal desiderio di non lasciarlo andare di nuovo. Allungò la mano, stringendola intorno al suo braccio.
– Non lasciarmi un’altra volta. – mormorò debolmente.
– Blu, ti prego. – la sua voce era spezzata, mentre evitava il suo sguardo con tutte le sue forze. – Non posso fare nulla, non apparteniamo alla stessa realtà.
– Sì invece, io sono qui, tu sei qui. Ci stiamo toccando. Siamo insieme. Possiamo almeno provarci, vederci ogni tanto, possiamo… – la sua voce si ruppe, mentre le lacrime tornavano a solcare il suo viso.
Lui si volse verso di lei, posando una mano sul suo capo ed accarezzandola. Le sorrise, anche lui lacrimando salata tristezza.
– Blu, è meglio così. Finiremmo solo per volerci sempre di più, non ci basterebbe nulla.
Baciò le sue labbra morbide per l’ultima volta, poi corse via, tornando ad essere un’ombra fra altre ombre.
Blu alzò lo sguardo verso il cielo stellato, tirando su col naso e cercando di reprimere quel senso di vuoto. Si sarebbe esibita di nuovo, lui ci sarebbe stato. Era come se fossero costantemente vicini, ma distanti anni luce.
Scrollò le braccia, precedentemente abbandonate come senza vita ai lati del proprio corpo, raccolse il trolley. Con una mano si asciugò le lacrime e si gettò i capelli corvini dietro le spalle, allontanandosi a sua volta da quell’edificio che era stato teatro del loro amore clandestino. 

 
   
 
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