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Autore: Justcallmemiia    21/12/2016    1 recensioni
Hazel Grace Lancaster e Augustus Waters sono su un aereo per il ritorno a casa, dopo un viaggio ad Amsterdam.
Esso si rivela un'esperienza traumatica, quando l'aereo si schianta al suolo.
Subito dopo l'incidente, Hazel, sola, incontra Emily, con la quale stringe un rapporto di amicizia.
Tre ragazzi, un aereo in frantumi e una selva infinita.
Da qui inizia la lotta per la sopravvivenza.
Questa storia è basata sul libro/film "Colpa delle stelle".
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Augustus 'Gus' Waters, Hazel Grace Lancaster, Nuovo personaggio
Note: AU, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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EMILY - Casa di cura San Michele 

 

Hazel Grace Lancaster.

Augustus Waters.

 

Due nomi. Due storie. Due destini incrociati. Un amore infinito.

 

Per settimane, mesi, entrambi non hanno fatto altro che risuonare nella mia testa come un tornado, un'ossessione.

 

Più cercavo di scacciarli dalla mia mente, meno loro se ne andavano. 

 

Ricordo i sorrisi, le chiacchierate, le lacrime, tante lacrime, le urla di dolore, le loro coccole piene di speranza, nonostante tutto.

 

Ricordo tutto, tutto alla perfezione.

 

Oh, quanto vorrei poter annullare la mente, i ricordi, le esperienze vissute.

 

Eppure, a quanto pare, qualcuno lassù ha deciso che la mia vita dovesse subire una svolta, quel qualcosa che rende una monotona routine quotidiana, in un vero e proprio film dell'orrore. 

 

"Emily, ti prego, cerca di ricordare.." pronunciò assai irritata la mia neuropsichiatra. 

 

"Riesci a ricordare com'è iniziato tutto? Hai notato qualcosa che non andava? È importante per noi saperlo." Continuò.

 

Tutti i giorni la stessa storia, la stessa tortura, le stesse domande inutili alle quali non verrà mai data una risposta.

 

Erano passati già tre mesi.

 

Tre lunghi mesi, 12 settimane o novanta giorni da quando eravamo stati ritrovati.

 

Nessuno era ancora riuscito a farmi parlare, nessuno.

 

Nè i medici dell'ospedale, nè i vari psichiatri e psicologi della comunità in cui mi hanno ricoverata, neppure le mie più care amiche o gli unici parenti lontani che mi erano rimasti.

 

Era da ben tre mesi che dalle mie labbra non usciva una parola.

L'ultima che pronunciai fu "Siamo qui", prima di cadere a terra in un sonno profondo, priva di sensi.

 

Quando mi risvegliai erano passati quattro giorni mi dissero.

 

Ero sola, in un letto di ospedale, al braccio avevo attaccata una flebo, sul petto varie piastrine, che registravano ogni singolo battito del mio piccolo cuore e nelle narici due piccoli tubi, nei quali veniva mandato l'ossigeno necessario per aiutarmi a respirare. 

 

Anche Hazel Grace ce li aveva.

 

Lei li aveva sempre, non poteva farne a meno, i suoi polmoni erano troppo malati per lavorare da soli.

 

La prima volta, quando la vidi, non me ne resi conto subito.

 

Ero al settimo cielo, disperata, ma sollevata dall'aver trovato qualche altra anima viva che non fosse della famiglia degli insetti o dei predatori.

 

Poi però li notai, notai i tubi nel naso, il carretto che era costretta a trascinarsi ovunque lei volesse andare e la sua paura, il suo terrore. 

 

Eravamo spaventate, sotto shock, era successo tutto in un attimo, tutto così in fretta, non c'era stato nemmeno il tempo di razionalizzare ciò che stava succedendo.

 

Purtroppo ricordo tutto alla perfezione, i rumori, le urla, la puzza insopportabile, il dolore fisico, tutto. 

Perché avevo deciso di indire uno sciopero della parola? Non lo so.

 

Non vi era una ragione precisa, non sapevo perché, non appena riaprii gli occhi e potei osservare di nuovo la luce del sole, segno del fatto che ce l'avevo fatta, che ero sopravvissuta, decisi di smettere di concretizzare i miei pensieri con le parole.

 

Forse era perché, infondo, non potevo accettare tutto ciò che mi accadde e lasciarlo lì, solo nella mia testa, era un modo per illudermi che magari non era stato altro che un brutto incubo.

 

"Andiamo Emily, sai che è importante." 

 

Importante? Sapevo bene qual'era l'unica cosa importante per loro.

 

Continuavano a ripetermi che erano preoccupati per la mia salute, che dovevano aiutarmi a superare questo shock o che se ne avessi parlato mi sarei sentita meglio. 

 

Bugie, tutte bugie.

 

Superare lo shock? No, sapevo bene che non lo avrei mai superato. 

 

Nemmeno la fata turchina con la bacchetta magica avrebbe potuto rimuovere dalla mia testa tutte le drammatiche immagini che si sono stampate davanti ai miei occhi o le urla doloranti delle persone prima di morire.

 

L'unica cosa che a loro interessava erano le informazioni. 

 

Se avessi parlato, sarebbero cominciate le interviste, le pressioni, le testimonianze. 

 

Non ero altro che uno strumento utile per i processi, per capire cosa successe davvero quella sera.

 

Rimasi in silenzio, anche quella volta, dalle mie labbra non uscì nulla, se non un leggero colpo di tosse.

 

I minuti passavano, erano ormai settanta minuti da quando era cominciata l'ennesima tortura.

 

Ero seduta nella solita stanza, solite pareti color sabbia, ornate da dipinti bizzarri qua e la, solite poltrone in pelle bianco panna, solito profumo di incenso emanato da tre piccoli bastoncini situati nell'angolo della scrivania della psichiatra.

 

Tutti i giorni la stessa storia. 

 

Tutti i giorni i novanta minuti obbligatori, nei quali, a turno, i vari neuropsichiatri cercavano di estirpare da dentro di me qualche utile informazione.

 

Maledico il giorno in cui decisi di fare quel viaggio.

 

Quanto avevo insistito con i miei genitori, quanto, li avevo pressati per un anno intero finché alla fine si erano convinti che un'esperienza di viaggio in famiglia poteva essere alquanto rilassante e indimenticabile.

 

Dio, se avessi saputo.

 

Il senso di colpa mi divora, giorno e notte.

 

Ho ucciso i miei genitori, la mia sorellina, tutto per uno stupido capriccio.

 

Anche loro, Hazel e Augustus, come me, erano rimasti da soli. 

 

Il primo giorno, non appena incontrai Hazel, era sola, spaventata, debilitata dalla sua malattia e priva di speranza.

 

Lo ero anche io, quando sentii lo schianto, il dolore nella pelle, il buio totale, pensavo di essere morta, infondo volevo essere morta. 

 

Mi voltai, ancora legata al sedile con la cintura di sicurezza, schiacciata dalle lamiere accartocciate e da diversi oggetti accatastati sulle mie gambe, il sedile vicino al mio era vuoto, non c'era più nessuno.

 

Guardai più attentamente, tastai con la mano e la sentii. Era li, bagnata dal suo sangue, la testa china e il corpo immobile.

 

Capii subito, non dubitai nemmeno un secondo, non mi illusi che fosse ancora viva.

 

Vidi un buco, grande quasi come una pallina da ping-pong sul collo, esattamente all'altezza della carotide.

 

Ricordo questo, l'ultima immagine che ho di mia madre.

 

Mio padre ed Emma, mia sorella, non li rividi mai più. 

 

"Emily, te lo chiedo per l'ultima volta... Mi racconti quello che è successo?" Disse avariata.

 

Notavo la sua freddezza, la sua severità e ciò non faceva altro che farmi chiudere in me stessa, sempre più convinta che lei come nessun altro non era degna di udire nemmeno una sillaba da me.

 

Volevo dimenticare, dimenticare tutto, pigiare un tasto reset nel cervello per mandare tutti i ricordi nell'oblio. 

 

Sognavo e pregavo, tutte le sere, prima di chiudere gli occhi e cadere negli incubi, di risvegliarmi la mattina con la mente vuota, libera, senza immagini, suoni o odori a ricordarmi, in ogni istante della mia vita, ogni singolo attimo traumatizzante.

 

Sapevo bene che era impossibile, ma lo speravo.

 

Non ho mai perso la speranza, nonostante tutto continuo a sperare che, un giorno, tutto sarebbe tornato come prima.

 

Quel colloquio, come tutti del resto, stava diventando sempre più insopportabile.

 

Sapevano bene che non avevo alcuna intenzione di parlare, che non avrei rivelato nulla a nessuno, eppure, tutti i maledetti giorni, mi trovavo catapultata nello studio di neuropsichiatria e passavo ben novanta minuti seduta su di una poltrona, lo sguardo basso, gli occhi quasi assenti e la mente libera di pensare a ciò che voleva.

 

La psichiatra guardò il suo orologio da polso, la faccia scocciata e lo sguardo irritato.

 

"Va bene, per oggi basta così." Disse.

 

Sante parole, non aspettavo altro. 

 

Come da routine, sapevo che, passati i novanta minuti, chiunque si fosse trovato seduto nella poltrona di fronte a me, avrebbe smesso di insistere e, per sua gioia, avrebbe avuto il permesso di riaccompagnarmi nella mia stanza.

 

Percorremmo i lunghi corridoi della psichiatria, i muri grigio topo segnati da diversi buchi e graffi, l'insopportabile odore di chiuso e le urla di qualche poveretto in preda ad una crisi.

 

Camminavo accanto alla psichiatra, lo sguardo basso e fisso per non incontrare gli occhi di qualche malato di mente.

 

Mi facevano pena, gli occhi vuoti, il viso pallido, la pelle secca e rovinata, i capelli fuori posto e i vestiti stropicciati.

 

Loro non avevano sentimenti, emozioni, pensieri, erano sedati dagli psicofarmaci.

 

Anche io ero sotto cura farmacologica, o almeno era quello che credevano i medici.

 

In realtà non ho mai ingoiato una di quelle porcherie.

 

Ogni giorno, quando l'infermiera mi porgeva le pastiglie grosse come un colpa della pistola a pallini, le portavo alla bocca e fingevo di ingoiarle. 

 

Lei, ignara di un mio inganno, com'era arrivata se ne andava ed ecco che le pastiglie finivano in pasto ai topi.

 

Era semplice, nessuno si era mai accorto di nulla.

 

Non volevo diventare un vegetale che cammina, per quanto male possano fare le emozioni, volevo essere in grado di provarle e di sentire di essere ancora viva.

 

In breve tempo, ci trovammo davanti alla mia camera.

 

La psichiatra aprii la porta ed io entrai.

 

Subito la porta si socchiuse dietro di me e venni lasciata da sola, come sempre.

 

Era buio, le grate alle finestre lasciavano passare solo piccoli raggi di luce; le pareti erano lilla sbiadito, vi era un letto in metallo e un armadio a due ante in ferro. 

 

C'era sempre puzza di chiuso, odiavo quell'odore, ma più cercavo di scacciarlo più sembrava venir fuori.

 

Mi sedetti sul letto a gambe incrociate e la schiena appoggiata contro il muro, poi sollevai delicatamente il cuscino e presi il malandato quaderno rosso fuoco da sotto di esso.

 

Mi sentivo una ladra ad averlo con me, non era di mia proprietà, non avrei dovuto prenderlo.

 

Il quaderno tra le mani, la copertina mai aperta.

 

La curiosità era tanta, troppa, così decisi di scoprire finalmente il punto di vista di altri, la mia stessa esperienza vissuta da altre due persone. 

 

Lo aprii.

 

Sulla prima pagina vi era un mandala in bianco e nero che occupava più di mezza pagina e sull'altra metà una scritta.

 

"Ricordi.. Hazel Grace Lancaster & Augustus Waters"

 

Leggere quei nomi fu una pugnalata al petto.

 

Mi feci forza, voltai pagina e cominciai a leggere.

   
 
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