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Autore: Giuu13    21/12/2016    0 recensioni
Storia originale ispirata a Battle Royale.
Dal testo:
Doveva uccidere qualcuno per sopravvivere? Doveva affrontare della gente? Era un “gioco” in cui, tra tutti i partecipanti, ne poteva rimanere in vita solo uno?
«No, col cazzo»
Genere: Avventura, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Sarah aprì leggermente la porta affacciandosi, vide una figura sfrecciarle davanti e si ritrasse automaticamente spaventata, ma quella non sembrava averla notata, infatti continuò a correre attraverso il corridoio. Era veloce e sicura, non aveva aspettato un attimo ed era corsa fuori dalla stanza. Avrebbe dovuto pensarci anche lei, dannazione! Vide un ragazzo, Loris forse, uscire e correre dietro la prima figura. Non era molto brava con i nomi e non le importava più di tanto, men che meno in un contesto del genere. Con la sacca a tracolla uscì in punta di piedi e dopo aver dato un’occhiata in girò prese la strada degli altri due ragazzi, ma ben presto si imbatté in un bivio: destra o sinistra? Guardò prima da una parte, poi dall’altra, chiedendosi dove fossero andati gli altri due. Voleva davvero andare dove erano loro? Se li avesse incontrati cosa avrebbe dovuto fare? Attaccarli, forse? Ma come avrebbe potuto batterli? Aveva intravisto una spada al fianco di Astrid e Loris era uscito dalla sua camera imbracciando un fucile con delle lame nella canna. Che diavolo era? Ma soprattutto come avrebbe potuto anche solo pensare di affrontarli con quella sua frusta? Qualche minuto prima aveva aperto la sacca e prendendo la sua arma in mano aveva pensato, in un primo momento, “Ma che figata!”. E lo era davvero. La frusta era bellissima, di un nero lucente, tipo quella di Catwoman. All'estremità aveva tre punte, quindi era davvero una figata. Sarah aveva però pensato “Ma…io non la so usare” ed era entrata in panico.
Improvvisamente sentì dei passi dietro di sé e con uno scatto imboccò il corridoio di sinistra, sperando in bene e corse. Corse qualche minuto, poi si fermò: il corridoio era per metà al buio. Guardò verso l’alto sperando in una loro accensione improvvisa, ma non successe niente e così fu costretta a tornare indietro.
Tornata dov’era prima si bloccò pietrificata. Poco più in là c’era Davide, con un enorme martello in mano che rallentò la sua corsa fino a fermarsi. Si osservarono per qualche secondo, poi qualcosa scattò nel cervello di entrambi.
“Ci deve essere almeno un morto nei corridoi, altrimenti verranno attivati i collari”
Con un gemito di terrore Sarah si voltò e prese il corridoio di destra, mentre Davide la inseguì brandendo il martello. Pensò di lanciarlo per colpirla, ma se l’avesse mancata avrebbe perso tempo nel raccoglierlo. Mentre correva dietro la figura minuta di Sarah, pensò che ci voleva del tempo per abituarsi a quell’arma, era davvero pesante. Vide la ragazza voltarsi e agitare una mano, come a scacciarlo via, ma Davide aumentò il ritmo della corsa con sforzo. Doveva prenderla, doveva ucciderla per salvarsi e salvare altre persone. Sì, doveva assolutamente ucciderla per salvare tutti, era il prezzo da pagare. Una morte per altre vite. Era giusto così.
Sarah stava ormai piangendo in preda al panico e senza accorgersene andò a sbattere contro un muro con la spalla, barcollò e riprese a correre, ma quell’errore le costò molto caro. Una mano le afferrò la spalla dolorante e la tirò indietro, facendola inciampare a cadere, ma svelta si rialzò evitando un colpo di martello che sgretolò una mattonella.
«No, no! Lasciami stare!»
Sarah urlava disperata agitando la frusta che fendette l’aria sibilando e colpì in pieno viso Davide che indietreggiò stordito. Gli bruciava terribilmente il lato sinistro della faccia e toccandosi la guancia sentì un liquido caldo bagnargli la mano; era coperta di sangue. Guardò con odio la ragazzina davanti a sé che tremava alla vista di quello che aveva appena fatto. Gli aveva sfregiato il viso e sarebbe rimasta la cicatrice! Con un salto le fu addosso e caddero insieme a terra, uno sull’altro. Sarah batté la testa e Davide le ginocchia, ma il dolore alla faccia non gli faceva sentire nient’altro. Lasciò il martello e strinse il collo della maglia di Sarah talmente forte da farsi sbiancare le nocche e prese a scuoterla.
«Hai visto cosa mi hai fatto? Hai visto?»
La ragazza piagnucolava stringendogli i polsi, ma non serviva a niente, Davide manteneva la presa salda continuando a scuoterla.
«Lasciami! Lasciami!»
«Lo devo fare, capisci? Devo ucciderti per forza, non è una mia scelta, ok? Non posso morire, non puoi essere così egoista da far morire cinque persone!»
Detto questo la strattonò più forte facendole battere la testa a terra con violenza, più e più volte, sempre più forte fino a quando i lamenti finirono e quelle mani delicate si staccarono da lui cadendo inerti. Davide si alzò e prese il martello e senza guardare gli occhi azzurri di Sarah le spaccò il naso, gli zigomi, la fronte; colpì tante volte finché non fu soddisfatto del lavoro, fin quando non fu sicuro che fosse morta. Corse via mentre il sangue sgorgava sul pavimento. Se fosse stato più attento (o più in se stesso), Davide avrebbe notato la luce rossa del collare accendersi subito dopo la prima botta contro il pavimento, così da capire che era morta immediatamente ed evitandole quello scempio.
Gli occhi di Sarah erano di un azzurro limpido, erano la parte che lei più amava di sé: ora, quella parte di cui andava immensamente fiera, non c’era più; andata, distrutta, coperta dal suo stesso sangue.
 
Viola era seduta nella sua stanza al buio, contro il metallo freddo della porta, si teneva la testa tra le mani e piangeva. Si strappava i capelli dalla disperazione, buttava le ciocche scure sul pavimento e urlava. Tempo prima, avendo visto la porta socchiudersi, si era affacciata per capire cose stesse succedendo; aveva visto Astrid uscire dalla sua stanza senza indugio e correre lontana. Aveva spalancato gli occhi capendo che quello era il segnale, il gioco era cominciato. Tornata dentro aveva preso il suo tubo di metallo, borbottando qualcosa sulla sua inutilità, poi era uscita in corridoio. La porta dall’altra parte del corridoio si era spalancata ed era uscita la figura gracile di Daniele, che sorpreso di vederla era rimasto paralizzato sull’uscio, con una mano sulla maniglia e l’altra impegnata a tenere la sua arma.
Era un bilong, una specie di accetta esotica: il manico era di legno ed era legato a una lama un po’ arrugginita con delle fibre vegetali; sembrava instabile, un movimento e sarebbe andata distrutta, ma l’apparenza inganna.
Avevano sentito delle urla in lontananza e si erano voltati entrambi spaventati e sorpresi, qualcuno aveva cominciato a giocare. Viola, poi aveva alzato il tubo coprendosi il viso per istinto, aveva visto con la coda dell’occhio un’ombra muoversi. Era riuscita a parare un colpo del bilong di Daniele, ma non ci sarebbe riuscita una seconda volta, il tubo si era spezzato in due. Aveva lanciato un urlo vedendo il ragazzo tornare alla carica, poi si era buttata in camera e aveva chiuso la porta per ripararsi. Daniele aveva dato diversi colpi alla porta lasciando graffi e incisioni, poi si era allontanato capendo l’inutilità della sua insistenza. Qualche minuto dopo, assicurandosi che non c’era più nessuno dall’altra parte, aveva abbassato la maniglia della porta, senza successo.
Un solo e semplice «No» le era uscito dalla bocca.
Aveva riprovato ancora e ancora, ma la porta non si apriva, non si smuoveva di un millimetro.
«No, no, non può finire così, non è giusto. Dovevo solo proteggermi. Mi voleva…uccidere. Per favore, aprite» piangendo si era accasciata a terra raccogliendo le gambe contro il petto.
Era rimasta in quella posizione per molto tempo, poi si era alzata a sedere, senza più la forza di piangere o di gridare.
Erano passate delle ore da quando si era chiusa lì dentro? Non poteva saperlo, non aveva un orologio, non era il tipo da indossarne uno. Distrutta, esausta, corrosa dal panico e dalla disperazione era diventata un’ombra di quello che era stata; non le avrebbero mai aperto la porta e lei era destinata a morire tra quelle quattro mura senza avere neanche la possibilità di combattere. Beh, una possibilità l’aveva avuta, pensò sorridendo amaramente, e lei aveva preferito nascondersi in quella stanza piuttosto che affrontare un avversario. Forse era giusto così, forse era stato quello il suo destino sin dall’inizio.
Sentì un ronzio, poi la voce di Max riempì la stanza.
«Lucas, sei ancora qui? Il tempo sta per scadere»
Viola alzò la testa verso il soffitto. Quindi Lucas era ancora lì? Come mai? Gli era successo qualcosa? Ah, ma quindi il tempo stava per scadere. Mancava ancora poco e poi la sua testa sarebbe saltata per aria e il suo sangue avrebbe imbrattato quelle pareti tanto bianche.
I minuti passarono lenti e Viola rimase con la testa abbassata, il mento contro il petto ad aspettare la fine. Se l’aspettava in ogni momento. Ora. Adesso. Adesso esplodo. Ancora un secondo, ora! Ora! Adesso devo morire, non ce la faccio più!
«Anche Lucas è fuori»
La voce di Max tornò ad aleggiare nella stanza, un sottofondo ronzante.
«Ha fatto appena in tempo, avresti dovuto vederlo. Appena ha messo il piede fuori, BOOM, si sono spente le luci dietro di lui. Che culo che ha quel ragazzo, rischia di diventare il mio preferito»
Max rise e per un momento Viola pensò che ce l’avesse con qualcuno vicino a lui e che avesse dimenticato il microfono acceso, ma poi disse: «E invece tu sei ancora qui, ti sei chiusa dentro. Non ho detto che le porte una volta chiuse non si possono più aprire? Non l’ho detto? Ah, no? Mi sono dimenticato, mi spiace»
Dal tono, però non sembrava minimamente dispiaciuto e continuò a parlare a Viola.
«Non attiveremo il tuo collare, non sei nelle zone buie dei corridoi. Sei al buio, sì, ma nella tua stanzetta. Vediamo fin quando sopravvivi»
Detto questo, Viola pensò che avrebbe aggiunto altro, ma la stanza rimase silenziosa.
Si alzò in piedi di scatto, le era venuto in mente qualcosa. Aveva del cibo e dell’acqua nella sua sacca che sarebbero dovuti durare alcuni giorni, quindi poteva sopravvivere per qualche tempo! In qualche giorno, lì fuori si sarebbero ammazzati tutti, eccetto uno che avrebbe vagato in cerca di lei, senza però avere alcuna speranza di trovarla. L’annuncio di Max le aveva ridato una speranza: non le avrebbero fatto saltare la testa, e lei avrebbe potuto continuare a partecipare! Con le lacrime agli occhi per la gioia cercò nel buio la sua sacca. Si mosse a carponi tastando il pavimento, poi il letto; andò in bagno, ma della sacca non c’era traccia. Stava andando nel panico, ancora. Poi ricordò: quando era uscita aveva la sacca in una mano e il tubo nell’altra e quando era stata attaccata da Daniele aveva mollato la presa sulla sacca per impugnare saldamente il tubo. La sacca le era caduta lì fuori. Si buttò a terra e con la testa sul pavimento freddo guardò oltre la fessura del fondo della porta e vide la tela marroncina della sacca, era a pochi centimetri da lei, ma non poteva fare niente per riprenderla. Si tirò su, appoggiò la fronte contro la superficie della porta e pianse le ultime sue lacrime in silenzio.
 
«Zooma sul viso di Viola, non perdere nemmeno una lacrima»
Max era piegato sullo schermo della scrivania e dava ordini ai suoi subordinati lì intorno, ognuno con un compito diverso.
«L’uscita di Lucas l’avete registrata bene?»
«Sissignore, da più angolazioni e diverse distanze»
«La sua è stata un’uscita davvero spettacolare, piacerà al pubblico»
L’uomo annuì al suo capo continuando a pigiare sulla tastiera
 
Tra i cespugli, Astrid stava recuperando le forze poco a poco, sempre con una mano sul collare. Diversi minuti prima aveva sentito dei fruscii tra le fogli e delle voci lontane, poi più niente. La sua decisione di uscire per prima rischiando tutto le sembrava ancora un’ottima trovata: non aveva incontrato nessuno e perciò non aveva dovuto combattere e uccidere, poteva riposare prima che anche l’ultimo dei ragazzi uscisse. Prima di alzarsi e incamminarsi dentro al bosco si mise in ascolto di eventuali nemici nelle vicinanze. “Nemici”. Stava entrando nel gioco sempre di più.
Si scrollò di dosso delle foglie che le si erano attaccate addosso e fece per alzarsi, quando sentì nell’aria un sibilo pesante. Si buttò di lato facendo una capriola su una spalla sola e si alzò velocemente. Il punto in cui si trovava lei prima era stato colpito da un bastone; Vittorio la stava guardando, sopracciglia aggrottate e labbra tirate in un ghigno. Era alto e ben piazzato, i capelli scuri gli arrivavano poco più sotto le orecchie; gli occhi, anche quelli scuri, erano ridotti a due fessure nel tentativo di metterla a fuoco nell’oscurità della notte.
«Sei agile»
«Grazie»
Astrid mise mano al suo pugnale e lo estrasse producendo un rumore metallico.
Vittorio espresse il suo apprezzamento con un fischio, poi indicò l’arma con un cenno della testa.
«Veramente bella. Io invece ho questa, una semplice lancia» disse scuotendo appena l’arma. «L’ho trovata appoggiata sul letto e appena l’ho vista ho pensato che fosse l’arma migliore, ma vedendo la tua…»
Fece un passo veloce in avanti e Astrid ne fece uno indietreggiando, non aveva intenzione di farsi uccidere.
«Appena ti avrò ucciso mi prenderò il pugnale, è giusto che lo abbia io e non tu. È più adatto alle mie capacità»
«Se questo lo hanno dato a me e quella a te, ci sarà un motivo, non credi?» chiese sorridendo acidamente Astrid, muovendo la mano che impugnava l’arma.
«Muori!»
A quel grido, Vittorio si mosse in avanti con la lancia tesa, in un affondo lungo, ma Astrid lo evitò scartando di lato; non era difficile stare lontana da quella punta acuminata, Vittorio si muoveva lentamente per via della lunghezza e pesantezza dell’arma. Velocemente Vittorio mosse la lancia di lato colpendo Astrid su un fianco, mandandola contro un albero. Nell’impatto perse il pugnale che cadde tra qualche cespuglio e Vittorio, approfittando di quel momento di distrazione fece qualcosa di inaspettato con l’arma: prendendo le due estremità tirò e con un suono secco la lancia si divise in due. In mano aveva due piccoli bastoni dall’estremità appuntita e facendoli roteare si avvicinò mostrando un ghigno terrificante. Aveva scoperto quella particolarità dell’arma non appena l’aveva provata nella sua stanza. Una lancia da poter scagliare e trafiggere i nemici a distanza o due speciali bastoni acuminati. Non poteva chiedere di meglio, anche se il pugnale di Astrid lo avrebbe preso volentieri ed era proprio quello che aveva intenzione di fare non appena l’avesse passata da parte a parte con uno dei suoi bastoni.
La ragazza era caduta a terra dopo la botta contro il tronco dell’albero; Vittorio la guardava dall’alto con sguardo di sufficienza, non poteva credere che gli altri fossero davvero preoccupati per lei e le sue capacità: era una semplice ragazza che non riusciva a stare nemmeno in piedi, sembrava anche piuttosto innocua. Dopotutto, però lui era Vittorio, era destinato a vincere, lo diceva anche il suo nome. Vittorio. Era lì per vincere, tornare a casa.
Perso nei suoi pensieri, Vittorio non si accorse che Astrid aveva ripreso in mano il pugnale, che era caduta appositamente per recuperarlo. Il ragazzo alzò una mano per infilzarla contro l’albero, ma Astrid fu più veloce e con un balzo gli fu addosso e gli trafisse il polso con il pugnale. Vittorio fu così sorpreso di vedere quella cosa spuntargli dal polso che nemmeno urlò, spalancò solo gli occhi e aprì la bocca; solo quando Astrid estrasse la lama avvertì il dolore, che si propagò per tutto il corpo fino a farlo urlare. La presa sulla lancia si allentò e questa cadde a terra; si portò la mano al petto e con quella ancora sana cercò di fare altri affondi, ma la potenza e la sicurezza di prima erano svanite. Vittorio sentiva il petto caldo e appiccicaticcio per il sangue che stava perdendo, aveva la fronte madida di sudore freddo per la paura. Tentò l’ennesimo colpo, ma inciampò in una radice di un albero e perse l’equilibrio cadendo in avanti, addosso ad Astrid che aveva la mano ancora tesa. Il pugnale si conficcò nel petto perforando il cuore e portando immediatamente la morte al ragazzo (luce verde, luce rossa), che si accasciò tra le braccia di Astrid. Sembrava quasi che si stessero abbracciando, ma la mano di Astrid era stretta intorno all’elsa del pugnale che non voleva saperne di uscire dal petto del povero ragazzo. Astrid, sporca di sangue fino al polso, rimase in piedi sorreggendo il cadavere di Vittorio; sentiva il sangue continuare a fluire sul suo polso, faceva fatica a mantenere salda l’impugnatura scivolosa. Era talmente scioccata che non si accorse di aver cominciato a piangere sulla spalla del ragazzo che aveva appena ucciso.
Distese il ragazzo sul tappeto di foglie e gli chiuse gli occhi, estrasse il pugnale dal suo petto e gli sistemò le mani come aveva fatto con Christian, in modo anche da coprirgli il foro all’altezza del cuore. Vide la sacca di Vittorio abbandonata al suo fianco e prese le sue porzioni di cibo e acqua; una parte di sé si stava ribellando selvaggiamente a quel comportamento, ma l’altra parte, quella che intendeva tornare a casa a tutti i costi, quella che comprendeva l’istinto di sopravvivenza, gli suggeriva che ne aveva assolutamente bisogno. Si allontanò da quel luogo senza prendere altro. Era entrata ufficialmente nel gioco.
Tra le fronde degli alberi si potevano vedere spicchi di cielo costellati da piccole luci bianche.
   
 
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