Ho finito Breaking Bad pochi
giorni fa (che capolavoro!) e a parte la depressione
post finale, mi ha letteralmente fatto andare fuori di testa il destino
incerto di Jesse. Su Internet ho trovato molte interpretazioni date da
fans, critici, addirittura Vince Gilligan e Aaron Paul stesso, ma in
ogni caso avevo bisogno di scriverne una mia. Eccola.
Vi auguro una buona lettura :)
TINY HANDS
Non che avessi mai chiesto di
più, o che da ragazzino avessi
mai desiderato di diventare dottore, banchiere, avvocato.
Ti è sempre bastato quello che avevi: qualche donna, nemmeno
tanto bella ma accettabile per un po’ di compagnia, un
po’ di droga per divertirti
e abbastanza amici da non sentirti mai solo.
Non che avessi mai preso una posizione in vita tua. Hai
sempre osservato lo scorrere del tempo come un tossico strafatto
davanti ad un
acquario, soddisfatto della tua vita media e del tuo lavoro (se lavoro
si può
chiamare), felice di non essere impostato come i tuoi genitori,
contento di
essere ribelle come non lo è tuo fratello.
Eppure, proprio adesso, con le ginocchia piantate nella
ghiaia e il fascio di luce dei fari ad accecarti la vista, ti senti
come se
non avessi mai respirato. Non sai per quanto hai guidato, non sai
perché hai
preso la strada che porta a Santa Fe, sai solo che non hai smesso
né di urlare
né di ridere, come un pazzoide disperato che ha perso tutto
ma per la prima
volta sente che gusto ha l’aria.
Ti fa male la cassa toracica, stai anche morendo di fame.
Abbassi lo sguardo sulle tue mani e le trovi piantate al suolo,
rovinate e
sporche di terra. Ti sei fermato perché inginocchiato in una
piazzola di sosta
e con il freddo pungente a entrarti nelle ossa, riesci a respirare
meglio.
Abbassi il capo e lo appoggi sulle pietre, come se stessi
pregando, respiri il sapore della polvere e ti domandi che cosa ne
sarà della
tua vita adesso che è tutto finito (oppure iniziato?). Ti
chiedi perché proprio
tu hai dovuto sopportare tutto questo e nemmeno finisci di pensarlo che
hai già
la risposta.
Mi
merito quello che
mi succede.
Ti rialzi a fatica,
incespicando sulle tue stesse gambe e
apri la portiera del passeggero. Tutto quello di cui hai bisogno
adesso è
fumare e ringrazi un dio in cui non credi quando trovi nel cruscotto un
pacchetto di Lucky Strike con dentro sei sigarette più un
accendino giallo.
Con la schiena contro la ruota destra anteriore fumi la tua
prima sigaretta da mesi. Le tue mani stanno tremando, la tua testa non
riesce a
smettere di pensare e ti odi da morire per non riuscire a focalizzare
la tua
attenzione su altro, né su quei bastardi nazisti,
né su Andrea e Brock (starà
bene?), nemmeno su te stesso e sul male che senti nel punto in cui
avevi le
catene.
Perché tu non puoi,
non riesci a smettere di pensare a lui.
E ti domandi, mentre spegni la sigaretta e ne riaccendi
un’altra, qual è il
senso più profondo di tutta questa storia. Che cosa volevi,
Jesse? Lo sai?
Volevi dei soldi, volevi un lavoro che ti appagasse? Volevi un padre?
Tutto il tuo dolore ha avuto uno scopo? Qui ora e adesso,
con la tua maglia lurida e i lividi sulle braccia, cosa hai guadagnato,
che
cosa hai imparato? Ti odi ancora di più quando ti rendi
conto che l’unica cosa
che hai vinto è stata la libertà, gentilmente
concessa da un uomo che ti ha
tolto tutto, anche la vita, quando ti ha guardato negli occhi e ti ha
detto,
glaciale come un automa, che aveva guardato Jane morire e non aveva
fatto
niente per salvarla.
Ti domandi, mentre senti la mascella tremare, se potrai mai
dimenticare. Chiudi gli occhi e appoggi la fronte sui palmi e nella tua
testa
c’è ancora lui con la sua barba incolta, a fissare
la tua faccia spenta e i
tuoi occhi che non riuscivano a reggere il confronto. Puoi sentire
ancora
addosso il suo peso nel momento esatto in cui si è coricato
sopra di te,
prendendosi una pallottola per salvarti.
Tra voi c’è sempre stato un rapporto di affari,
alti e bassi
che vi hanno portato a ridere, litigare, provare ad ammazzarvi. Eppure
ci sono
stati dei momenti, sporadici certo ma innegabili, in cui gli hai voluto
bene,
in cui le sue spalle e il suo petto erano un buon posto per nasconderci
la
faccia e soffocare il dolore. Qualche volta vi siete divertiti, avete
riso e
condiviso delle birre parlando del più e del meno e ora, con
i tuoi occhi spenti
premuti sui polpastrelli, ti domandi se respira ancora oppure no. E in
ogni
caso la risposta ti spaventa.
Quando, tre sigarette dopo, hai abbastanza freddo da non resistere
un secondo di più all’aria aperta, sali in
macchina e decidi che sei troppo
stanco per poter pensare ancora. Appoggi la testa
contro il sedile, chiudi
gli occhi e finalmente, dopo mesi, riesci a dormire senza fare incubi.
Dei colpi forti interrompono il tuo sonno e sei costretto ad
aprire le palpebre, terrorizzato da aver dormito troppo e di dover far
fronte
ai calci di Jack.
Ma invece della brutta faccia del sicario c’è un
uomo biondo
con profondi occhi scuri che ricambia il tuo sguardo da dietro il vetro
del
finestrino, leggermente spaventato. Ci metti un attimo a capire che sei
ancora
in macchina, il riscaldamento e i fari accesi. Ci metti molto di
più a
realizzare che è davvero finita.
Fai un leggero cenno con la testa mentre sbatti le palpebre
e ti guardi attorno. Il cielo è chiaro, devono essere le
prime ore del mattino.
“Stai bene?” insiste l’uomo e ti rendi
conto che sei
costretto a rispondere.
Lentamente scendi dalla macchina e guardi l’uomo guardarti
sempre più preoccupato, puoi leggere nei suoi occhi quello
che vede: un volto
disperato e pieno di cicatrici, dei capelli incolti come se
dall’ultima volta
che sono stati pettinati fossero passati mesi, un ragazzo giovane che
ha lo
sguardo disperato di chi ormai non può più avere
paura di nulla.
Annuisci.
“Sto bene”. La tua voce è rauca e speri
che lui non chiami
la polizia.
“Hai bisogno di qualcosa?”.
Si, certo. Hai bisogno di dimenticare, di riavvolgere la
pellicola del tuo film al momento esatto in cui Emilio è
stato beccato e tu sei
caduto in mutande da quel tetto. Hai bisogno di sapere che la tua vita
non è
stata pagata con la morte di Jane, di Gustav, di Drew Sharp, di Mike,
del cognato
di Mr. White e del suo partner, di Andrea. Hai bisogno di tornare
indietro, di
chiedere perdono a tutte le persone a cui hai fatto del male, a Gale.
Vorresti
così tanto scusarti con quell’uomo, dirgli che non
volevi ma hai dovuto e che
ancora sogni i suoi occhi innocenti. Pagheresti oro per non aver ceduto
alle
richieste di un malato terminale a cui nonostante tutto ti sei
affezionato, di
cui non hai potuto fare a meno di cercarne il consenso e
l’approvazione, come
se ancora foste sui banchi di scuola e il test fosse la vita. Ma non
puoi,
perché è troppo tardi per riscattarsi.
“Acqua. Ho bisogno di acqua”.
“A che ora hai
l’interrogazione, tesoro?”.
Jake spalma un velo di marmellata alle fragole sul pane
tostato, poi alza gli occhi puntandoli in quelli azzurri di sua madre.
“Alla terza ora”
“Sei preoccupato?”. Adam finisce in un sorso il suo
caffè,
poi si alza in piedi per prendere il giornale appoggiato sul bancone
della
cucina.
È una bella giornata ad Albuquerque, di quelle chiare che
promettono un sole caldo.
“Non molto in realtà” sorride Jake, poi
da un morso alla sua
fetta di pane.
Adam sorride e si risiede al tavolo, aprendo il giornale.
Come ogni giorno, prima di leggere le notizie, sfoglia tutte le pagine
alla
ricerca di qualche foto o qualche titolo in particolare, più
impaurito di
quanto vorrebbe ammettere di trovare la foto di suo figlio, l’altro, in mezzo
all’inchiostro.
Jenny osserva suo marito e solo quando lo vede richiudere il
giornale e cominciare a leggerlo dalla prima pagina riesce a
distogliere gli
occhi. Le sue mani da signora raccolgono i piatti sporchi della
colazione, poi si
alza in piedi. Con un ordine meticoloso li appoggia nel lavello,
posandoci
sopra il suo bicchiere sporco di succo all’ananas, non prima
di averlo
sciacquato dalla polpa rimasta incollata al vetro.
“Mamma, ti ricordi che stasera non ci sono a cena?”
domanda
Jake mentre si pulisce la bocca.
Adam abbassa il giornale. “Dove vai?” chiede
inclinando il
capo.
Jake sorride prima di scuotere leggermente la testa.
“Papà, non ti ricordi mai cosa dico. Stasera vado
a cena da
Daniel”. È vero, suo padre non si ricorda mai cosa
dice e nemmeno cosa fa. È
come se da un anno a questa parte avesse la testa altrove.
“Giusto, è vero.
L’età” sorride lui, toccandosi
leggermente
la testa.
“Almeno tu te lo ricordavi, mamma?”.
Jake finisce in un sorso la sua spremuta, poi si
pulisce la bocca di nuovo. A volte sua mamma era assente. Spesso la
sorprendeva
con lo sguardo fisso davanti a sé, persa in qualcosa che non
voleva raccontare.
Un giorno di qualche settimana prima aveva visto i suoi occhi
inumidirsi quando
un ragazzo con dei jeans enormi e un cappellino rosso si era acceso una
canna
davanti all’entrata del supermercato.
“Mamma?” domanda di nuovo, leggermente scocciato,
senza
ottenere risposta.
Jake e Adam si guardano per un breve istante prima di
girare la testa per cercare la donna. Jenny è immobile
davanti al lavandino, le
mani a mezz’aria con ancora stretto lo straccio per ripulire
gli schizzi
d’acqua sul marmo.
“Tesoro?” la chiama Adam, ma lei non
dà alcun segno di
aver sentito.
Quando l’uomo si alza in piedi nota che ha gli occhi lucidi
di lacrime. Sta fissando un punto imprecisato davanti a lei, fuori
dalla
finestra sopra al lavello.
“Mamma, che cosa succede?”.
Jake si alza in piedi nel momento esatto in cui suo padre si
affianca a sua madre. Per qualche secondo rimane zitto, poi il suo
respiro si
blocca e le mani cercano appiglio sul bancone. Jake fa ancora qualche
passo in
avanti, ora leggermente spaventato.
“Mamma? Papà?” ripete, ma non ottiene
alcuna risposta.
Solamente quando si avvicina capisce, e sente il cuore fermarsi.
Fuori dalla finestra, al fondo del cortile e con gli occhi
puntati nei loro, Jesse, suo fratello Jesse, è perfettamente
immobile.
Poi, all’improvviso, lei rallenta e si abbassa e tu puoi
sentire, come a rallentatore, le sue mani che si avvinghiano alla tua
maglia e
il suo petto contro la tua testa. Sta piangendo e allora tu fai la cosa
più
naturale che ti viene: la abbracci a tua volta incrociando le mani
dietro la
sua schiena, lasciando che la tua testa scivoli un po’ di
più nel suo maglione
azzurro che profuma di casa.
“Dov’eri finito?” ti chiede a bassa
voce mentre con la
mano ti pettina i capelli sporchi. “Jesse, tesoro mio,
dov’eri finito?”.
Non le rispondi. Vorresti solo poter rimanere così per
sempre, in un odore famigliare che non ricorda né polvere
né sangue,
dimenticando tutto quello che ti sta dietro.
Ma lei, delicatamente, raccoglie il tuo viso tra le mani obbligandoti
a spostarti, e ti guarda per un tempo indefinito. Tu lo sai, lo leggi
nei suoi occhi chiari e bagnati
che si sta chiedendo dov’è suo figlio col
cappellino di lana e perché ha lasciato il posto ad un
animale sporco, ferito.
Quando distogli lo sguardo ti accorgi che dietro
c’è tuo
padre, e dietro ancora, tuo fratello.
Lo stesso uomo che ti ha sbattuto fuori di casa, dandoti del
drogato e dell’irresponsabile, lo stesso uomo che si
è vergognato di te per
salvare le apparenze, ora ti guarda fisso, mentre trema.
“Non farlo mai più” dice, ma non
è arrabbiato. È solo
terrorizzato come mai l’hai visto prima.
Per la prima volta realizzi che i tuoi genitori devono aver
passato otto mesi d’inferno senza sapere dove fossi, vivo o
morto. Vorresti
spiegare, vorresti vomitare un fiume di parole e piangere fino a finire
le
lacrime e poi dire che per la prima volta ti senti libero, ma sei
troppo stanco
per parlare. Sai che ci sarà un tempo per tutto, anche per
raccontare.
Tuo fratello ti fissa come se non sapesse cosa dire. Gli fai
un leggero cenno con la testa, riesci persino ad incurvare le labbra
contratte
dalle guance che tua madre ti sta stringendo.
Jake sorride a sua volta e non dice niente e tu, per la
prima volta da molto tempo, senti il cuore diventare caldo.
Appoggi le mani sulle mani di tua madre e lei allarga le
dita e permette alle tue di infilarsi tra di esse. Hai sempre avuto le
mani
piccole e una volta, in tempi decisamente migliori, lasciavi che tua
madre le
scaldasse tra le sue.
“Dov’eri finito?” ti ripete e sai che ha
paura di sapere la
risposta.
“Sto bene”. È l’unica cosa che
riesci a dire ed è anche la
prima. “Entriamo?” domandi spostando velocemente
gli occhi da tua madre a tuo
padre a tuo fratello.
Tua mamma annuisce e poi ti lascia le guance per asciugarsi
le lacrime.
“Entriamo” risponde, e ti allunga la mano per farti
alzare in piedi, e
tu, come un bambino che si è fatto male alle ginocchia, la
prendi.
Seduto sul coperchio del water ti sei tagliato i capelli con
le forbici e ti sei fatto la barba, e quando ti sei alzato ti sei
specchiato a
lungo cercando di reggere per primo il tuo sguardo e poi i tuoi lividi.
Ti sei
domandato se guarirai mai e hai preferito non risponderti.
Nelle coperte chiare profumate di lavanda chiudi gli occhi e
ti sorprendi a immaginare scatole di legno e olii profumati, le tue
mani
piccole e senza tagli ad accarezzarle, e allora ti immagini
l’Alaska e una vita
dove fai qualcosa che ti piace in mezzo alle conifere.
Capisci che ti stai per addormentare quando tra il legno
vedi il viso invecchiato di Mike sorriderti e quando senti, per
purtroppo solo
pochi secondi, l’odore che aveva la pelle di Andrea quando si
svegliava accanto
a te e ti baciava le guance per svegliarti il più
delicatamente possibile.
Ti giri di lato, attento a non sentire troppo dolore nel punto
in cui hai preso i calci ma all’improvviso, nella tua testa,
un batuffolo dai
capelli rossi e le mani sporche di polvere si copre la faccia, ridendo.
E tu
ridi con lui, e dici “Peekaboo!”, e il batuffolo
ride e tu speri davvero che la
sua vita sia felice.
Come se fossi in un cinema e la tua testa fosse lo schermo
osservi volti famigliari, persone conosciute in una vita che ora non
sembra la
tua, gente che è morta e tu quasi sempre ne sei
parzialmente o totalmente
responsabile. Ma non è un incubo. Le cose che vedi sono
belle e il tuo sogno ti
piace. Senti il tuo respiro diventare regolare e cadenzato e pensi che
ce la
farai a dimenticare, che ce la farai a stare meglio e poi, tra il
faccione
bruto di Schrader, il disegno di una supereroe che chiede scusa e un cappello
nero, finalmente ti addormenti.