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Autore: eliseCS    23/12/2016    0 recensioni
A quanto pare quello che ho bevuto per il brindisi del compleanno è stato sufficiente per farmi fare questa pazzia, e ovviamente non c'era nessuno che potesse fermarmi...
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Una bambina, gabbie dorate e non e Tortuga.
Oppure
L'Ombra della Doomed Destiny, la nave pirata più famosa dell'epoca, il nuovo capitano Cortès e un vecchio amico dimenticato.
In sintesi assoluta: pirati.
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Dal primo capitolo:
Non sapeva se fosse perché pensavano che fosse stupida, troppo piccola per capire o se semplicemente non gli importasse, ma Isabelle riusciva perfettamente a sentirli.
A quanto pareva stava per essere venduta.
Di nuovo.
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“Con un pezzo da otto posso darti anche da bere se vuoi, ragazzino” propose.
Isabelle si morse un labbro: prima di entrare aveva controllato, addosso non aveva assolutamente nulla di valore, per non parlare di monete o pezzi da otto!
“Io… non ho nulla…”
La donna si ritrasse: “Mi dispiace mocciosetto, ma non do da mangiare gratis, neanche ai bambini. Torna quando avrai qualcosa da darmi in cambio” disse, e si allontanò per servire qualcun altro.
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Buona lettura (spero)
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premetto che questa storia non ha basi storiche o altro, l'ispirazione mi è venuta riguradando per l'ennesima volta Pirati dei Caraibi e questo è quanto.
L'ambientazione temporale - e territoriale -  è più o meno quella, e so già che ci saranno un mucchio di imprecisioni, ma la storia mi è venuta così e a quanto pare (almeno per il momento) il mio lato pignolo e maniacale per quanto riguarda i dettagli si è fatto da parte.

I personaggi sono completamente inventati e se c'è qualche nome che potrebbe avere qualche legame con eventi successi realmente sappiate che non era mia intenzione: ho scelto i nomi in base a come mi suonavano, fate un po' voi...
Lo spumante per il brindisi del compleanno (citato nell'introduzione) deve avermi dato il colpo di grazia convincendomi a pubblicare questa "cosa" per un non meglio precisato motivo.
Spero ugualmente che a qualcuno possa piacere.









I - In cui la piccola Isabelle passa da una gabbia d’oro a una di ferro
 
Isabelle Maria Torres aveva sempre vissuto in quella che chiunque dall’esterno avrebbe definito una gabbia dorata.
Ovviamente a soli dieci anni la bambina, seppure fosse molto sveglia e intelligente per la sua età, non avrebbe saputo cogliere appieno il significato di tale espressione, ma se lo avesse fatto avrebbe sicuramente affermato di non essere d’accordo.
Almeno non del tutto.
 
Essere la figlia del Primo Consigliere del Governatore di Antigua ha sicuramente i suoi lati positivi.
Un’enorme villa in cui abitare, tanto per cominciare, con la servitù pronta ad accontentarla qualsiasi cosa voglia: un cuoco che cucina solo i cibi che le piacciono, una sarta personale e un’educatrice con cui va abbastanza d’accordo – tenendo conto che erano state scartate le almeno venti signore che si erano presentate prima.
Fino a questo punto la piccola Isabelle avrebbe potuto convenire che stare dentro quella gabbia non era poi così male, soprattutto se lei occasionalmente cercava di fare in modo che fosse anche meglio.
 
Harry, il figlio del Governatore, aveva la sua stessa età – era giusto più vecchio di un paio di mesi – era il suo migliore nonché unico compagno di giochi, e non erano rare le volte in cui entrambi si mettevano nei guai con i rispettivi genitori – beh, loro o la servitù… - a causa dei loro passatempi.
E in effetti sarebbe stato difficile evitarlo visto che quelli variavano dalla lotta nel fango negli orti dopo che aveva piovuto allo sgattaiolare di nascosto fuori dalle mura della propria abitazione facendo rischiare più volte un attacco di cuore a qualcuno, principalmente per raggiungere l’officina del fabbro di fiducia del Governatore e restare a osservarlo mentre lavorava - e ricevere occasionalmente qualche breve lezione su come si impugna un pugnale.
Anche se in realtà il loro passatempo preferito era un altro, e poteva essere riassunto in un’unica parola: pirati.
Tra le storie della servitù, quelle raccontate dal fabbro e quello che i rispettivi padri si lasciavano occasionalmente scappare durante i pasti sarebbe stato impossibile per loro non rimanere affascinati dall’argomento: più le storie erano avventurose e ricche di combattimenti più le trovavano avvincenti, e le loro preferite in assoluto erano di certo quelle che riguardavano una delle navi pirata più famose dell’epoca, la Doomed Destiny, e il suo Capitano Gabriel Cortès.
Si diceva che le vele della nave fossero scarlatte come il sangue e che gli uomini che facevano parte della ciurma condividessero il destino dannato di cui la nave portava il nome.
Non era quindi raro vedere i due bambini giocare e duellare tra loro con spade di legno mentre fingevano di essere temuti pirati che si contendevano un cospicuo bottino – una collana di perle della madre di Isabelle piuttosto che un paio di orecchini di quella di Harry – e allo stesso tempo cercavano di non essere catturati dagli uomini al servizio della Marina – la servitù –  di cui tra l’altro i loro padri facevano parte.
Abituati a stare insieme praticamente da quando erano nati, complice la forte amicizia che legava le loro madri, Isabelle ed Harry erano praticamente inseparabili e ormai quasi tutti sapevano che se c’era uno dei due l’altro era sicuramente nei paraggi.
Probabilmente Isabelle non avrebbe saputo cosa fare se fosse rimasta senza Harry e viceversa, anche se essendo ancora così giovani nessuno dei due avrebbe avuto il coraggio di ammetterlo.
 
Quindi no, quello che Isabelle odiava della gabbia non era il fatto di non poterci uscire – o di poterlo fare per davvero poco tempo – ma il fatto che se lei era tenuta dentro non voleva necessariamente dire che i mostri restassero chiusi fuori.
E in quell’ultimo periodo sembrava proprio che non facessero altro che entrare.
 
Negli ultimi mesi suo padre aveva scoperto due nuove passioni in aggiunta a quella che aveva sempre avuto nei confronti del potere che derivava dalla sua carica: il gioco e il bere.
I soldi della paga, nonostante non fossero di certo pochi, non tardarono a diventare insufficienti per ripagare i debiti di gioco che l’Ammiraglio Torres aveva ben presto accumulato al punto che l’uomo non ci aveva pensato due volte prima di cominciare a mettere mano al patrimonio della famiglia, compresa la parte riservata alla dote di Isabelle che avevano già cominciato a mettere da parte.
La prima ad andarsene fu la sarta, ma ad Isabelle non dispiacque tanto quanto arrivò il turno della sua educatrice a cui lei alla fine dei conti si era affezionata: tutte le sue lacrime non servirono a impedire che la donna venisse mandata via, non potevano più pagarla.
La servitù venne ridotta al minimo e solo il cuoco sembrò l’unico a non vedere il suo posto messo in pericolo dalla nuova situazione economica della famiglia.
 
Quello che però cominciò a segnare sul serio un cambiamento in lei fu il conoscere un sentimento che non aveva mai provato prima, non in quel modo: la paura.
Perché davvero, per Isabelle non c’era nulla di più spaventoso di suo padre che tornava a casa nel cuore della notte ubriaco.
La prima volta che era successo si era svegliata di soprassalto alle urla sguaiate del genitore, alle quali si erano poi aggiunte quelle di sua madre, ed era passata un’intera settimana trascorsa a quel modo prima che avesse il coraggio di andare a chiedere alla donna cosa stesse succedendo.
La risposta che le era stata data le era parsa inizialmente incredibile: lei conosceva suo padre come l’uomo pacato e gentile che fino a poco tempo prima le dava il bacio della buona notte e che ancora si sforzava di prenderla in braccio quando lei gli correva incontro dopo una giornata di lavoro.
Isabelle dovette alla fine riconoscere che però quella che le era stata detta non era altro che la pura verità quando una sera l’uomo era ritornato a casa prima - lei non era ancora andata a dormire - e le aveva messo le mani addosso.
In quel momento aveva anche capito cosa fossero quelle ombre scure su braccia e viso che sua madre cercava di coprire con la cipria prima di uscire di casa, visto che dal giorno seguente dovette farlo anche lei.
 
 
 
Le era capitato solo una volta di vedere usare la frusta su un uomo della servitù che aveva rubato in casa, mai avrebbe pensato che sarebbe toccato anche a lei provarla.
 
Giocando con Harry il giorno prima avevano preso in prestito una delle medaglie di suo padre, e quando l’uomo non l’aveva trovata – Isabelle si era dimenticata di rimetterla a posto – l’uomo era andato subito in camera della figlia e l’aveva trascinata al piano di sotto prendendola per i capelli.
Le frustate erano state poche ma tremende, sua madre era riuscita a fermare il marito rompendogli una bottiglia in testa solo perché Harry, andato a casa dei Torres per giocare con Isabelle, si era trovato davanti la scena e aveva cercato di fermare l’uomo.
I segni sulla sua schiena non sarebbero mai scomparsi del tutto, per non parlare di quello che la bambina avrebbe provato da quel momento in poi nel vedere una frusta.
Quello era stato anche il giorno che Maria Torres aveva sbattuto il marito fuori di casa intimandogli di non farsi più vedere finchè non avesse sistemato i suoi debiti e non avesse smesso di bere.
 
Erano passati ormai due mesi.
 
Ecco perché Isabelle si ritrovò ad essere più spaventata che sorpresa quando suo padre la svegliò nel cuore della notte mettendole una mano sulla bocca per impedirle di urlare.
La bambina, terrorizzata, non potè fare altro che annuire e seguire gli ordini del genitore sperando che non le facesse del male.
Non sembrava ubriaco come le altre volte, ma quando l’uomo la prese in braccio Isabelle potè comunque sentire l’odore dell’alcol nel suo alito, aveva imparato a riconoscerlo.
“Vuoi che la mamma sia di nuovo contenta, sì?” le bisbigliò il genitore parlandole per la prima volta solo quando furono fuori dalle mura domestiche.
Isabelle annuì incerta: non capiva come quella gita notturna avrebbe potuto risolvere i loro problemi e far felice la madre, ma non aveva il coraggio di dire nulla, non voleva essere picchiata di nuovo.
“Brava bambina” commentò semplicemente suo padre al suo cenno senza aggiungere altro.
Dopo quasi un quarto d’ora erano arrivati al porto, caratterizzato dall’odore di pesce e salsedine più forte rispetto al resto della città; il buio era fitto intorno a loro e poche erano le lanterne che rischiaravano la strada.
Gli unici rumori, per lo più risa sguaiate e canti stonati di uomini ubriachi, provenivano dalla locanda che sorgeva poco distante: un insegna di legno verniciata di verde con il nome scritto a lettere consumate e il disegno stilizzato di una sirena era illuminato da due torce appese ai lati.
Arrivata al punto in cui poteva percepire anche la puzza di alcolici e di sudore la bambina ebbe il timore che suo padre potesse portarla la dentro, ma all’ultimo l’uomo entrò in un vicolo che se possibile era ancora più scuro e puzzolente.
Arrivati quasi in fondo si fermò e la mise giù.
Isabelle rabbrividì nella sua camicia da notte di lino bianco mentre cercava di non pensare a cosa stessero pestando i suoi piedi nudi.
Per essere una bambina era abbastanza coraggiosa da giocare nel fango, ma a tutto c’era un limite.
 
Nel frattempo suo padre aveva bussato ad una porta che lei non aveva notato, e dopo qualche istante due uomini ne erano usciti, riusciva a mala pena a distinguere i loro volti nel buio.
“Finalmente, pensavamo avesse cambiato idea…” esordì quello che dei due era più alto e muscoloso.
“No” ribattè Torres secco.
Afferrò Isabelle per una spalla e rudemente la spinse in avanti rischiando quasi di farla inciampare.
L’uomo la osservò per un attimo e poi scoppiò a ridere: “Avevate detto che vostra figlia era una giovane donna, questa qui avrà quanto? Otto, nove anni? L’accordo salta” stabilì.
Torres indurì la mascella: “Isabelle ha dieci anni e crescerà in fretta. Non mi importa cosa avete capito voi, adesso fuori il mio denaro” lo minacciò estraendo dai calzoni una flintlock e puntandogliela contro.
Isabelle sentiva la testa girare: cosa stava succedendo?
L’uomo alzò le mani davanti alla pistola e fece un cenno con la testa al compare al suo fianco senza però smettere di sorridere sinistramente.
Quello, molto più smilzo rispetto all’altro, fece comparire una sacca di tela e la fece tintinnare: lì dentro dovevano esserci un sacco di pezzi da otto, letteralmente.
Suo padre la spinse in avanti così velocemente che di nuovo la bambina rischiò di cadere per terra.
Riprese l’equilibrio giusto in tempo per vedere suo padre che faceva una stima approssimativa del denaro guardando dentro la borsa, la pistola era tornata al suo posto, le monete che catturavano la poca luce presente facendola riflettere nei suoi occhi avidi.
 
Isabelle realizzò di colpo: suo padre l’aveva appena venduta.
 
Il tempo di metabolizzare la cosa e cominciò ad urlare cercando di correre verso il genitore.
Il secondo uomo le fu subito dietro: al primo tentativo un bel pezzo della sua camicia da notte gli rimase in mano, ma al secondo riuscì a caricarsela in spalla insensibile al suo dimenarsi.
Si rivolse velocemente all’altro chiedendo un rapido “Finisci tu il lavoro?” prima di voltarsi per tornare all’interno dell’edificio da cui erano usciti.
La bambina vide la scena come al rallentatore.
Suo padre era di spalle e se ne stava già andando con i soldi, sordo alle urla disperate della figlia.
Ci fu quello che a Isabelle sembrò un boato assordante e Torres si fermò, cadendo subito dopo di faccia sul selciato.
Da quella distanza Isabelle non poteva vederlo ma aveva un foro in testa.
Vicino a lui il sangue era schizzato raggiungendo e macchiando anche il pezzo di stoffa che era stato strappato dalla camicia da notte della bambina e buttato per terra con noncuranza.
L’uomo che gli aveva sparato si affrettò a recuperare la borsa dei soldi e seguire il suo compare.
Anche Isabelle, che dopo un attimo di shock aveva ripreso a urlare, fu quietata con un colpo del calcio della pistola dietro la nuca prima che l’uomo la riponesse.
Il dolore alla testa per la botta e quello al cuore per tutto quello che era successo quella notte sparirono nel momento in cui smise finalmente di agitarsi tra le braccia dell’uomo che l’aveva comprata.
 
 
 
Quando cominciò a riprendere conoscenza, poco per volta, Isabelle non aprì subito gli occhi.
Nella sua mente si rincorrevano le immagini di quello che doveva per forza essere il peggiore incubo che avesse mai fatto e voleva essere certa di averle scacciate tutte prima di svegliarsi definitivamente.
Purtroppo per lei quello non era stato affatto un incubo: la cella con le sbarre di ferro dov’era rinchiusa e il rigido pavimento di legno su cui era distesa parlavano chiaro.
Ma quella non era la cosa più sconvolgente.
Il panico si impossessò prepotentemente di lei quando provò ad alzarsi e si accorse che aveva qualche problema a restare in equilibrio perché il pavimento non stava fermo.
Unendolo al fatto che l’odore si salsedine era più forte di quanto l’avesse mai sentito e che quello che le arrivava alle orecchie era il rumore delle onde del mare la risposta alla domanda dove mi trovo? era spaventosamente semplice: era a bordo di una nave.
La bambina si appigliò alla dura panca in legno, unica seduta della cella se uno non contava il pavimento, si chinò avanti e vomitò.
Quando ebbe finito si pulì maldestramente la bocca con la manica della sua camicia da notte – che già non era più bianca – e si sedette in un angolo portandosi le ginocchia al petto.
Nulla potè impedire alle lacrime di rigarle le guance mentre sperava che quella situazione finisse al più presto.
Perché sua madre avrebbe sicuramente mandato qualcuno a cercarla, vero?
Non avrebbe permesso che la sua bambina le venisse portata via così.
 
Non sapeva che però sarebbe passato davvero molto tempo prima di ritornare nel posto che, fino a quel momento, aveva chiamato casa.
 
Per il momento non poteva fare altro che rimanere lì rannicchiata cercando di controllare la nausea che il rollare della nave le provocava.


 










Come avevo avvertito nel mio profilo (che nessuno ha letto...) ho deciso di accorciare i capitoli lasciandoli con un "titolo" per volta com'era nel piano originale invece di raggrupparli insieme.
Sotto ho lasciato il commento che avevo scritto la prima volta che ho caricato la storia
⬇⬇⬇




Salve, sono tornata!
*nemmeno la balla di fieno si degna di rotolare*
Benissimo...
Se siete arrivati a leggere quaggiù in fondo vuol dire che avete letto anche gli
avvertimenti che c'erano all'inizio del capitolo, quindi non c'è bisogno di aggiungere altro, giusto?
A quanto pare non riesco a stare senza scrivere per periodi prolungati di tempo (leggasi per più di qualche giorno) e questo è il risultato: voi che vi sorbite una mia nuova storia.
Questa storia è un'originale (più o meno) e sono tanto, tanto, tanto (tanto, 
tanto, tanto, tanto, tanto, tanto) insicura al riguardo.
Come sempre sono ben accette critiche (costruttive possibilmente), suggerimenti, domande, ecc, ecc; e ribadisco che non mordo...
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto almeno un po' e spero di arrivare presto a pubblicare il prossimo.

Vi prego, qualche anima pia mi faccia sapere che tutto questo non è solo uno spreco di tempo (e di carta) e che quello che ho scritto è quanto meno leggibile...
Mi piacerebbe tanto fare come fa qualcuno, della serie "finchè non c'è almeno una recensione non pubblico il prossimo capitolo" ma a quanto pare, viste le precedenti esperienze, non me lo posso permettere; quindi vi dico solo che il prossimo capitolo arriverà il prima possibile.
Grazie a chi ha letto
E.



 

 



 
   
 
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