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Autore: sistolina    27/12/2016    0 recensioni
ONE SHOT ISPIRATA ALLA MIA ORIGINALE "5 O'CLOCK HEROES".
PAIRING DORIAN/BAEZ.
Ha consumato ogni millimetro di sé, Dorian Gray, ma gli rimane ancora quella postura raccolta e accovacciata da chi cerca di evitare l'ira di Dio, o chi per lui, proiettata dall'immenso ignoto sullo stipite della porta e i ripiani alti degli armadietti.
E Baez è più piccolo, alla fine, incastrato nella giostra di un verde sbiadito e posticcio, con due scarpe diverse, perché nel casino incontrovertibile e ciondolante di casa sua è già tanto se le ha trovate entrambe, scavando fra i vestiti sporchi, i soprammobili rotolati ovunque nel rollio della barca, le bottiglie vuote e lo skateboard.
Piccolo con la sua sigaretta di tabacco e le unghie mangiucchiate fino alla falange, sangue secco sulle nocche screpolate dal freddo, i polsini della felpa macchiati e anneriti da quell'igiene personale così sopravvalutata nel Nuovo Millennio.
Sembra piccolo così acciambellato, tante che sembra un ragazzino delle medie atteggiato scompostamente, pretenzioso e falso.
E' di nuovo Natale.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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A Giuls, Lucrezia, Elle e Lisa.
Ai nostri Futuri Anteriori che ritornano.
Ai miei bambini adorati,
con me in ogni spilla da balia
e cigno di carta ripiegato malamente.
Buon Disagiato Natale.



 

 
Sono i vuoti d'aria
nel mezzo.
 
 
Tu sai quanto fui puro…
quanto amavo una vita troppo bella per me…
quanto ero deciso a difendere e amare …
Ma tu di me conosci gli abbandoni, l’aureola di ingenue deduzioni,
la passione irrichiesta e nobile…
Ne ignori una rassegnazione che è bassezza,
gergo, parola disonesta.
Nella storia del nostro Amore c’è un ombra,
il rapporto unico, la troppa confidenza che non s’esprime,
resta parola, imputridisce…
La purezza perduta: ecco la novità...
(Memorie, Pier Paolo Pasolini)
 
Dorian Gray aveva un'infame passione per le uova sode marinate. Sua madre impilava vasetti tarchiati o allungati, zittiti da coperchi a scacchi rossi e bianchi, avvinghiati in tovagliette assorbenti e strofinacci ammutoliti e rassettati sul tavolo della cucina, i ripiani, dentro il forno e sui davanzali. Uno sull'altro, ordinatamente e con calma. La villetta a schiera a due svolte a destra dalla fermata del 133 con il palo divelto e sporgente e la pensilina intossicata di polvere, quella in mattoni scheggiati conditi di muschio, con la rastrelliera per le bici arrugginita e gli stivali di gomma ammonticchiati ai lati dell'entrata del capanno degli attrezzi trasudava aceto per un mese, traspirava acido e dolciastro per mesi. Stillava aceto.
Era Natale.
Fango vischioso trascinava foglie marcescente nei rigagnoli e ribolliva di pioggia fra le sbarre dei tombini.
Dorian era la vera ragione per cui casa loro odorava costantemente di aceto. Lui e la sua infame passione per le uova sode marinate.
Qualcuno, forse suo padre, aveva tentato di rammentare loro che le uova sode marinate erano quel genere di ricetta, che so, di Pasqua, ma sua moglie aveva scrollato le spalle spigolose, le clavicole asimmetriche che il figlio minore aveva ereditato, che mai lei avrebbe visto sporgere affilate e impietose sotto una pergamena di pelle sfilacciata e scarna, si erano a malapena sfiorate nel movimento, e decretato che la democrazia di quella casa si reggeva su sani principi di rappresentanza, e lui non sarebbe stato rappresentato in quanto totalmente inutile all'economia domestica.
“Ti ho sposato Davy, ho anche tradito i miei sani principi unionisti per seguirti in questo tanto decantato e libero Sud, e certi giorni mi ricordo anche perché, davvero, ma pensa agli affari tuoi, uh?”.
Non importava, Dorian amava le uova sode marinate, e lei avrebbe marinato uova sode fino all'arrivo dei suoi discendenti a Tara la terra promessa, se quell'ammasso di tuorli solidificati e albumi gelatinosi avesse stretto attorno al polso di Dorian e il proprio il flebile nodo di una vaga comunicazione. Avrebbe marinato uova fino al suono delle trombe ai cancelli del Paradiso per quell'impanato cenno fugace fra occhi e mandibole del suo figlio minore. Guance gonfie e fastidiosi grugniti di approvazione.
Lo avrebbe ripreso per quelle maniere incivili, e magari avrebbe indirizzato al caso una vaga minaccia di interpellare suo padre riguardo i suoi modi insensatamente sciancati. Avrebbe sbuffato all'odore costante di aceto a permeare ogni spazio e rientranza, rimpinguando con amanuense tenacia i vasetti di petali profumati su tutti i davanzali, ma non avrebbe smesso di affogare uova sode nella salamoia.
I ragazzi ad un certo punto svanivano, i loro corpi si assottigliavano, o si appesantivano, e i loro lineamenti si montavano, smontavano e ricomponevano di espressioni nuove e dilatate, deragliate. Il viso di Dorian non le sarebbe più sembrato il suo, la morbosa ed esigente divinità della vita adulta lo avrebbe strappato dalla squadrata indecisione dei suoi quattordici anni e spintonato a schiaffi e pugni nell'uomo che sarebbe diventato, e Winnyfred lo avrebbe semplicemente lasciato andare via, scrollando via il fango dagli stivali di gomma verde marcio appoggiati alla veranda e condannandoli all'ergastolo nel capanno degli attrezzi.
Invasava uova sode affogate nella salamoia e dondolava i fianchi a ritmo con Edge of Seventeen i capelli cotonati, gli orecchini pendenti con le piume multicolore e i jeans a sigaretta.
Era Natale.
Suo marito sarebbe rientrato sbraitando al telefono con quella sua risata al catrame e nicotina, rimasuglio dei suoi giorni gloriosi nel sindacato, sbronze coatte e sigarette a mitraglia per tenere il tempo di una mano di poker sfortunatissima giocata con soldi promessi e mai visti, sfilandosi dal tallone gli anfibi sporchi di grasso sullo zerbino che lei odiava, quello con il gioco di parole osceno che aveva accettato di conservare solo a buona memoria di Seamus O'Leery, padrino di Kol, che avevano seppellito nella terra testarda del cimitero di Glasnevin nemmeno due anni prima.
Ogni tanto le sembrava che suo marito ancora gli parlasse, chiuso in bagno, sfumacchiando di nascosto una sigaretta arraffata dal pacchetto di Galoises nascosto avvolto nel nastro adesivo sotto sifone del water.
“Non berti tutto il whisky migliore vecchia battona” diceva sempre “Che ci arrivo presto laggiù al caldo a tenerti il passo”.
Quella Vigilia di Natale David aveva trascorso in bagno un quarto d'ora più del solito prima che sua moglie abbandonasse a metà l'accurato procedimento di marinatura delle uova e bussasse con le nocche impietosamente screpolate dal fischio della Tramontana.
“Davy?” era entrata, Stevie Nicks che si assottigliava e svaniva fra i bassi e gli amplificatori, e si era accucciata sulla lavatrice a gambe incrociate. Era alta e spigolosa Winnyfred Weasley Gray, e suo marito le era sembrato piccolo e fatiscente accoccolato intorno alla sua sigaretta francese senza filtro. Il lucernario aperto, la luce dietro lo specchio bianca e sparaflashata, crudele contro le tonalità così contrastanti delle loro pelli, olivastra quella di lui e ricoperta di lentiggini quella di lei, il fumo brulicante sotto le palpebre.
“Palmer vuole chiudere bottega Winx...” aveva detto semplicemente.
Lei aveva sfilato la sigaretta dalle sue mani brulicanti di cuscinetti callosi ancora sporche di grasso e aveva aspirato ad occhi chiusi.
Dorian era ancora in biblioteca, Kol stava tornando a casa con il 133, le aveva mandato un messaggio pieno di abbreviazioni e senza segni di interpunzione, fuori pioveva.
La grondaia si sarebbe intasata e divelta di nuovo, e David l'avrebbe riparata alla bel e meglio con il nastro isolante in attesa dello stipendio per comprare un trapano e ripararla per davvero.
Fanculo il trapano.
Fanculo la grondaia, la cena di Natale, Ebeneezer Palmer.
Fanculo.
 
You say it's the words, the words
That we didn't speak
But it's mostly the words that you didn't keep
 
Last Christmas gratta disperato sotto la ferita inesorabile di una puntina consumata. George Michael sembra non finire mai di piangere tutte le sue lacrime per un Natale passato a donare il suo cuore e qualcuna delle sue più private cianfrusaglie ad un bastardo che lo aveva scopato e abbandonato.
Se nemmeno il grande G riesce a tenersi mezzo uccello per un anno che speranze ha Baez? Non che gliene freghi un cazzo di tenersi alcunché, a Sebastian Ellis, se non quei quattro stracci che ancora si stringe addosso, la bombola del gas secca come la passera di una mummia, niente acqua calda fin dopo Natale e l'ultimo assegno di disoccupazione di Emma andato per pagare le ultime tre bollette e i debiti con Mr.Kahn, giù all'emporio.
Ha racimolato una stufa elettrica da un banco dei pegni, affidando la sua intera fottutissima collezione di cd dei Pogues ad un rosso strabico con la barba a ciuffi che aveva il labbro superiore già sudaticcio sfogliando una rivista porno anni '90.
Le pellicine attorno alle unghie della mano sinistra hanno cominciato a sanguinare di nuovo. L'asciugacapelli da viaggio arraffato di nascosto al Tesco aperto anche a Natale ormai due Natali prima ha smesso di funzionare di nuovo, mandando a farsi fottere il suo ormai consumato piano strategico di riscaldamento di emergenza, e suo fratello tornerà dalla stramaledettissima messa di Natale della scuola di lì a mezz'ora.
La barca è un cesso, fredda come le cazzo di segrete del castello della Regina psicotica di Biancaneve, e i topi hanno rosicchiato le ultime decorazioni di Natale pescate a caso dal cesto delle donazioni in un charity shop ormai quattro anni prima. L'albero di plastica finta e mezza bruciacchiata da quella volta che Emma, ubriaca fradicia dopo l'ultimo rigetto della sua domanda per l'assegno di invalidità, si è addormentata lasciando le lucine accese, è appoggiato, spoglio e sbilenco nell'angolo vicino ad una tv che non hanno i soldi per accendere, nemmeno un canale di merda dove guardare qualche film trash di Natale con Macaulay Culkin per distrarsi. Ma non quello in cui il frocetto era ricco sfondato, uno di quelli in cui soffriva almeno un po', possibilmente, giusto per non far sentire Baez un completo fallimento anche a Natale. Nessun regalo. Piangerebbe, se fosse uno di quegli sfigati emotivi che possono permettersi il lusso di avere emozioni, o almeno il tempo di sondare inesorabilmente ogni profondo recesso del loro animo. Ma Baez non ha il lusso di niente, nemmeno di un cazzo di asciugacapelli funzionante piazzato sotto le coperte ad aspirare una manciata di gelo dal letto quasi troppo piccolo per le gambe lunghe di suo fratello.
Il cellulare squilla dimenticato, un lamento sommesso che vibra sotto i cuscini sformati della poltrona cicciona preferita di Emma.
“Eh” una consegna, una di quelle grosse “Non ci sono più dentro coso, ho mollato capra e cavoli, non ti è arrivato il fischio?”
No, evidentemente.
“Sono 1500 euro per te Coso, vedi di alzare il culo e non rompere troppo i coglioni”
Le pellicine sanguinano impietose e appiccicose di sangue scuro fino sui sui polsini della sua felpa grigia col cappuccio troppo grande, anche se ristretta da almeno cinquecento lavaggi sbagliati di chissà quante mani prima delle loro.
Buon Natale fallito.
 
The mistake's being me, I didn't see
All of the smoke and the mirrors being reflected of of me.
Somebody should have told me
Darkness is key
Somebody should have showed me
How was I supposed to see
 
Dorian Gray consumava le scarpe da ginnastica sempre nello stesso punto. Quando aveva sei anni, in vacanza sulla costa, stipati tutti nell'utilitaria che suo padre faceva sistemare da un amico per una stecca di sigarette e una bottiglia di grappa distillata di nascosto in cantina, il sandalo destro aveva ceduto, e si era rotto una caviglia contro il marciapiede. Era porfido, una fantasia di pietre saporite, verde scuro e infiltrate di umidità. Sembravano biscotti cotti al sole e innaffiati di acqua e menta. Si era macchiato di sangue sfregando il piede contro l'asfalto, e Kol aveva rallentato appena la sua corsa fino alla spiaggia. A malapena, perché la salsedine si arrampicava anche sui muri delle case, e il vento sembrava davvero entrare nei polmoni per asciugare la pioggia e rastrellare l'inverno dalle ossa.
Dorian aveva pianto, come ancora sapeva piangere, come un bambino di sei anni con una caviglia rotta e il sangue sull'orlo dei calzoncini puliti. Come un bambino che aveva appena sbriciolato la sua vacanza al mare per una cinghia di cuoio lisa dal tempo e la postura scorretta. Ruzzolando sul pavimento della sconfitta, a sei anni, Dorian Gray aveva cominciato a camminare con le spalle infossate per non attirare lo sguardo della sfortuna, del caso, del caos, affondando la testa nella cellulosa dei libri stampati e i caratteri minuti delle stampe in paperback.
Ha consumato l'ordine delle trenta paia di Converse da quel giorno.
Prima sformate all'esterno da Kol, martoriate, slabbrate e squarciate. Dalle risse, le fughe, le sigarette spente e accese, i calci ai muri e lo strascicarsi ubriaco delle quattro di mattina. Poi raggomitolate all'interno da Dorian, con le ossa delle caviglie che quasi si sfioravano ad ogni passo, i suoi arti che si tiravano come nervi tesi ogni giorno della sua adolescenza, lamentose torture medievali di una pubertà impietosa e scostante, iperattiva ed estenuante.
Un metro e ottantotto di clavicole e anche, gomiti e caviglie.
Non percepiva il suo corpo prima di Baez, prima di tutti i suoi commenti, di quegli occhi quasi strabici di un azzurro onesto e incapace di arrestarsi in corsa. Non lo osservava nemmeno sbiadire, svanire, sgualcirsi.
Riordinava le Converse sfondate dalla più consumata alla più integra, le mischiava, le buttava solo quando la suola si scollava dalla stoffa e i messaggi scribacchiati con il pennarello indelebile si scioglievano in macchie scure di miti ricamati con frasi di canzoni e punti di sutura emozionale.
Ha consumato ogni millimetro di sé, Dorian Gray, ma gli rimane ancora quella postura raccolta e accovacciata da chi cerca di evitare l'ira di Dio, o chi per lui, proiettata dall'immenso ignoto sullo stipite della porta e i ripiani alti degli armadietti.
E Baez è più piccolo, alla fine, incastrato nella giostra di un verde sbiadito e posticcio, con due scarpe diverse, perché nel casino incontrovertibile e ciondolante di casa sua è già tanto se le ha trovate entrambe, scavando fra i vestiti sporchi, i soprammobili rotolati ovunque nel rollio della barca, le bottiglie vuote e lo skateboard.
Piccolo con la sua sigaretta di tabacco e le unghie mangiucchiate fino alla falange, sangue secco sulle nocche screpolate dal freddo, i polsini della felpa macchiati e anneriti da quell'igiene personale così sopravvalutata nel Nuovo Millennio.
Sembra piccolo così acciambellato, tante che sembra un ragazzino delle medie atteggiato scompostamente, pretenzioso e falso.
E' di nuovo Natale.

That even as you think you're breaking
And even as your voice is shaking
I am not the only
That is what somebody should have told me
 
Sente di nuovo cedere le scarpe, Dorian, mentre si avvicina. Come se il porfido fosse troppo vicino e la sua caviglia debole. Come se qualcosa stesse per strapparsi, tranciarsi di netto, ma non davvero, come se prima fosse integra, come qualcosa di usato e abusato, già rotto, imperterrito equilibrio nutrito a cocciutaggine e rimpinzato dal distratto rimandare.
O forse da una cocciuta speranza distratta.
Non lo sa.
“Hei” Baez tenta un vano approccio ad una cartina, ma le sue dita sono rattrappite per il freddo e l'umidità incartapecorisce la carta e rende il tabacco nebbiosa poltiglia.
“Ma non ce l'hai una casa tua, cosetto rachitico?” Dorian sorride, in quel modo che è solo di Baez, come se gli avesse appena sfilato una sciabola dal ventricolo sinistro e i suoi polmoni si stessero riempiendo di sangue mentre respira.
“Il Natale a casa mia non è una grande festa” Baez impreca in gaelico sbriciolando la sigaretta nel palmo chiuso. Trucioli di tabacco svolazzano e sbattono, senza peso e impossibili da sollevare, sul suo ginocchio di jeans macchiati di erba bagnata e terriccio.
Ammortizza e realizza, il vuoto asettico dell'appartamento di Kol, i mobili ancora rivestiti di plastica e gli elettrodomestici incellophanati. Forse un po' si sente in colpa.
Non dura più di uno scalpiccio di rimorso fra le sue ciglia. Gli sembra di chiedergli “E tu mi vorresti?” a mezza voce, ancora, ancora e ancora, dolorosa e vuota come una tonsillite fantasma.
Il seggiolino della giostra sembra enorme attorno al vuoto cosmico dei suoi jeans e delle ossa incastonate l'una all'altra come un Jenga sadico.
Baez sembra gettare appena un occhio distratto alla spaventosa voragine lasciata dal suo corpo che non c'è, ma vede tutto. E ricorda. Dorian vorrebbe sparire dalla sua memoria ogni tanto, dimenticare che Baez non dimentica niente, che il suo corpo raccapricciante è impresso sotto i suoi polpastrelli e registrato fra le sue sinapsi, che la sua fragile bruttezza, la sua goffa parvenza di mobilità si annida impietosa in ogni neurone di Baez. Che non dimentica niente, mai, e non può concedere il lusso a nessuno dei due di quell'oblio che la vergogna di Dorian meriterebbe.
Stringe il pacchettino contro il palmo finché gli angoli quasi penetrano nella pelle.
Lascia perdere. Quando quello che ricorderà per sempre di te è la tua aria spaurita da Gollum e l'improbabile mescolanza di lineamenti scoordinati, gli occhi troppo grandi e la bocca troppo larga, e quelle ossa che squarciano la pelle e le magliette di cotone in cui ti sei ristretto, e l'assenza di vita e di volontà in un corpo che non ti appartiene e non riconosci, lascia perdere. Lui non dimentica, ma tu puoi. Puoi semplicemente andare via e massacrare nel fango i ricordi che di te non avrà mai. È facile, devi solo camminare. Non esistere. Cessare di essere.
 
Dancing in a haze
We pretend to be just fine
While inside in disbelief
I'm lost with no cause
Just like my, my mommy before me
I needed some peace, someone to believe
See the same as me
 
“Ho venduto diecimila euro di cocaina oggi” è solo uno dei pensieri scoordinati di Baez estrapolati a caso da un flusso di coscienza a doppia velocità.
Devi solo camminare.
“Congratulazioni?”
“Ero lì a pensare che il mio cazzo di fratello non ha nemmeno l'acqua calda per strofinarsi in mezzo alle dita dei piedi, e mia madre non sa se questo è il Natale del 1978 o la fottuta Pasqua del '25, ed è Natale, cazzo, e io ho dovuto scambiare tutta la mia maledetta collezione di cd dei Pogues per una stufa elettrica che scalda come il fiato del bue e l'asinello di merda nella mangiatoia di Cristo. Con diecimila euro di bianca nello zaino, sul 10c, seduto fra una nonna che sapeva di cavolo e un tizio ubriaco che se lo menava di fronte a me, pensavo che è Natale e non sono nemmeno capace di evitare che mio fratello muoia assiderato. Qual è il mio cazzo di problema?”
Dorian lascia la presa sul pacchetto minuscolo sotterrato sul fondo della tasca del suo cappotto scuro, e realizza che il linguaggio fallisce sempre con Baez. Forse il linguaggio è fallimentare, forse la comunicazione è solo la scusa che qualcuno ha inventato per farci credere che non siamo completamente soli al mondo e derelitti, Dorian non lo sa. Ma sa che le parole hanno fallito, che le parole falliscono in continuazione, perché non c'è niente da dire, nulla che lui possa rispondere quando Baez a malapena riesce ad articolare l'immensità desolante della sua quotidianità. Dorian ha consacrato la sua vita al linguaggio, al potere taumaturgico delle parole, alla salvezza e all'esistenza infusa dalle parole.
Poi i suoi genitori sono morti, e il linguaggio ha smesso di avere senso, di poter spiegare la realtà, di contenere mondi ed esistenze.
Dorian, il più ascetico dei suoi servi, ha voltato le spalle al linguaggio e all'esistenza, scomparendo nel silenzioso assenteismo ontologico della sua esistenza solo apparente.
E linguaggio ha fallito Dorian ancora e ancora, come sempre con Baez, che delle parole ha solo un cieco terrore, eppure non ne dimentica il suono.
E fallisce di nuovo in quello scambio, nel momento in cui niente di segretamente custodito dalla semantica potrà mai aggiustare lo scaldabagno di Baez o pagare la benzina dell'alimentatore.
Allora Dorian non dice nulla, ribellandosi al linguaggio, al bisogno che lui non ricorda ma che era lì, il bisogno di immaginare il mondo veicolando il suo più reale significato.
Piccolo presuntuoso coglione.
Si alza, il corpo che si libera dell'imbarazzante inadeguatezza del confronto con il sedile della giostra, il verde scrostato e decide di tinteggiature precedenti, arrugginite, scrostate, lacrimevoli e insulse.
E Baez lo guarda, nemico del linguaggio e il suo complicato districarsi, lo guarda con i suoi occhi azzurri sclerotici e spiritati, e prende in prestito una parola alla volta, tradendo e tradendo di nuovo, arrendendosi a quel pesante macigno di senso che tanto lo ha soverchiato.
“Non ho ancora imparato a fare quel cazzo di cigno con la carta colorata. Eph mi sfotte peggio dei ragazzini al campeggio quando non mi era ancora scesa la palla sinistra.”
Le parole sono infide, si sa. Sono i vuoti d'aria nel mezzo, quelli sì che dilapidano la ragione e rianimano il senso.
 
Somebody should have told me
Darkness is key
Somebody should have showed me
How was I supposed to see
That even as you think you're breaking
And even as your voice is shaking
I am not the only
That is what somebody should have told me
 
“Possiamo lasciarli là sopra per un po' Bast?” suo fratello ha la bocca piena di ananas sciroppato e tutto il succo colato sul mento.
Puoi lasciarceli per sempre piccoletto, e guardare in alto quante volte vuoi, così magari non ti accorgi dello schifo quaggiù.
“E chi cazzo ci arriva a tirarli giù tanto?”
Dorian ha ripiegato origami per quattro ore filate. Senza alzare la testa, senza parlargli, senza alzarsi, muoversi, distrarsi. Non ha mai smesso.
Quattro ore e centocinquanta cigni dopo, Baez lo ha sollevato biascicando qualche lamentela senza senso, quaranta chili scarsi di ragazzino anoressico sulle spalle, mentre li incollava uno per uno al soffitto con il nastro adesivo.
L'ha preso in giro per dieci minuti, per altri dieci ha tentato vane indicazioni spaziali, precipitate nel completo fallimento, e alla fine si è rassegnato ad appiccicarli a caso, sghembi e storti, stropicciati, sgangherati e anche un po' deprimenti, lì a penzolare a caso.
Eph li ha amati e Dorian è quasi esistito davvero nella manciata di secondi in cui suo fratello ha realizzato l'esistenza di quei cigni di carta melancolici a pendere dal soffitto.
Esistenza per esistenza.
Baez era l'incaricato alla cura dell'albero di Natale, impegno che gli è costato dieci minuti di giravolte scazzate attorno all'albero con la carta igienica lanciata a caso e altri dieci minuti di corsa a trascinarsi dietro le illuminazioni arraffate al davanzale dei vicini.
“Se mi bruci casa te ne faccio pentire” perfino Emma ha limitato il numero delle vodke lisce ingurgitate prima delle nove di sera a tre, e si regge ancora platonicamente sulle gambe, mentre mescola la purea di patate istantanea come se avesse supervisionato tutta la procedura fin dalla raccolta delle patate novelle.
Dorian la osserva serio, in silenzio, gli occhi ipnotizzati dal movimento leggermente sincopato del cucchiaio di legno nella ciotola. Rapito dalla testarda resilienza di sua madre, ancora, ancora e ancora, la sua sfrontata comicità, a discapito del tragico e del grottesco.
“E perché cazzo stai già mangiando il dolce tu?” Eph scrolla le spalle.
“Boh, era lì”. Dorian, invasato, aveva selezionato personalmente ogni scatoletta di cibo, impilato, ordinato, spolverato, riordinato, sistemato nuovamente. Una cena di Natale con il budget di dieci euro, una confezione di purea istantanea, ananas e pesche sciroppate, stufato di carne surgelata e gelato al pistacchio. Non quello scadente dell'altra volta. Almeno su quello Baez aveva voluto una vaga voce in capitolo.
Last Christmas ancora gratta contro la puntina consumata del lettore di vinili, George Michael che affronta con una rassegnazione serafica e pop l'ennesima presa per il culo, ed Emma che canticchia stonata dalla quarta vodka e la presa meno salda sul cucchiaio di legno.
Non arriverà alla cena nemmeno pagata.
L'albero dondola un po' sghimbescio nell'angolo accanto al televisore spento, la carta igienica che comincia a cedere in qualche punto, le lucine che bruciacchiano gli angoli e un paio di pacchetti avvolti nella carta unta del Fish&Chips. Un vasetto di ananas sciroppato per Eph, una decina di bicchieri di plastica per Emma e una lattina di Diet Coke alla ciliegia per Dorian. Baez si è regalato da solo un pacco di tabacco e una confezione di cartine lunghe. L'erba è stata un regalo della sua Fata Madrina giù a Dolphin's Barn.
Dorian mangiucchia in silenzio il suo gelato al pistacchio acciambellato sulla poltrona sfondata. Non più di due o tre cucchiaini, ma è abbastanza.
Abbastanza per un altro giorno.
Emma riesce a mandar giù metà della sua porzione di spezzatino e purea di patate prima di borbottare qualcosa e avviarsi traballando verso la camera da letto. Eph crolla sulla sua seconda porzione di ananas, la carta marrone del Fish&Chips accartocciata a terra e un occhio dalla palpebra calante.
“Il mio regalo” biascica mentre Baez sistema la stufetta elettrica in camera sua.
“Nessuno se lo ruba piccoletto, parola.”
Dorian è accucciato accanto all'albero, le sue ginocchia sporgenti che sembrano squarciare perfino la stoffa dei jeans.
Baez si chiede quando quella spaventosa passeggiata sull'orlo dell'inedia ha smesso di sembrargli spaventosa ed è semplicemente diventata qualcosa da imboccare una volta o due ogni tanto, un massaggio cardiaco qui e un po' di cibo a caso là.
Si chiede quando quell'equilibrio di non detti è diventato qualcosa di simile a una routine.
Dorian scarta la sua Coca Cola e cincischia con la linguetta. Sussurra qualcosa, e sorride fra sé.
“E quindi? Il tuo Principe Azzurro si chiamerà Abelardo o Sigismondo?”
“Si è staccata mentre prendevo il respiro” dice solo, e fa scivolare la linguetta nella spilla da balia al lobo dell'orecchio.
Baez ricorda altri imbarazzi e altre notti, altre rese e altri silenzi. Infinite parole e contatti che sembrano lontani, indecifrabili, sfilacciati, come se lo scrittore sadico che ha impugnato l'editing delle loro vite fosse entrato nel comatoso blocco dello scrittore per anni senza sapere come farli esistere di nuovo con un senso, e una dimensione reale che non urlasse salto dello squalo.
Come se qualcuno facesse una fatica immensa nel tracciare gli spazi fra le loro esistenze.
Come se il linguaggio fallisse e fallisse di nuovo.
“Prima o poi quella cosa ti farà un'infezione del cazzo e ti si staccherà l'orecchio” si accovaccia anche lui, scartando il suo tabacco nuovo.
Dorian fa dondolare la testa, i ninnoli al suo lobo che sembrano trillare quasi allegri, i centocinquanta cigni di carta appesi malamente al soffitto e le bollicine della Coca Cola che gli fanno il solletico al naso.
Esiste, è reale. Blocco dello scrittore o no, gli spazi nel mezzo, quelli sì, lo hanno rianimato.
I fuochi d'artificio scoppiettano lontani, lampi di luce che sprizzano e si scontrano sui mobili e gli angoli impestati di muffa nerastra.
E' di nuovo Natale.
Dorian setaccia la tasca in cerca di qualcosa, e ne estrae un pacchetto rivestito da quella che sembra carta di giornale, patinata però, come gli inserti della domenica del Dublin Post.
“E' il tuo regalo”
Altri fuochi d'artificio, luci che sbattono sulla superficie pece della Liffey e ri sbattono su di loro, negli anfratti di un campo lungo cinematografico con la colonna sonora natalizia più deprimente del secolo e il rollio impietoso della Ismaele che accompagna terrori inarticolati.
“Se è il Manuale per Principianti del Frocio Represso te lo puoi tenere. Leggere mi fa schifo, incasino le parole e non capisco un cazzo” Dorian rimane fermo, la mano aperta, il pacchettino al centro del suo palmo, in attesa.
“E' perché sei dislessico” lo corregge, la voce che vibra leggermente per via della Coca Cola.
“E' perché sono ignorante, e sottoscolarizzato” Baez non lo guarda, si concentra sulla canna che sta cercando di rollare da dieci minuti, e si abitua ai flash e i botti dei fuochi artificiali.
Da qualche parte nel mondo qualcuno avrà pur qualcosa da festeggiare.
“La gente sottoscolarizzata non dice cose come sottoscolarizzato. È un controsenso” il pacchetto resta lì, a lungo, tanto che Baez quasi vorrebbe scivolare via e scomparire.
“Te la godi da matti a non essere l'unico caso limite del vicinato uh?” Baez tamburella lo spinello sul pavimento per mescolare il tabacco “mi spiace davvero che la mia misera condizione di borderline che porta fieramente avanti anni di studi sociologici sulle fasce deboli della piramide sociale non soddisfi le tue aspettative” accende lo spinello, aspira, espira.
“Anche piramide sociale non è proprio una cosa da sottoscolarizzati sai?” la presenza del pacchetto fra loro si fa quasi concreta, come un cilindro di energia statica che gli solletica il braccio.
“Ragazzino vai al punto, va bene le studiate attese da soap opera, ma con sti ritmi qui arriviamo a Capodanno”
Dorian può vederlo? La puzza della sua inarticolata inadeguatezza può sentirla fino da lì?
“E' una pen drive da due giga riempita di cose” si stringe nelle spalle, il pacchetto sempre lì a fissarlo, curioso, interdetto.
Per che cazzo non lo prendi in mano inenarrabile cazzone? Pensi che scomparirà se lo ignori? La permanenza dell'oggetto dovrebbe esserti entrata in testa più o meno a quattro cazzo di anni.
“Cose. Canzoni d'amore di Celine Dion?”
“Cose. Libri. Audiolibri. Qualcuno, quelli che ho trovato in giro” Dorian litiga con i capelli ormai lunghi sulla fronte, che gli si arricciano contro la pelle, umidi di condensa e spettinati dalle acrobazie con gli origami “ho pensato che se leggere ti fa schifo, magari ti fa meno schifo ascoltare” si stringe nelle spalle sempre troppo sottili, clavicole che sporgono e quasi si toccano “c'è un sacco di gente che ti piacerebbe conoscere, lì in mezzo” Baez solleva lo sguardo dalla sua canna rollata con maniacale precisione, la brace che illumina angoli ciechi dei suoi zigomi e il collo, gli occhi socchiusi per ripararsi dal riverbero dei fuochi d'artificio contro la superficie della Liffey, in quella smorfia infantile a labbra arricciate, che sembra ridere anche se immobile
“Non so nemmeno come ascoltarlo quel qualunque cosa la tua mente perversa da secchioncello rachitico ha pensato potessi mai voler ascoltare, o imparare, o conoscere o chissenefrega.” Dorian lascia cadere il pacchetto a terra, nei cinque centimetri scarsi che separano le loro ginocchia. Baez si rende conto di quella vicinanza, della prossimità dell'effettiva tridimensionalità dei loro corpi scolpiti nello spazio attorno a loro, ritagliati come formine di cartapesta nell'innaturale scenario dell'esistenza.
Solleva lo spinello e ne aspira una boccata ad occhi chiusi. Quando li riapre, il viso di Dorian è più vicino, la bocca socchiusa per aspirare il fumo di ritorno, soffiato via distrattamente.
È lenta e imbarazzata quell'interazione, come ogni interazione fisica fra qualcuno che non esiste e qualcuno che è solo corpo.
Le reciprocità distanti, la prossemica del caos, sentimenti ventriloqui che non comunicano, eutanasie di battiti ed sindromi da shock tossici mascherate da attese.
Gli fa scivolare la canna fra le labbra, nel meccanico riconoscimento istantaneo di precedenti incontri e precedenti attese ingozzate di movimenti e nutrite di scambi.
Dorian esiste in quell'intermezzo fra due respiri, fra la marijuana e il suo effetto, fra l'atto e la vertigine.
Si appoggia alla poltrona sfasciata, spalle, avambracci, gomiti, ginocchia che si incastonano malamente gli uni agli altri, infliggendosi spasmi inarticolati di invasioni.
E trovano il loro spazio.
Dorian gli sistema lo spinello fra le dita della mano destra, ed esita, disegnando strane spirali sul polso pallido e vene bluastre.
Baez distende le gambe sul pavimento cigolante, freddo, umido di miasmi.
La coperta di lana pruriginosa ricamata all'uncinetto rimane appallottolata a caso, drappeggiata malamente attorno alle loro gambe.
Baez inspira ed espira, giocherellando con lo spazio che separa le loro dita dall'intrecciarsi.
Inevitabilità che falliscono nell'essere riconosciute.
Il silenzio che tradisce e fallisce. Contatti.
Esistenze ai spiegate. I vuoti d'aria nel mezzo.
 
My will is pure, I adore
Grief and give all of me
All I have, all I am and all I wish to be
To be part, to be part of your harmony
Still in my mind, I'm in the corner singing of key
Hey...
(Words, Seinabo Sey)




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Note: ebbene, sono passati talmente tanti pleniluni dall'ultima volta che ho postato qualcosa su EFP, specialmente sugli Eroi delle 5, che non mi stupirebbe che qualcuno con la memoria meno tosta di quella di Baez li avesse completamente dimenticati ed erosi dai ricordi come una brutta influenza intestinale. 
Ma questo Natale, quest'anno specialmente, ho sentito il bisogno di riprendere in meno un pezzettino davvero prominenente della persona che sono e restituirgli, se non nuova vita, almeno un afflato di esistenza.
Più volte in questo ultimo anno il linguaggio mi ha tradita, ha fallito nell'esprimere emozioni e significati e ha mancato di restituirmi senso, e so che non è stato così solo per me. Quanso nemmeno noi, fedeli servitrici delle parole e delle interiezioni litighiamo con il linguaggio, è cosa ardua.
E allora Dorian e Baez, che con il linguaggio e le parole sono sempre stati un po' degli outsiders, dovevano per forza tornare in nostro soccorso.
Sono di Giulia, di Elle, di Lucrezia e di Lisa, questi disagiati eroi delle 5 in punto, con il loro Natale anomalo e il loro parlarsi senza parlarsi. Nella speranza di non perdere la bussola delle cose che non diciamo, delle felicità che dimentichiamo e della resilienza che a volte scarseggia. E' passato tanto tempo, é vero, ma quando qualcosa deve essere detto e scritto, bisogna dirlo e scriverlo. Al linguaggio, che ci delude e fallisce e non ci lascia parlare e spiegare, che è incapace di articolore il dolore e la perdita, e la solitudine e lo sconcerto e il panico, ma che difendiamo ancora con le unghie e con i denti.
Alle parole che a volte non sono abbastanza, e a quei vuoti d'aria in mezzo che rianimano esistenze.
Alla voglia di rianimare anche chi credevamo perduto.
Alle cose che si dicono Dorian e Baez e che nessuno riesce a sentire.

Consiglio sempre con il cuore la colonna sonora, e per chiunque non conoscesse questi desolati ragazzini e la loro storia, potete trovare qui la long da cui è tratto questo racconto.

Sono sempre stati loro, e sono sempre loro.
Buon Natale, un po' in ritardo, a tutti.
   
 
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