Father in law and
friends
Sentii Andrew che si alzava da letto
lentamente, in modo che non mi svegliassi.
Sforzo inutile, perché non avevo chiuso
occhio. Da quando eravamo rientrati, la sera prima, mi era stato impossibile
non sentire le parole di quella vipera rimbombarmi nelle orecchie: “Andrew, non
vorrai mica tenerlo, voglio sperare!”. L’aveva chiesto a lui, non a entrambi;
come se la cosa non mi riguardasse direttamente.
Con le mani strinsi un lembo della coperta.
Perché mi stupivo ancora della malignità delle persone? Specialmente se
rispondevano al nome di Evangeline Golden in Allen.
Stavo davvero male. Di certo non mi ero
aspettata i salti di gioia, né tantomeno che spruzzasse felicità da tutti i
pori, ma che mi chiedesse d’abortire, di uccidere nostro figlio…suo nipote, no, quello non l’avevo
calcolato.
Dopo essere scappati da quel posto infernale Andrew
ed io non avevamo proferito parola, né nell’ascensore né in automobile.
Semplicemente non avevamo niente da dire, la situazione parlava da sola.
Tornati a casa, le mie lacrime silenziose si erano trasformate in una vera e
propria crisi. Andy mi aveva portato in stanza da letto e abbracciandomi mi
aveva chiesto scusa.
Scusa per cosa? Certamente non era colpa sua
avere quel mostro come madre!
Gli avevo risposto esattamente in questo modo,
mentre rispondevo al suo abbraccio. Avevamo intrecciato le dita e mi aveva
baciato. Dal bacio, poi, eravamo passati oltre. Sentirlo così vicino a me, il
suo corpo caldo contro il mio, il suo respiro sulla mia spalla, mi aveva
enormemente tranquillizzato; ma di certo non avevo dimenticato, come potevo
farlo?
La sveglia era suonata da quasi cinque minuti,
ma io non mi alzai. Il lunedì non andavo mai in facoltà, in ogni modo non ci
sarei andata lo stesso, ero troppo stanca (sia fisicamente sia mentalmente) per
andare a lezione.
Andrew uscì dalla stanza e sentii
distrattamente la doccia scorrere.
“Pensa ad altro, pensa ad altro, pensa ad
altro…”mi ripetevo con forza, “non hai bisogno dell’approvazione di quel
mostro. Il bambino è vostro, lei non centra.”.
Non ne avevo bisogno, era vero, e lei non
centrava, anche questo era vero, eppure m’importava; per la prima volta da
quando avevo conosciuto Andy e di conseguenza lei, il giudizio di Evangeline
era riuscita a turbarmi. Non mi ero lasciata scoraggiare quando l’avevo
incontrata per la prima volta, anche se mi aveva definito una popolana
emigrante che voleva risalire la scala sociale servendomi del figlio, né
vedendo la sua faccia disgustata al nostro matrimonio.
Questa volta era diverso. Enormemente diverso,
questa volta centrava nostro figlio.
Mi dissi mentalmente che anche se Evangeline
non avesse approvato, non mi sarei fatta condizionare; né da lei, né da nessun
altro.
Il rumore della doccia si spense. Ero
preoccupata per Andrew; lui l’aveva presa molto peggio di me.
Era sempre stato di carattere allegro e
loquace, ma l’espressione che ero riuscita a scorgere sul suo volto non l’avevo
mai vista prima.
Era deluso, arrabbiato e…stupito, anche. Forse
neanche lui si aspettava quel tipo di risposta a una notizia del genere,
Evangeline era pur sempre sua madre.
Sospirai tremante, pensando a quanto fosse
influente la sua figura sulla nostra vita. Anche se affermavamo il contrario,
sia la figura imponente del Dottor Allen che quella elegante di Evangeline ci
sovrastavano.
Rimasi a letto per un bel po’, anche dopo che
sentii Andy uscire e il telefono squillare. Probabilmente era mia madre. Le
avevo detto sarei dovuta andare a cena dalla sua consuocera e forse, ora, voleva
sapere come fosse andata, ed io non avevo alcuna voglia (né tantomeno la forza)
per risponderle in modo sincero. Non avevo voglia di fare nulla. Mi sentivo
stanca e spossata e avevo un filo di nausea.
Quando decisi di alzarmi dal mio rifugio-letto
erano gia le nove. Sposati le coperte con un colpo secco, deciso, e mi rizzai a
sedere sul materasso morbido comperato all’Ikea. Non avevo specchi in camera,
ma anche senza vedermi sapevo benissimo che aspetto dovevo avere: pallida e con
le borse sotto gli occhi rossi, dovuti alla notte in bianco, ero sicuramente un
disastro. Non me ne importava minimamente.
Afferrai a caso dall’armadio i primi jeans che
capitarono e una t-shirt bianca, con sopra scritto “I Love NY”. Andai diritta
verso il bagno e mi fiondai nella cabina doccia.
Normalmente amavo fare la doccia bollente, ma
sulla piccola guida che mi aveva dato la ginecologa, c’era scritto di non fare
bagni con acqua troppo calda almeno per i primi tre mesi di gestazione; quindi
mi accontentai di una temperatura tiepida. Rimasi sotto il getto d’acqua per
più di venti minuti. Il rumore scrosciante delle goccioline contro le
mattonelle della doccia servì a bloccare i miei pensieri; adoravo quel suono,
lo avevo sempre avvertito come rilassante.
Speravo che insieme all’acqua mi scivolassero
sul corpo tutti i ricordi e i pensieri che mi collegavano alla sera prima.
Purtroppo non fu così.
La doccia era servita a calmarmi solo in
parte, ma andava bene lo stesso. Mi asciugai in fretta i capelli neri e
altrettanto in fretta mi vestii. Mentre abbottonavo i jeans, mi ritrovai a
pensare quando la mia taglia quarantadue non mi sarebbe entrata più. Sarei
diventata davvero enorme, a quel sarei riuscita a sentire il bimbo muoversi
chiaramente.
Mentre mi passavo una mano sul ventre ancora
piatto, quei pensieri mi aiutarono a restituirmi un po’ di buon umore.
Scesi in cucina scalza; proprio non riuscivo a
tenere le scarpe, da ginnastica o pantofole che siano, in casa.
Sulla piccola tavola quadrata c’erano un
piatto delle frittelle e un post-it rosso. Lo lessi sorridendo: “Mi dispiace doverti lasciare da sola. Mangia
e di riprenderti, lo so che non hai dormito. Ti amo.”.
Forse sarei riuscita ad arrivare alla fine
della giornata con un umore abbastanza decente, tutto sommato.
Guardai le frittelle nel piatto. Avrei voluto
seguire il consiglio di Andy, ma non avevo per nulla fame. Inoltre la nausea
che sentivo difficilmente mi avrebbe permesso di mandare giù qualcosa. Presi il
piatto e lo misi nel microonde, poi aprii il frigo, un bicchiere di tè freddo
sarebbe bastato.
Cerchiai sul calendario la data 16/10/2008, la
prossima visita dalla ginecologa. Andrew aveva detto di volere accompagnarmi ad
ogni costo ed io ne ero stata enormemente felice.
Il lampeggiare della lucina della segreteria
telefonica attirò la mia attenzione. Sette messaggi registrati, tutti di mia
madre.
Sospirai divertita e schiacciai il tasto della
registrazione. La voce vispa e affettuosa di mia madre si diffuse per la
cucina.
“Tesoro
com’è è andata con la vipera velenosa? Non ha fatto nulla di male, vero?
Richiamami appena puoi. Ti voglio bene.”
Il seguente sembrava un po’ più seccato.
“Si può
sapere che fine hai fatto? Hai intenzione di farmi morire per la
preoccupazione? Perché non mi hai richiamato? Fallo appena puoi!”.
Non ebbi bisogno di sentire gli altri, mi era
facile intuire che avessero tutti lo stesso argomento.
Avrei tanto voluto richiamarla, ma mi dissi
che non era la cosa migliore da fare. Avevo comunque intenzione di andare al
“Al Chiaro di Luna” quella giornata.
Andrew non sarebbe tornato prima delle sette e
non avevo intenzione di restare da sola fino a quell’ora.
Rassettai un po’ la casa, rifeci il letto e
ripulii la cucina, in fine misi in moto la lavatrice. Non amavo fare le pulizie
domestiche, anzi, le odiavo proprio con tutto il cuore, ma mi aiutarono a
distrarmi. Anche perché non ero il tipo che se ne stava con le mani in mano.
Finito il rassetto, salii in soffitta, non ero
riuscita a dedicarmi alle mie “opere” in quell’ultima settimana. Erano gia passati
sette giorni da quando avevo ufficialmente scoperto di aspettare il nostro
bambino, di questo passo mi sarei ritrovata al termine della gravidanza in un
batter d’occhio.
Scossi la testa terrorizzata.
La soffitta non era grande ed era interamente
a mansarda. L’odore di pittura acrilica e tempera era così forte che quasi
asfissiava, ma io lo adoravo. C’erano tre cavalletti di diversa misura sul
fondo della soffitta, due erano ricoperto con un telo, mentre il terzo –quello
incompiuto- era ben visibile. Su tutte le pareti erano accatastate tele su tele
di tutte le dimensioni, a sinistra quelle finite e a destra quelle bianche. Ero
riuscita anche a vedere qualche opera a delle gallerie d’arte di Chelsea,
ottenendo risultati abbastanza buoni dalla critica, ma solo due dei miei quadri
erano stati venduti, a un prezzo neanche abbastanza alto, ma a me andava bene
così; io dipingevo perché amavo farlo e perché era una cosa radicata in me fin
dalla Junior School, non per soldi o per fama. Se poi una delle due cosa
sarebbe arrivate, beh…era comunque più che accetta.
Aprii la finestrella e disposi il cavalletto
con la tela sotto la luce. Volevo dipingere un paesaggio marino, magari una
spiaggia con un mare agitato, per rappresentare come mi sentivo in quel
momento. Il mare era il mio soggetto preferito.
Passai quasi un’ora tra pennelli e pittura.
Quando brandivo il pennello ero un'altra, diceva Andrew. Il mio sguardo si
concentrava e la mia espressione era seria, secondo quello che notava lui.
Anch’io mi sentivo diversa, mentre dipingevo.
Mi costruivo la mia bolla inespugnabile, fatta di silenzio e concentrazione. Tutti
i pensieri scemavano via, nascosti in un angolo della mia mente, mentre
l’immagine fotografica di quello che volevo dipingere occupava il primo posto.
Quando dipingevo, mi sentivo in pace col
mondo, semplicemente perché mi catapultavo nel mio, di mondo, fatto di pittura
e tele bianche su cui dipingere, abitato solo da due persone: me ed Andrew.
Ora, riuscivo a vedere anche un’altra figura; era ancora confusa e per niente
nitida, ma riuscii a intuire chi fosse. Il nostro bambino.
Era tutta concentrata sulla tela, quando il
campanello suonò.
Mi tolsi il grembiule da lavoro scocciata.
Possibile che mia madre non sentendomi
richiamare fosse venuta fino a casa?
Scesi in fretta le scale, sempre scalza, e
arrivai davanti alla porta. Quando guardai dentro lo spioncino, sentii il cuore
accelerare.
“Aprire o non aprire?” mi chiesi mentre mi
mordevo nervosamente il labbro inferiore, questo sì che era un dubbio amletico.
Il campanello suonò di nuovo.
Feci un lungo sospiro a occhi chiusi e aprii
la porta.
L’uomo sulla porta mi guardò attento, -Buon
giorno Judith.- esclamò calmo, sorridendomi.
-Ehm…buon giorno Dottor Allen…-, come mi
dovevo comportare? Fingere che la sera prima non fosse successo nulla?
-Posso entrare?-.
Mi accorsi allora di stare immobile sull’uscio
della porta, dovevo sembrare proprio stupida.
-C…certo! Prego.- e mi spostai per lasciarlo
passare.
Il Dottor Allen entrò silenziosamente,
guardandosi attorno, curioso.
Non era mai stato a casa nostra; o meglio,
c’era stato prima che ci spossassimo, quando ci aveva mostrato il suo regalo di
nozze due anni fa.
Gli domandai se gli andava di bere qualcosa,
mi chiese un semplice bicchiere d’acqua.
Andammo in cucina, dove gli dissi di
accomodarsi.
Cinque minuti dopo eravamo entrambi seduti
intorno alla tavola.
-Mio figlio non è in casa, vero?- mi domandò
dopo un po’.
-No…ehm…è in facoltà Posso dirgli che siete
passato, comunque.-.
-Oh, non sono qui per parlare con Andrew,
quello posso farlo anche oggi pomeriggio in ufficio. Sono qui per te.- per me?
Dovetti assumere un’espressione un po’
confusa, perché il Dottor Allen sorrise e si affretto a spiegare.
-Per quello che è successo ieri sera.-.
Proprio l’argomento che cercavo di evitare con
tutte le mie forze. Perché proprio a me doveva succedere tutto quello?
-Va bene…cioè sto bene…- risposi
immediatamente; dove cercare in tutti i modi di dirottare l’argomento.
-Vedi, - iniziò –mia moglie non è così cattiva
come appare.-.
Arcuai il sopracciglio, scettica. Era della
stessa persona che stavamo parlando?
Accortosi dell’espressione che aveva assunto
il mio volto, il Dottor Allen continuò.
-Ciò che ha detto ieri sera è assolutamente
imperdonabile, questo è più che ovvio, ma dobbiamo vederla anche dalla sua
ottica. Vedi Judith, mia moglie non è sempre stata così…- Stronza? Bastarda?
Mostruosa?
-…così fredda. Ero, e lo sono tuttora, davvero
innamorato di lei. Era una donna splendida, addirittura dolce; dopo…- riuscì a
cogliere la difficoltà con cui stava pronunciando quella frase, capii subito
quale argomento stava per affrontare -…dopo la morte di Lucas è cambiato tutto.
Lei è cambiata.-.
Lucas.
Il fratello di Andrew.
Mi mobilitai immediatamente –Dottor Allen, non
c’è bisogno di far riaffiorare argomenti dolorosi, ho capito cosa intende.-.
-No, invece.-volle continuare –E’ proprio
perché non è mai riuscita a superare il dolore che si è rinchiusa nel suo
guscio. Dopo la morte di Lucas eravamo sconvolti, d’altronde come poteva essere
altrimenti?- lo chiese più a se stesso che a me, -Andrew era molto piccolo e
all’improvviso vide il fratello sparire. Lei voleva parlarne; parlava sempre e
solo di Lucas, in qualsiasi momento. Io no. Faceva troppo male. Non le ho dato
il conforto che cercava, è una colpa che non smetterà mai di perseguitarmi.
Così si attaccò in maniera quasi morbosa ad Andrew, quasi non lasciava
avvicinare neanche me. I problemi sono iniziati quando incamiciammo a mandarlo
all’asilo; non voleva lasciarlo. Andrew cresceva e si distaccava da lei sempre
di più da lei, penso che fosse una risposta involontaria a tutte le attenzioni
che Evangeline gli rivolgeva.- considerò. Io ascoltavo in silenzio. Non avevo
mai affrontato quell’argomento con Andrew, mi mancava il coraggio.
Era il nostro unico tabù, tantomeno avevo mai
preso in considerazione l’idea di domandare al Dottor Allen o a Evangeline del
figlio morto da piccolo.
-Quando Andrew, a diciotto anni, disse di
voler andare a vivere da solo la prese malissimo. Mi preoccupai veramente che
potesse cadere in depressione. Dopo solo pochi mesi Andrew ti presentò come sua
fidanzata ufficiale, fu un vero smacco per lei. L’idea che un'altra donna
potesse occupare il suo posto nella vita del figlio l’era inconcepibile, aveva
paura di te; per questo motivo è sempre stata un po’…crudele nei tuoi
confronti, Judith. Non devi credere che ha questo comportamento perché c’è la
in particolare verso di te, credo che avrebbe assunto questo modo di fare verso
qualsiasi donna Andrew ci avrebbe presentato, indifferentemente da chi fosse o
da quali fossero le sue origini.-.
Non avevo mai visto Evangeline sotto
quest’ottica. Indubbiamente avevo sempre pensato che la prematura morte del
figlio avesse contribuito al suo carattere.
Per la prima volta sembrava quasi umana.
Intanto il Dottor Allen continuava, non avevo
neanche mai visto lui così in difficoltà, -per non parlare di quando arrivò
l’invito del matrimonio. Ho sempre pensato che foste stati più tosto
intelligenti a non venircelo a dire di persona. Cerai di parlare e di calmarla.
Fortunatamente ci riuscii.-, infatti per tutta la durata della cerimonia non aveva
detto una parola., -Ed ora, quest’ultima notizia è stata davvero troppo o per
lei. Dopo che ve ne siete andati, era shockata. Ha paura che questo allontanerà
ancora di più il figlio da lei, non capisce che è stato proprio questo suo
comportamento a far scappare Andrew lontano in tutti questi anni.- il Dottor
Allen sospirò in modo pesante e riprese a guardarmi, -Non ti chiedo di passare
oltre sue parole, ma di non giudicarla come un mostro; è soltanto una madre che
ha paura di perdere un altro figlio.-.
Guardai l’uomo che mi stava davanti come se lo
vedessi per la prima volta. Il Dottor Allen era un uomo meraviglioso.
Cercai di sorridergli dolcemente, -La
ringrazio per aver parlato così apertamente con me di un argomento tanto
pesante. Ho capito tutto, Dottor Allen. Non si preoccupi.-.
-Ho sempre pensato che Andrew è stato
fortunato a incontrarti, Judith. Sei proprio quello che serviva a mio figlio
per capire cosa significa amare. E’ sempre stato diviso tra me, che sono sempre
stato freddo nei suo confronti, e sua madre, che lo asfissiava d’attenzioni
fino al limite. Ti ringrazio.-.
Mi sentii arrossire, mio suocero non mi aveva
mai apertamente rivolto un complimento del genere.
-Io ringrazio voi per essere venuto fin qua.-
risposi educatamente, ero un po’scossa ma la sua visita mi era servita davvero
tanto, ora era tutto più chiaro.
Il Dottor Allen si alzò, dicendomi che ora
doveva scappare per motivi di lavoro. Lo accompagnai alla porta e mentre usciva,
si voltò a guardarmi.
-Posso chiederti di non dire nulla ad Andrew
di questa nostra conversazione? Vorrei parlargli personalmente.-, annui
convinta. Ero più che sicura che avrebbe fatto bene a tutte e due parlare un
po’tra di loro di qualcosa che non includesse il lavoro.
-Oh…sono davvero contento del fatto che
renderete nonno, - aggiunse sorridendo felice –per qualsiasi cosa fatemelo
sapere, va bene?-.
-Certo, Dottor Allen. Buona giornata.-.
-Altrettanto.- e salì nella sua lussuosa
macchina, ritornando d essere la fiera e austera persona che tutti conoscevano.
Quando chiusi la porta, mi batteva il cuore a
mille. Era stata la conversazione più lunga che avessi mai avuto con mio
suocero in due anni di fidanzamento e in due di matrimonio. L’argomento era
stato anche abbastanza pesante, quindi mi sentivo abbastanza scossa. Corsi in
bagno a sciacquarmi il volto.
Avevo bisogno d’uscire.
M’infilai in fretta le Nike grigie e consumate
e mi chiusi la porta di casa alle spalle. Una volta in strada decisi di
prendere un taxi.
L’autista mi chiese dove doveva portarmi ed io
risposi con il primo indirizzo che mi venne in mente –557esima Broadway,
grazie.-.
La Scholastic Corporation era una delle più
grandi librerie di New York. Avevo passato la maggior parte della mia
adolescenza tra quei grandi e colorati scaffali zeppi di libri.
Entrando attraverso le porte automatiche
riuscii a sentire l’odore di carta che contraddistingueva tutte le librerie e
le biblioteche.
Era tutto così familiare. Stranamente quel
giorno non era molto affollato; meglio così, pensai.
Avevo bisogno di distrarmi e non c’era niente
di meglio che passare un paio d’ore immersa tra i libri.
Fino a una certa età restavo tutto il tempo
nella sezione fantasy per ragazzi, dividendomi tra i vari Harry Potter e i
libri di Tolkien. Inseguito, ero passata alla sezione arte, che frequentavo tuttora.
Questa volta, però, sapevo dove dirigermi.
Attraversai sicura tutta la libreria fino ad arrivare a una delle ultime
sezioni: Puericultura.
C’erano così tanti libri sulla gravidanza,
l’educazione e i significati dei nomi che c’era davvero l’imbarazzo della
scelta. Non sapevo esattamente cosa volessi comprare, né se volessi veramente
acquistare qualcosa, sta di fatto che iniziai a prender in mano qualche libro,
sfogliandolo distrattamente. Erano tutti pieni di fotografie di donne col
pancione enorme e di neonati. Erano libri sulla gravidanza, cosa mi aspettavo?
Poi lo notai, era un libricino piccolo,
colorato in modo sgargiante. La copertina recitava: “Baby Yankee. Guida pratica per come sopravvivere da genitori alla
giungla newyorkese.”.
Presi il libricino e lo sfogliai, nessuna
immagine panciuta in bella mostra, solo spiegazioni.
Lo aprii a una pagina a caso e iniziai a
leggere mentalmente.
Mandare
a quel paese la moda.
Non
siete dell’Upper East Side? Bene, mandate a quel paese negozi come “Rosie Pope
Maternity” e guardate oltre. L’abbigliamento non conta in gravidanza. Avete un
bambino che vi sguazza nella pancia, cosa v’importa di cosa indossate?
Mettetevi solo abiti comodi e largi; niente jeans super attillati, maglie iper
strette e borse enormi che v’ingombrano i movimenti. Indossate soprattutto
vestiti e scarpe basse. Ci sono centinaia di negozi premaman a buon prezzo che
aspettano solo voi; e che critichino pure, le super mamme altolocate della
Quinta Avenue, tanto loro faranno crescere i loro figli da tate depresse e
sfruttate. Voi, che da brave mamme vi prendere cura dei vostri pargoli, badate
principalmente alla comodità, al comfort e alla qualità. Una donna incinta è
bella sempre, indifferentemente da quello che indossa, e se gli altri non la
pensano così…beh, problemi loro.
Inseguito, riportava alcuni indirizzi di
negozi premaman consigliati. Lo compro, pensai immediatamente.
-Judith!- mi sentii chiamare all’improvviso.
Conoscevo quella voce, mi girai e vidi Kelly corrermi incontro.
Kelly era la commessa della libreria. Doveva
avere all’incirca quarta o quarantacinque anni, non si era mai sposata e rientrava
in quella categoria di donne che facevano del pettegolezzo il proprio stile di
vita.
Mi guardai intorno, in cerca di una via di
fuga, ma mi aveva gia visto e mi aveva quasi raggiunto.
-E’ vero quello che si dice in giro?- mi
chiese subito, come volevasi dimostrare, senza neanche salutarmi. Inarcai un
sopracciglio scettica e sospettosa.
-Cosa si dice in giro?- la mia voce doveva
essere un po’ acuta.
-Che sei incinta, tesoro!- mi risposa con voce
ovvia ed eccitata –Mi ha detto mia nipote che le ha detto la madre di una sua
amica che aveva parlato con un cliente del ristorante dei tuoi che aveva
sentito dire a tua madre che eri incinta! Allora…è vero?- poi posò gli occhi
sui libri di gravidanza che avevo in mano e il suo volto si illumino.
-Ma allora è veroooooo! Tesoroooo, auguriiii!
Taaaanti complimenti a te al tuo bel maritino! A proposito, dov’è quel graaaan
pezzo di ragazzoooo?-. Come faceva d avere un tono di voce così sottile e
perforante? –Ehm…Andrew è in facoltà.- le risposi –Prendo questo, ok?- e le
posi il libro. Lei annui convinta e la seguii verso la cassa, mentre continuava
a blaterare a proposito di una voce di corridoi che diceva un non so cosa su
una ragazza che molto probabilmente non conoscevo.
Ed ecco finito la mia visita alla Scholastic,
pensai. Mi ero dimenticata che di mattina ci lavorava la signora Kelly; se lei
sapeva che ero incinta, con tutte le probabilità, ne era a conoscenza l’intera
Little Italy. Avrei dovuto affrontare con mia madre l’argomento “privacy” al
più presto.
-Sono 12,30$, tesoro.- mi disse sorridendomi.
Pagai il libro e uscii dalla libreria
sospirando. “Perché capitavano tutte a me?” pensai mentre la signora Kelly
continuava a salutarmi strillando, -Ancora auguroniiii, tesorino!-.
Odiavo stare al centro delle attenzioni, non
era per me. Ero troppo banale e poco loquace. Quel genere d’attenzione erano
più indirizzate per una ragazza come Rosie.
Avete mai sentito il detto “Parli del diavolo
e spuntano le corna”?.
Beh…mai ci fu proverbio più vero.
-Ehm…Judith Allen?- una voce dolce e melodiosa
richiamò la mia attenzione. Mi girai lentamente con la bocca spalancata.
-Oh…ehm…salve…- salutai timidamente.
Rosie Colerine era davanti in tutta la sua dolcezza da bambola
di porcellana. Mi ritrovai di nuovo a pensare alla sua strabiliante luminosità
confrontata con la mia banalità.
Forse avrei fatto meglio a restare a casa a dipingere.
-Possiamo parlare un attimo?- mi chiese lei altrettanto
timidamente. Sapevo gia di cosa voleva parlare.
Che cosa potevo farci? Il suo viso a cuore era troppo
bello per rispondere no.
Così mi limitai a mormorare un flebile –Certo.- e
seguirla.
Si sedemmo ai tavolini del bar vicino alla Scholastic e
ordinammo un tè freddo. O meglio, lei lo ordinò per tutte e due.
-Ecco…non so come dirtelo, - iniziò, ma la bloccai, -Se è
per ieri…-.
-Volevo scusarmi.-riprese in fretta, -non avrei dovuto
accettare l’invito di Eva. Dovevo immaginare che ci fosse qualcosa sotto, mia
nonna mi aveva avvertito.-.
Quella ragazza mi stupiva sempre di più. Le persone belle
e ricce erano cattive, di solito; questo sempre basandomi su esperienza
personale, ovvio.
Possibile che Rosie fosse così bella eppure così gentile
come sembrava?
-Non c’è bisogno di scusarti. Dispiace più a ma per la
scenata.- e le sorrisi. Aveva un ascendete sulle persone davvero strabiliante.
-E’ stata orribile.- continuò –Come ha potuto dirti una
cosa del genere. Ma che razza di madre è?- domandò al vuoto.
Ripensai alle parole che mi aveva detto il Dottor Allen
quella mattina.
-Ha sbagliato, è vero. Ma forse sarà stato solo lo shock
iniziale.-.
-Ad ogni modo, felicitazioni! Voi due formate una bella
coppia.-.
Arrossii e ringraziai -E tu? Non hai nessuno…ehm…-,
ragazzo? Fidanzato?
Mi anticipò lei, -No…mi sono concentrata molto sullo
studio, nell’ultimo anno.-.
-Ah.- sorseggiai un po’ di te senza voglia, anche io avrei
dovuto concentrarmi di più sullo studio.
L’Iphone di Rosie squillò.
-Ora devo andare, - mi disse gentilmente, -anche se per
poco mi ha fatto piacere parlare con te.-.
-Anche a me.- ed era la verità. Sentivo d’avere una specie
d’affinità con Rosie.
Si alzò in modo elegante (ma quanto era bella?!) e mi
guardo –Credo che potremmo benissimamente essere amiche, noi due.-.
Io annuii con convinzione e la salutai.
Chiamai in fretta un taxi e ci salì, diretta verso Little
Italy, prima che mia madre mi desse davvero per dispersa.
Ritornai a casa che erano quasi le sette. Avevo trascorso
tutto il pomeriggio dai miei genitori.
Tutto sommato era stata una giornata abbastanza piacevole,
escludendo certe scene.
Avevo anche scoperto come facesse effettivamente la
signora Kelly a sapere che ero incinta.
Mia madre era riuscita a mettere in atto il suo piano
diabolico; non aveva messo una targa sulla porta del ristorante con scritto
“Donna gravida in sala”, bensì se l’era scritto sul grembiule. Proprio così.
Se ne andava in giro con un grembiule su cui risplendeva
la scritta “Futura nonna. Mia figlia maggiore è incinta.”. Ero rimasta a
guardarla per più di qualche minuto, mentre tutti i clienti si voltavano a
guardarmi.
Mi sentii veramente come un animale da circo. Le avevo supplicato
di toglierselo con tutte le mie forze, ma era stata irremovibile, così ci avevo
rinunciato. Addio privacy.
La mia famiglia era fatta così, e tra gioie e dolori a me
ne andava più che bene. Non avevo, però, potute evitare la domanda –Come è
andata ieri?-. Mi era stato insegnato a non mentire, in qualunque situazione,
specialmente ai miei genitori. Così avevo sospirato e avevo raccontato loro
tutto quello che era successo la sera prima.
Mia madre era diventata un toro, aveva iniziato a urlare a
destra e a manca in italiano –Io quella
la rompo!- oppure –San Gennaro vede e provvede!-, mentre mio padre le
aveva ordinato di smetterla perché spaventava i clienti.
Girai la chiave nella toppa di casa ed entrai.
Non abbi il tempo neanche di capire che ci fosse gia
qualcuno in casa che Andrew mi travolse, letteralmente.
Mi abbracciò stretta, poi mi allontanò di colpo
mantenendomi per le spalle. Io lo guardai sorpresa, sbattendo le palpebre.
-Dove sei stata?- aveva uno strano tono.
Lo guardai confusa, -Dai miei. Ma perché sei così
agitato?- gli domandai.
-Perché? Mi chiedi perché?- era sarcastico –perché ho
cerato di chiamarti per tutto il pomeriggio! Che fine ha fatto il tuo
telefono?-.
Cercai il telefonino in borsa. Quando lo trovai e guardai
il display mi segnalava trenta chiamate perse. –Oh…c’era il silenzioso.
Scusa.-.
–Ero preoccupato.-, ammise in fine.
-Sono incinta non invalida!- esclamai fintamente
scandalizzata.
Andrew mi guardò attentamente, -Per ieri sera, ecco…-, ma
bloccai le sue parole con un bacio. Premetti le mie labbra contro le sue e
intrecciai le mie braccia dietro al suo collo, mentre lui mi circondò la vita
con le sue grandi, accoglienti e amate braccia, rispondendo al bacio.
Quando ci staccammo, per mancanza d’ossigeno, incrociammo
le mani guardandoci negli occhi.
-Mettiamoci una bella pietra sopra, ok?- gli chiese a
pochi centimetri dalle sue labbra.
-Assolutamente.-mi rispose sorridendo e riprendemmo a
baciarci con passione.
Non sapevo se il Dottor Allen gli aveva parlato e non
sapevo neanche come si sarebbe risolta a questione di Evangeline, ma eravamo
insieme.
Andava tutto bene, pensai, mentre Andrew ed io salivamo in
camera baciandoci.
Andava tutto bene.
Aggiornato^^!
Come è questo capitolo? Vi piace?
Ringrazio
chi mi recensisce (AlessandraMalfoy, pirilla88, giunigiu95, Purple), le persone
che hanno aggiunto questa mia piccola ff nei loro preferiti e tra le storie
seguite ma grazie anche a chi legge soltanto!
Un
bacione^_^