Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Ricorda la storia  |       
Autore: Lost In Donbass    30/12/2016    4 recensioni
Tom é un soldato, reduce dell'Afghanistan, scappa dal passato, da se stesso, dai suoi demoni.
Bill é solo, ha una figlia, divorato dalla depressione e dall'attesa.
C'è Loitsche, ci sono i ricordi, le incomprensioni, la passione mai davvero spenta, lettere mai aperte. Bill sta aspettando da due anni. Ma sarà disposto ad aspettare ancora?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Mpreg
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

I'VE BEEN WAITING FOREVER THAT DAY NEVER CAME

CAPITOLO PRIMO: IN YOUR SHADOW I CAN SHINE

I hate my life,
I can’t sit still for
One more single day
I’ve been here waiting for
Something to live and die for
Let’s run and hide

Bill guardava la gente. Non sapeva perché, ma la guardava comunque, seduto sulla panchina nell’unica, piccolissima, stazione di Loitsche, una bambina obesa in braccio e una canzone degli Scorpions da cantare a mezza voce, verso un pubblico fantasma che non avrebbe mai avuto davvero. Non parlava, non chiedeva, semplicemente guardava. Osservava i loro modi di fare, origliava gli stralci di discorsi che poteva cogliere, seguiva le loro destinazioni, a volte aiutava qualche vecchia signora a caricare le valigie sulle carrozze. Tutti conoscevano Bill, alla stazione. Tutti cercavano, anche solo inconsciamente, quel ragazzo anoressico coi capelli corvini sparati dappertutto e il viso troppo androgino pesantemente truccato che se ne stava accoccolato sulla panchina scrostata con quella bambinetta che avrà avuto suppergiù due anni, orribilmente grassa e perennemente sorridente, una macchina da scrivere accanto e un biberon con cui ogni tanto nutriva la bambina. Sì, indubbiamente tutta Loitsche lo conosceva, ma nessuno avrebbe saputo dire chi fosse davvero, di chi fosse la bambina grassa, del perché stessero sulla panchina tutto il giorno, dalla mattina prestissimo, quando solo i pendolari erano in piedi e la bruma era fitta sino alla sera, a quando la stazione chiudeva e nessun treno sarebbe più passato, quando finalmente Bill si alzava sospirando, si caricava la bambina in braccio, afferrava la borsa e si trascinava a casa, ciondolando sui tacchi.
Loitsche accudiva Bill e la bambina obesa, come un guscio di protezione che li avvolgeva e li proteggeva dal mondo esterno, senza sapere nulla di quei due fantasmini che popolavano la stazione ogni giorno, che fosse piena estate o pieno inverno, persino a Natale o al primo dell’anno, aveva creato un microcosmo apposta per loro, in cui nessuno poteva entrare. Il vagabondaggio era proibito, ma nessun agente si era mai sognato di dire a Bill di lasciare libera la panchina, come mai nessun operatore sociale aveva mai indagato sulla sua persona e sulla situazione sociale nella quale viveva quella strana bambina. La figlia di Bill, dicevano, ma era poi vero? Nessuno avrebbe potuto stabilirlo con certezza. A volte, non era raro che qualche anziana signora offrisse loro qualcosa, che Bill accettava con un sorriso dolce, ma poi nessuno gli parlava mai. Lo lasciavano chiuso nella sua bolla di vetro, silenziosa e malinconica. A volte il capotreno aveva tentato di chiedergli perché stesse lì, se volesse aspettare nella sua guardiola, ma lui aveva sempre educatamente scosso la testa, sospirando un po’ più forte, portandosi un grande ombrello rosa quando pioveva e una buffa pelliccia nera quando nevicava. Credevano tutti che Bill fosse pazzo, ma nessuno aveva mai osato farlo ricoverare, come mai nessuno aveva tentato di scoprire qualcosa su di lui e sulla bambina grassa, che, immobile e pacifica come un Bodhisattva, attendeva silente accanto a lui. C’erano stati dei ragazzini che lo avevano seguito quando la sera si alzava e tornava a casa, ma non c’era nulla di strano nella sua figura che ciondolava sui tacchi vertiginosi, il corpo anoressico messo a dura prova dal peso della bambina, e nemmeno quando entrava in una delle tante casette a schiera, chiudendosi la porta alle spalle come ogni persona normale. Non c’era nulla di assurdo nel suo giardinetto curato, e nemmeno nel suo aspetto, forse troppo eccentrico, fosse troppo da transessuale, ma niente di così pesante da considerarlo pericoloso. No, Bill non aveva nulla di strano all’apparenza. Era quello che nascondeva che era strano, illogico e irrazionale, quel suo silenzio coronato dalla malinconia e dalla nostalgia che emanava a onde dal suo essere, la tristezza insita che brillava nel suo dolce sorriso, nei suoi enormi occhi scuri appesantiti dal trucco, nelle lunghe mani che accarezzavano la bambina grassa. Nessuno sapeva cosa facesse per vivere e per mantenere la bambina, e nemmeno perché fosse tornato a Loitsche dopo tutti quegli anni; c’erano alcuni ragazzi e qualche persona che lo conoscevano quando era bambino e viveva lì con sua madre, ma tutti ne avevano perso le tracce quando Simone si era trasferita a Berlino portandosi dietro il piccolo Bill, chiudendo per sempre la porta della vecchia casetta a schiera, illudendo la cittadina di un impossibile ritorno. Ma poi Bill era tornato. Senza Simone, senza bagagli, senza parole e senza racconti, con una bambina in braccio e la chiave della vecchia casa, un sorriso triste dipinto sulle labbra piene e qualche canzone da canticchiare alla sua bambina a mezza voce, una sigaretta tenuta tra le dita lunghe e magre, uno sguardo perso oltre a ogni orizzonte e ad ogni sogno possibile e nessuna risposta alle mille domande che non fosse la novità di starsene sulla panchina. Era tornato a casa da due anni, con la bambina che era appena nata, un mutismo eccezionale, niente da dire e niente da dare, solo tanta malinconia e un sorriso triste per tutti. Nessuno aveva più visto Simone, né l’aveva sentita, tanto da pensare che forse era morta nel frattempo, nessuno che era riuscito a scoprire dove fossero finiti per tutti quegli anni la dolce Simone e il suo bambino, bambino che era riapparso dalle nebbie di Berlino cambiato come solo i sopravvissuti a un incubo possono fare. Aspettava qualcosa, lì alla stazione, qualcuno, si diceva che aspettasse un uomo, come diceva Gustav, un ragazzo che era stato suo amico, quando ancora Bill viveva a Loitsche con sua madre e che pareva sapere misteriosamente qualcosa che nessun altro sapeva. Bill guardava ogni persona, la studiava attentamente come a cercare di trovare in ognuno di loro uno stralcio di familiarità che però sembrava non trovare mai. Guardava, canticchiava, e una lacrima di mascara gli colava sulla guancia ogni sera, prima di alzarsi e tornare a casa, senza aver trovato quello che cercava così disperatamente. Bill era un parte inscindibile della stazione ormai, uno del paese che non si sarebbe staccato da quella panchina e che era protetto da tutta quella gente che se lo ricordava e che aveva deciso di difendere la sua apparente follia dai mali del mondo e da quello che nascondeva quella bambina grassa, per molti chiave del mistero che aveva circondato il giovane ragazzo. C’era chi diceva che quella bambina l’avesse trovata per caso, abbandonata da qualche parte, e che l’avesse adottata per salvarla da morte certa, c’era chi pensava che fossero due fantasmi tornati dalle sabbie del tempo e costretti in terra da una maledizione, chi addirittura era convinto che la bambina fosse solo una proiezione incantata. Ma era comunque un mistero, come l’intero Bill, d’altronde, che viveva ogni giorno alla stazione guardando persone che non conosceva, aspettando demoni che nessuno percepiva.
Però, se nessun abitante di Loitsche si stupiva oramai più della presenza vagamente grottesca del moro e della sua bambina, ci facevano assai caso gli stranieri che giungevano in paese, come quel ragazzo rasta che era appena sbarcato dal treno quella triste mattina d’inverno, la chitarra appesa alla spalla, i dread legati in una coda di cavallo, il berretto da skater calcato in testa, uno zaino militare ai piedi e quell’espressione sul viso bruciato dalla sabbia e dal deserto bollente. Tom Kaulitz era tornato a casa, finalmente. Dopo due anni di assenza aveva rivisto la sua patria, sentito la sua lingua per le strade, respirato l’aria della sua terra natia, aveva mangiato i crauti come quelli che faceva sua nonna, aveva visto di nuovo la sua Berlino. Sì, Tom era tornato a casa. Con la P38 schiacciata dentro ai pantaloni, perché certe abitudini non si dimenticano, le cuffie nelle orecchie con i Led Zeppelin che tentavano inutilmente di sovrastare il rimbombare dei caccia, delle piastrine appese al collo che non riusciva ancora a togliersi. Era tornato, ma si sentiva così fottutamente fuori posto. Perché la guerra faceva male, e Tom lo sapeva, faceva male come una spina che si rompe sottopelle, un dolore impossibile da togliere, un’infezione purulenta e continua che ammorbava il suo sangue e lo avrebbe fatto finché non sarebbe morto. Tom si guardò attorno, inspirando a pieni polmoni l’odore fresco della gelida brezza della pianura pannonica, quel profumo che gli era mancato così tanto, sostituito dalla polvere da sparo e dalla sabbia grigia, l’opprimente calore del Medio Oriente soffocato dal freddo selvaggio e dal profumo dei krapfen nell’aria.  A Tom era mancata casa, gli era mancata follemente. Gli mancavano le strade, la gente, la pace, gli mancava la piccola Loitsche dove passava le estati a casa dei nonni, la sua lingua madre parlata da tutti, la musica libera nelle orecchie, i krapfen e le sacher appena sfornati, la sua chitarra da strimpellare per le strade, il suono del vento della pianura, lo sferragliare del treno, l’acqua del fiume, anche se forse, inconsapevolmente, sapeva che il calore del deserto, il bruciare del sole afghano, le capre che fuggivano ai bombardamenti, il rumore delle granate che scoppiavano, i mitra da ricaricare, quei bambini terrorizzati da salvare anche se forse non avrebbe dovuto, quegli ordini rigidi a cui obbedire, forse erano più suoi di quanto volesse davvero ammettere. Voleva tornare al fronte? Tom avrebbe voluto urlarlo, quel “No, col cazzo”. Ma sapeva che una piccola, infinitesimale, parte di lui suggeriva un lieve “Sissignore” che avrebbe voluto uccidere, ignorare, aborrire ma che inconsciamente resisteva stoico. La guerra fa male, e Tom lo sapeva, ma era come una droga da cui, sapeva anche questo, difficilmente avrebbe potuto disintossicarsi. Era tornato a casa, perché lui laggiù aveva finito, era tornato dalla sua famiglia, aveva cominciato a risentire la sua musica e a suonare la sua chitarra, ricordando con nostalgia tutte le canzoni che suonava prima di partire per l’inferno e non tornare davvero intatto, si era fatto di nuovo i suoi amati dread e aveva ricominciato a mettersi i vestiti da skater, e ora, stava tornando dalle estati che popolavano i sogni afghani. Era tornato ad essere Tom, il buon vecchio Tom, aveva lasciato dietro di sé il soldato senza nome, relegandolo a un fantasma abbandonato nel deserto a cuocere sotto il sole e agli spari senza senso. Anche se, lo faticava ad ammettere, sembrava che l’Afghanistan non l’avesse davvero abbandonato, lasciandogli incatenato nelle narici l’odore del sangue, le orecchie ovattate dal rumore degli aerei, la gola sempre secca in ricordo del vento caldo del deserto che soffiava incessante. E gli aveva lasciato lei, un tangibile e tragico marchio che sembrava volergli urlare sempre “Io sono qui, non ti puoi liberare di me”, che lo legava indissolubilmente alla guerra in cui si era trovato catapultato e dalla quale non si sarebbe mai potuto salvare.
Tom si grattò distrattamente il retro del collo, ritraendo di scatto la mano quando entrò in contatto con la piastra metallica sottopelle, sentendo di nuovo la detonazione tragica, gli occhi di nuovo infiammati dalle vampate di fuoco, un improvviso senso di nausea che non lo lasciava più quietare da quella notte in cui, nella durata di un battito di ciglia, si era trovato a dover affrontare un nuovo pericolo e una nuova storia da scrivere col sangue e con la polvere da sparo invece che con le note di una chitarra elettrica e di una risata. Si guardò intorno, lo skate legato allo zaino militare che non aspettava altro di correre di nuovo per le stradine di Loitsche. Era tutto rimasto uguale alla sua infanzia, la stazione sempre piccola come la ricordava, col vecchio capotreno baffuto che correva avanti e indietro, il treno ormai quasi prossimo “alla pensione”, con i graffiti dei ragazzi del luogo (sì, forse quel graffito poteva anche averlo fatto lui), il cielo della pianura che turbinava di quell’azzurro selvaggio che a Tom era mancato come può mancare l’acqua a un fiume, le nuvole grigio sporco che si rincorrevano nell’immensità del cielo, amalgamandosi e liberandosi come catene celesti, il vecchio baracchino dei krapfen sempre preso d’assalto dai bambini, l’odore forte e caratteristico che solo le vecchie cittadine di confine possono avere, il rumore del treno che sferragliava e della gente che rideva, il vago suono di qualche canzone degli Einsturzende Neubaten che risuonava da qualche casa nelle vicinanze, il lento scorrere del fiume grigio perla che faceva il suo corso pacifico, una pace e una tranquillità che impregnava ogni dove, il suono delle campane della chiesa che suonavano gioiose un nuovo giorno. Quella era casa, per Tom, il luogo pacifico di estati di cui aveva scordato il sapore.
Si incamminò lungo la stradina che usciva dalla piccola stazione, lasciandosi alle spalle il treno e la strada per Berlino, immergendosi nell’atmosfera sognante della piccola Loitsche, con il profumo delle rose e dei ciclamini in fiore appesi ad ogni finestra, un tripudio di rossi e viola, e tenui bianchi dappertutto, così diversi dai cardi inerpicati sulle brulle colline afghane. Aveva voglia di sedersi per terra e suonare la chitarra, a quel punto, suonare fino a farsi sanguinare le dita, cantare le vecchie canzoni della sua infanzia alla gente, dimenticare la guerra, il passato, il fronte, di tornare ad andare sullo skate a fare buffi graffiti sui muri, a bere birra scura nel vecchio pub della nonna di Gustav, già, il vecchio Gustav, chissà che fine aveva fatto in tutti quegli anni. Sarà stato sempre al bancone, con una buona parola per tutti, qualche occhiata ai fianchi di Claudia, il pacchetto di patatine sempre in mano e gli occhiali unti? Sembrava non essere cambiato niente, in paese, tutto rimasto immutato come se da quando fosse partito per l’Afghanistan l’intera Germania si fosse chiusa in una bolla temporale per aspettarlo e ricominciare a vivere una volta che pure lui era tornato in patria. O forse no. Lanciò un’occhiata alla vecchia panchina scrostata, dove solitamente si facevano le dichiarazioni alle ragazze quando erano adolescenti, e dove ora invece stava seduta un ragazzo coi capelli corvini sparati dappertutto, che canticchiava una canzone a una bambina obesa, accarezzandole i capelli neri accuratamente acconciati in piccole treccine. Tom non si ricordava assolutamente che a Loitsche ci fosse una figura così effeminata e grottesca, che canticchiava Leuchtturm, quella di Nena, che piaceva a tutti all’epoca e di cui Tom ricordava ancora gli accordi per la chitarra, che la si intonava sempre la notte di Ferragosto, giù al fiume, due chitarre, un fuoco e tante risate, quel ricordo bellissimo che lo faceva resistere nell’inferno di fuoco del Medio Oriente. Si passò una mano tra i dread, scuotendo la testa, continuando a camminare lungo la stradina, diretto alla locanda della nonna di Gustav, quel bellissimo edificio con i gerani rossi alle finestre e il porticato di legno, con la stalla dietro dove dormicchiava imperituro l’asinello che si usava per il presepe vivente. Entrò dentro, il caldo profumo del gulasch con le patate arrosto che invadeva l’aria satura di birra e patate fritte, le solite panche di legno scuro con i cuscini ricamati a mano bianchi e rossi, il bancone dove stavano i soliti vecchietti che parlavano della guerra e della politica, gli spinatori sempre in funzione, le bottiglie di liquore e di superalcolici sempre mezze vuote che decoravano il retro del bancone, le finestre piccole con appese sotto le gavette di stagno di soldati morti al fronte, qualche fucile da caccia incrociato al muro, la testa di un cervo che incoronava il centro della sala bassa e fumosa. Tom ricordava così bene le serate passate alla locanda, i discorsi sulla politica, i sogni e le speranze affogate nella birra e nel juke-box rosso e giallo che ancora resisteva impavido in un angolo, un po’ scassato, le canzoni che passavano alla radio, e le partite della Germania da vedere tutti insieme ammassati sui divani rossi un po’ bucherellati.
-Tom? Sei … oh cazzo, Tom!
Il rasta non fece nemmeno in tempo a registrare la voce che un barile biondo con gli occhiali unti e un sacchetto di patatine in mano lo travolse con un abbraccio portentoso e un urlo rauco.
-Gustav? Cristo, Gus, mi hai venire un infarto!
Tom strinse il biondo amico, collassandogli addosso lo zaino e la chitarra, il viso tondo e roseo di Gustav mai cambiato davvero, una valanga di ricordi dolceamari a colpirlo come la marea. Loro la notte di Capodanno a farsi praticamente esplodere in mano i fuochi d’artificio, loro giù al fiume a fare le gare di resistenza sott’acqua, loro a correre in bicicletta per andare a comprare il pane dalla vecchia Hilde, loro nella casa sull’albero a leggere i fumetti di Spiderman, loro a nascondere i giornaletti porno sotto le scale, loro a fare finta di fare i compiti e invece via, giù al fiume a nuotare e a seguire la corrente. Loro, e tutti i ricordi di Tom che lo sopraffacevano, i ricordi di un mondo che si era lasciato sfuggire dalle mani come un perfetto idiota quando si era arruolato nell’esercito.
-Schifoso pezzo di merda, sei tornato, finalmente.- Gustav lo guardò, un sorriso franco stampato sul viso grassoccio, quella che lui non avrebbe mai ammesso essere una lacrima di gioia a corrergli lungo la guancia.
-Sono tornato, amico. Dopo due anni all’inferno.- sospirò Tom, un magone che aveva imparato a controllare che tornava a premergli nel fondo della gola, la gioia di non essere stato dimenticato dagli amici di una vita. Sì, era tornato, tutto lo stava urlando, tutti i sensi all’erta. L’odore della guerra che lo impregnava. – Sei … sei lo stesso di prima, eh?
Gustav lo guardò, guidandolo al bancone, una frecciatina che forse era amara o forse era ironica, il rasta non lo capì mai
-Solo tu sei cambiato, amico. Qui siamo rimasti tutti ad aspettarti. Allora, cosa mi racconti di questi due anni?
-Tutto e niente, Gus. Inferno. E questa.
Tom si sedette al bancone, e picchiettò con le dita dietro l’orecchio destro, lasciando che Gustav lo guardasse con aria inorridita, non stupendosi nemmeno quando lo afferrò per le spalle e urlò, sputando pezzi di patatina, agitato e spaventato esattamente come suo padre quando lo aveva visto
-Tu … tu mi stai prendendo in giro! Che cazzo hai in testa!?
-Una granata.- rispose Tom, scuotendo i dread, un sorriso amaro stampato sul viso ancora bellissimo, ancora innocente, ancora infantile. Guardò il biondo, amareggiato, lo stesso sguardo e la stessa voce piatta che sfoderava ogni volta che qualcuno gli chiedeva qualcosa su quella guerra per cui era partito senza un motivo, senza una morale – Un’esplosione al campo, di notte. Ci avevano bombardati. E io ne porto la prova tangibile, per sempre. Se la tolgono, sono morto davvero.
-Non sei morto perché hai sempre avuto un culo della madonna, no?- Gustav lo guardò storto, forse arrabbiato, forse terrorizzato, forse solo stanco di aspettare un amico perduto.
-Non guardarmi così, Gus. Lo sapevi, quando sono partito ma ora sono di nuovo qui, quindi, per favore, sorridi. Ho visto fin troppe lacrime in Afghanistan per poter sopportare le tue.- Tom sorrise dolcemente, occhieggiando le solite birre.
Gustav scosse la testa, cominciando a spinare una rossa, leggendo negli occhi scuri del rasta tutto quello che non avrebbe voluto esserci letto. C’era traccia di rimorso, per una vita strappata e lacerata, per una scelta assurda e incomprensibile, per una serie di eventi concatenati che non avevano fatto altro che rovinare esistenze, c’era la polvere di ricordi brucianti e presenti esattamente come la scheggia di bomba conficcata nella testa, qualcosa che avrebbe perseguitato i suoi sogni per tutta la sua esistenza, un morbo incurabile che gli aveva attecchito alla mente come un cancro, c’era la consapevolezza di appartenere oramai a un  mondo inconciliabile con quello in cui era nato, di aver buttato tutta la sua giovinezza nel fuoco, di essersi ucciso con le proprie mani, come se quella scheggia se la fosse infilata da solo nella testa. Senza nemmeno rendersene conto, Gustav guardò le mani di Tom, quelle mani lunghe e callose, che ricordava correre sulle corde della chitarra, dare pacche sulle spalle, stringersi attorno ai boccali di birra scura, ma ora non poté fare a meno di immaginarle sporche di sangue, polvere da sparo e sabbia, incrostate di odori e microbi che non si sarebbero mai potuti cancellare. Glielo sentiva addosso, l’odore della guerra, della distanza, l’odore dei soldati, dei reduci, lo stesso odore che avevano gli anziani del posto quando erano bambini, che raccontavano delle vecchie storie della Seconda Guerra Mondiale, l’odore che loro, i figli della pace, pensavano di non dover mai avere addosso ma che, guarda caso, quello che tra loro più predicava la pace, la musica libera, il movimento punk degli esordi, portava appiccicato ai vestiti e alla pelle come una cortina di fumo impenetrabile. Tom puzzava di guerra, Gustav lo sentiva. Puzzava di morte e di notte insonni sotto le stelle afghane a piangere lacrime che cadevano su terre infeconde. Erano tanti, gli amici del rasta che erano rimasti sconvolti quando lui era partito. Avevano tutti passato due anni a chiedersi perché proprio lui fosse andato verso un destino incerto e drammatico, perché lui fosse crollato così, chi o cosa lo avesse spinto a fuggire dalla Germania per imbarcarsi verso l’Acheronte. C’era chi aveva detto che era partito per protesta contro il sistema, come diceva sempre quando erano ragazzini, per prestar fede ai suoi giuramenti di rivolta. C’era chi era convinto che fosse partito costretto da suo padre, spedito verso la morte e l’orrore da un uomo che non l’aveva mai amato come si dovrebbe amare un figlio. C’era chi diceva che l’avesse fatto per sperimentare nuove cose, per la sua fissa di provare sulla pelle tutto quello che leggeva e che vedeva al cinema. E poi c’era Gustav, che aveva sempre sospettato che fosse scappato per l’amore di un uomo. Ma in fondo erano tutte storie, perché Tom non aveva mai risposto a nessuna delle loro domande.
-Mi eravate mancati tutti, lo sai?- Tom bevve un sorso di birra, giocherellando distrattamente con un dread, guardando con aria sognante fuori dalla finestrella.
-Come tu eri mancato a noi, ovviamente.- Gustav sorrise, guardando l’amico e la sua espressione persa nel vuoto azzurro del cielo. – Siamo rimasti tutti ad aspettare il tuo ritorno, la tua chitarra e le tue cazzate punk.
-Non sono cazzate.- mugolò Tom, sorridendo stancamente – Sono i fondamenti. Comunque, Gus, prima di chiamare gli altri … ho notato una cosa strana.
-Che cosa, T.? Non dirmi che sono ingrassato, perché lo so da solo, grazie.
-A parte quello, no, è che è tutto rimasto uguale a quando sono partito. Tranne per una cosa.- Tom si alzò, portando il biondo dalla finestra, indicando la stazioncina dove il piccolo treno era oramai fermo. C’era quel ragazzo che sembrava un trans seduto sulla panchina scrostata, le lunghe gambe accavallate, la bambina obesa in braccio, impegnato a farle bere il latte dal biberon, il capo dolcemente piegato da un lato, la cascata di capelli neri con le ciocche bianche sparate dappertutto che lo facevano sembrare uno strano angelo caduto. – Chi è quel ragazzo? Non me lo ricordo assolutamente.
Gustav sospirò, togliendosi gli occhiali dal naso e pulendo le lenti, lentamente
-Si chiama Bill.- rispose, inforcando gli occhiali – E’ un ragazzo del posto, solamente che si era trasferito a Berlino quando  eravamo piccoli, avremmo avuto suppergiù sette anni. Tu venivi ancora troppo poco per ricordartelo. E’ tornato due anni fa.
-Ah.- Tom assottigliò gli occhi, scuotendo la testa – Ha un che di familiare, credo … ma quella bambina è sua figlia?
-Non lo so, in realtà.- il biondo alzò le spalle, sospirando triste – E’ strano, T.
-Ma che ci fa laggiù su quella panchina, con sto freddo?- Tom si affacciò dalla finestrella.
-Sono due anni che non fa altro che stare lì seduto con la piccola, che piova o ci sia il sole, che nevichi o che ci sia tempesta.- Gustav guardò Bill che stampava un bacio sulla fronte della bambina e le prendeva le manine grasse tra le sue.
-Ma … è normale?- Tom strabuzzò gli occhi, seguendo con lo sguardo Bill che si alzava dalla panchina, barcollando incerto, mentre prendeva la piccola in braccio, caricandosela con evidente fatica tra le braccia, senza vedere le grosse lacrime di mascara che gli correvano lungo le guance pallide.
-Certo, amico.- Gustav fece un sorriso amaro – Lo conoscevo benissimo, quando eravamo bambini, non è pazzo. Sta solamente aspettando.
-Che cosa dovrebbe aspettare?- Tom lo guardò incuriosito, un improvvisa fitta alla testa che ogni tanto il pezzo di granata gli infliggeva.
Gustav scosse la testa, continuando a seguire con lo sguardo Bill che ciondolava verso casa con la sua piccoletta abbarbicata in braccio.
-Sta aspettando il ritorno di un soldato.

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Lost In Donbass